Il canto IX dell'Inferno [Anna Cerbo]

Dati bibliografici

Autore: Anna Cerbo

Tratto da: ectura Dantis 2002-2009. Omaggio a Vincenzo Placella per i suoi settanta anni

Editore: Università degli Studi di Napoli "L'Orientale", Napoli

Anno: 2011

Pagine: 397-414

Nel canto IX dell'Inferno si descrive la Città di Dite collocata nel sesto cerchio, dove sono puniti gli eretici che giacciono dentro tombe scoperchiate e infuocate, collocate in una pianura ampia e deserta. Il canto, che forma un dittico col precedente, intreccia memorie letterarie e memorie bibliche, evocazioni dalle Visioni medievali e dalla letteratura escatologica musulmana: rappresenta una delle sintesi culturali più consistenti del poema dantesco.
AI di là della tecnica compositiva che si incentra su una situazione di contrasto tra i diavoli e l'angelo attorno a una città assediata e dei procedimenti teatrali basati sull'improvviso e sull’imprevisto cambiamento di scena, il canto merita attenzione per lo spessore allegorico , per la tensione morale del pellegrino e per il senso anagogico di cui si impregna la scrittura poetica. Il racconto del viaggio si arresta per cedere il posto a drammatiche sequenze interiori. Dante torna ad esprimere la propria incertezza nell'impresa (come nel canto II), il timore che il viaggio non possa continuare. Racconta l'intensità della propria lotta interiore nell’itinerario a Dio, perché ritornano ulteriori impedimenti morali dopo quelli della selva. Buona parte del canto IX è la rappresentazione allegorica della guerra interiore di Dante viator. La tensione del pellegrino verso la salvezza si sente in più di un verso, nonostante le amplificazioni delle proprie difficoltà.
L'esordio del canto IX dell'Inferno continua e commenta l’explicit del canto precedente, in tono quasi sentenzioso, per creare maggiore effetto sul lettore: Virgilio, accortosi della sfiducia che il proprio tornare indietro vinto — dinanzi al rifiuto opposto dai demoni — aveva suscitato nel pellegrino, cercò di dissimulare subito il sentimento di ira, sforzandosi di riprendere in volto il suo colorito normale. Virgilio era rosso per l'ira (cfr. il v. 121 del canto VIII: «Tu, perch'io m'adiri, / non sbigottir») e Dante era diventato pallido e smorto per la paura. Il pallore di Dante reprime l’ira o vergogna e sdegno di Virgilio («ristrinse»=«ricacciò dentro», spiega Tommaso Casini) .
Non interpreta così Lodovico Castelvetro, il quale dice che Virgilio aveva dimostrato di aver paura «a due segnali, cioè alla pallidezza ed alla parole», perciò per rassicurare Dante «cercò d’annullare subito i predetti due segnali», ritirando dentro di sé la pallidezza e cercando di «correggere» (traslato di ricoperse) «le prime parole, in apparenza dubitative, con le secondo affermative» . Già a conclusione del canto precedente Castelvetro aveva chiosato a proposito dei versi Tu, perch’io m’adiri, / non sbigottir:

L’aver gli occhi alla terra e l'aver le ciglia rase d'ogni baldanza non sono segnali che altri s’adiri, ma sono segnali di paura, e che non gli venga fatto quello, che s’aveva divisato.

Castelvetro osserva pure che la «pallidezza era colore nuovo in Virgilio, perché infino a qui non ha mai avuta paura, né mutato colore, se non ora» .

Il tornare in volta è un traslato militare. Landino ricorda che un esercito era «messo in volta» quando era sconfitto e fuggiva voltando le spalle al nemico ; identico è il commento di Castelvetro («Tornare in volta. Questa è traslazione presa da uno esercito sconfitto, che fugga dalla faccia de’ nemici») . Anche qualche altro canto inizia con un linguaggio militare.
Mi sembra opportuno notare la parola «viltà» al primo verso: «viltà» non «paura». All’inizio del canto IX Dante confessa la propria «viltà», quella stessa che nel canto II, 45, gli era stata rimproverata da Virgilio («l’anima tua è da viltate offesa»). Più che non far preoccupare Dante, Virgilio vuole che il discepolo non sia vinto dalla «viltà», ovvero dalla «pusillanimità». Non per caso nel canto precedente, v. 91, ritorna anche l'aggettivo «folle» («Sol si ritorni per la folle strada») che rinvia a «venuta folle» di Inf. II, 35; ed è altresì presente l'aggettivo «ardito» («che sì ardito intrò per questo regno») nel significato negativo, e non positivo di «buono ardire» di Inf. II, 131, che altrove troviamo in coppia con «forte» («ardito e forte» in Inf. XVI). Volutamente nel canto VIII dell'Inferno il Poeta ripropone la concentrazione semantica del II canto.
Non potendo guardare lontano per l’aria cupa e per la nebbia fitta, Virgilio si fermò per ascoltare, in attesa del messo celeste promesso: quel «tal che per lui ne fia la terra aperta» (VIII, 130), un essere divino, «sanza scorta». È senz'altro utile, per l'intelligenza del senso morale e spirituale dei versi danteschi, riportare l’interpretazione della seconda terzina data da Alessandro Vellutello:

E moralmente, sa l'umana ragione, come di sopra abbiamo già detto, che là, dove è la buona voluntà, se avien che manchino l’umane forze, Idio suplisce col suo divino aiuto; ma l'occhio, cioè, ma l'umano intelletto, per l’aer nero, per l'intendimento oscuro, e per la nebbia folta, e per la molta ignoranzia, non lo potea menar a lunga, non poteva intender quando, e come tal divino aiuto dovesse venire, per non esserne capace; e però si fermò ad aspettarlo, com'uom ch'ascolta, come uomo il qual aspetta di sentir venir quello, che non può vedere, non essendo la divina grazia cosa, che si possa discerner con l'occhio corporale, ma sì ben dentro l'animo sentire .

La terza terzina, che è un parlare a sé di Virgilio, ha richiamato l’attenzione di quasi tutti i Commentatori che hanno colto nell’ambiguità della guida il dubbio di portare a compimento l'impresa, oltre ad indicare la forma metatetica di derivazione popolare, come ha fatto il Buti («Et è qui metatesi, figura di grammatica, per la quale si trascurano le lettere per la rima, o forse quello che noi diciamo pugna altro linguaggio dice punga, cioè gara») . La terzina si apre con un'affermazione di Virgilio: «Pur a noi converrà vincer la punga» (è sicuro che noi vinceremo il contrasto), seguita dalla perplessità del Poeta latino resa attraverso la frase volutamente lasciata sospesa: «se no...», ma subito smentita: «Tal ne s’offerse. / Oh quanto tarda a me ch’altri qui giunga!». Porena cogliendo in Virgilio un momento di dubbio, scrive: «Ma subito Virgilio tronca, e ripete parole di fiducia» .
Quasi tutti i commentatori antichi, rifacendosi a Inferno II vv. 85 sgg., leggono nell’indeterminatezza dell'espressione «Tal ne s’offerse» l’allusione a Beatrice. Alcuni esegeti vi leggono Dio, che permette il viaggio di Dante, oppure la Vergine che ebbe per prima il pensiero di venire in soccorso di Dante. Nell'edizione Petrocchi leggiamo «Tal ne s'offerse» (cioè: ‘così potente essere si offrì in nostro aiuto’, come in Inferno I, 62: «mi si fu offerto / chi per lungo silenzio parea fioco»). Il senso è questo: ‘noi vinceremo la battaglia, perché se non la vincessimo, l'angelo non si sarebbe offerto di venire’. Nell'edizione Sanguineti, invece, si legge «Tal ne sofferse» , cioè ‘tale ce lo permise”, ‘tale sofferse che noi scendessimo quaggiù’, oppure, secondo una lezione che lega il significato del verso alla esitazione precedente: «tale, di tanta forza è chi ci ha fatto resistenza...». Anche il Buti aveva voluto leggere «sofferse», ma con ben altro senso, ovvero con significato teologico:

Questa è una orazione imperfetta secondo il grammatico, che non ha verbo principale; ma ella si dee supplire in questo modo; cioè se non la vinceremo per noi, tal ne sofferse, cioè sostenne pena; e questo fu Cristo nostro Salvatore, che ce la farà vincere [...] .

Ci sono rimandi e corrispondenze espressive all'interno dei canti VIII e IX dell'Inferno. La forma «Tal ne s'offerse» è identica e altrettanto indefinita come la forma di Inferno VIII, 105 «da tal ne è dato» («Non temer, che il nostro passo / non ci può tòrre alcun: da tal n'è dato»).
Nell’esclamazione del v. 9 («Oh quanto tarda a me ch'altri qui giunga!») si esprime l’impazienza nell'attesa del soccorso celeste: altri, cioè quel tal del verso precedente e di VIII, 130. Dante fa vivere al pagano Virgilio il sentimento di attesa e di speranza, fondamentale per il cristiano e prova di fede. Il v. 9 suona quale invocazione della Grazia come nel Purgatorio di san Patrizio, quale sublime trionfo della fede sulla ragione. Alla vergogna della guida per la sconfitta, in presenza del discepolo, fa seguito la mortificazione di essere stato incapace di portare a termine il compito affidatogli da Beatrice. L'intento allegorico si fa chiaro: per scendere nell’Inferno la guida della ragione non è più sufficiente, diventa necessario il soccorso divino. Anche Dante, prima disorientato dall’opposizione dei diavoli, poi insospettito dalla reticenza con cui la guida aveva lasciato a metà la frase («se non...»), si preoccupa che Virgilio non possa guidarlo per i cerchi inferiori dell'Inferno. Pertanto, con estrema accortezza, rivolge al Poeta latino questa domanda generica ma ben mirata, in cui torna a definire la pena delle anime del Limbo, di essere cioè eternamente private della speranza di vedere Dio:

In questo fondo de la trista conca
discende mai alcun del primo grado,
che sol per pena ha la speranza cionca?

Il sintagma metaforicamente pregnante «speranza cionca» rinvia a Inferno IV, 42, dove si legge: «che sanza speme vivemo in disio», e per contrapposizione a «speranza buona» di Inferno VIII, 107. Virgilio intuisce subito il senso della richiesta e, per allontanare dal pellegrino ogni ombra di timore, finge di essere stato un'altra volta nelle mura della Città di Dite, anzi dice di essere disceso nella parte più bassa dell'Inferno, in virtù delle arti magiche di Eritone, alla quale fa cenno Lucano nell'episodio di Sesto Pompeo (Pharsalia VI, 507 sgg.). La finzione di un precedente viaggio agli Inferi si legge anche in Aen. VI, 562-565, in una situazione analoga, quando la Sibilla rassicura Enea di una sua discesa all’Averno per volontà di Proserpina. Per Aldo Vallone si tratterebbe di una «finzione pedagogica», all’interno di un poema con dichiarate finalità didattiche. Molti critici hanno tratto spunto da questi versi per avanzare l'ipotesi che Dante seguisse l'opinione popolare

[...]

nelle lingue neolatine, invece, tra i diversi significati assunse quello di servo e Dante usa la voce «meschine» con questo significato). Scrive Castelvetro che «Meschine sono servigiali e fanti, e così ancora oggidi si nominano le fanti in alcuna parte d’Italia, e specialmente in Valtellina» . Per la paura che le Furie gli incutevano Dante si accostò a Virgilio in atteggiamento confidenziale e in cerca di protezione.
Commentatori antichi e moderni si sono impegnati nella interpretazione morale e allegorica della rappresentazione dantesca delle Furie: il peccato in generale e le diaboliche illusioni che distraggono dalla contemplazione delle cose divine; e ancora la superbia, ira, l'eresia, il rimorso. Pare più soddisfacente l’interpretazione dei commentatori Pietro di Dante e Benvenuto, secondo la quale nell’Inferno esse simboleggerebbero il rimorso e il tormento del rimorso . Iacopo Alighieri (Chiose alla Cantica dell’“Inferno” di Dante Alighieri attribuite a suo figlio Jacopo), seguito dall'Ottimo (L’Ottimo Commento della “Divina Commedia”), spiegava che le tre Furie rappresenterebbero la «prava cogitatio», la «prava elocutio» e la «prava operatio». Lo Scartazzini vi vede simboleggiato l'impietramento della coscienza . Il Pascoli l’accecamento e la bestialità .
Quanto alle tre Furie Benvenuto commenta:

Per comprendere il loro significato, bisogna brevemente sapere che queste tre Furie infernali sono da tutti i poeti rappresentate in numero di tre, perché da esse viene causato ogni male: con il pensiero, la parola e l’azione, per cui sono dette Aletto, Tesifone e Megera [...] e sono dette a ragione furie infernali, perché inducono l’uomo al furore e alla furia di ogni forma di delitto .

Il portamento e l'aspetto femminile (l'edizione Petrocchi riporta «membra feminine», l'edizione Sanguineti trascrive «membra feminile») fanno allusione al fascino della tentazione, all’allettamento del peccato.
Ricorrendo sia alle fonti scritturali sia a quelle mitologiche, Dante mette in iscena una sacra rappresentazione, o meglio il bellum intestinum, il travaglio spirituale che conduce alla salvezza; rappresenta come la tentazione, il peccato, i timori e le perplessità cerchino di ostacolare il proprio viaggio verso la salvezza . Jacqueline Risset individua nelle Furie (figure di gruppo come i centauri) una «frenesia eccessiva e stupida», simile alla frenesia che «caratterizza la schiera dei diavoli di tradizione medievale intenti a trafiggere con roncigli i barattieri immersi nella pece bollente» . In particolare l'episodio delle Furie, nel cui guardare verso il basso si coglie un ulteriore ricordo biblico, per esempio del Psalmus 16, 11 («Statuerunt oculos suos declinare in terram»), è segnato da una forte tensione drammatica e sembra imitare i toni drammatici della tentazione di Cristo da parte del diavolo in Mt. 4, 1-7. La propria esperienza è intesa da Dante come imitatio Christi. In questo momento del viaggio Dante viator non è solo spettatore, ma attore e attento a vigilare sulla guida. In questo senso il pellegrino della Comedìa si avvicina al protagonista del Purgatorio di san Patrizio e al protagonista del poema persiano Sayr al-’Ibad ilà ‘l-Ma’ad (Il viaggio nel Regno del Ritorno) di Sana’î . Nei canti VII e IX dell'Inferno si coglie il senso escatologico, salvifico del «ritorno dal viaggio», vivo nel poema persiano e nel Purgatorio di san Patrizio. Essendo ancora in vita Dante sa che, dopo il viaggio nell'aldilà, deve ritornare sulla terra, diversamente sarebbe dannato: «Pensa, lettor, se io mi sconfortai / nel suon de le parole maledette, / ché non credetti ritornarci mai» (VIII, 94-96).
Molteplici sono i significati che gli antichi e i moderni studiosi hanno attribuito a Medusa, dotata delle facoltà di impietrire, cioè rendere stupidi e insensati, quanti osano guardarla. Per il Lana è simbolo delle eresie; per Pietro di Dante (Petri Allegherii super Dantis ipsius genitoris “Comoediam” Commentarium) e per Benvenuto è il terrore con cui le Furie cercano di allontanare il pellegrino; per Iacopo di Dante è l'agire contro ragione; per l’Ottimo , l’Anonimo (Commento alla “Divina Commedia” del secolo XIV) e il Buti è l'oblio del male, la dimenticanza. Il Boccaccio, invece, riconosceva in Medusa l’allegoria della ostinazione nel male:

Delle quali cose possiamo al nostro proposito racogliere sotto il nome di questa Medusa essere, come di sopra è stato detto, chiamata la ostinazione, in quanto essa faceva chi la riguardava divenir di sasso, cioè gelido e inflessibile .

Da parte sua il Castelvetro così spiegava la premura di Virgilio nel tal voltare indietro il discepolo e nel coprire anche con le sue mani gli occhi di Dante («...ed elli stessi / mi volse, e non si tenne a le mie mani, / che con le sue ancor non mi chiudessi») :

Medusa adunque sono i beni del mondo; il vederla s'è porre in loro amore e fidanza; il rivolgersi a dietro s'è il fuggirgli di sua spontanea volontà; il chiuder gli occhi, che fa Virgilio a Dante con le mani, sono i consigli e i conforti degli uomini santi, che non ci lasciano indurre ad amarli .

Vedere Medusa avrebbe significato la fine della contemplazione delle cose divine («Nulla sarebbe di tornar mai suso»). Trai Commentatori moderni Carlo Salinari, Sergio Romagnoli, Antonio Lanza e Jacqueline Risset vedono in Medusa il simbolo del dubbio religioso, che paralizza la volontà umana e rende l’uomo insensibile come pietra; Auerbach (1971) vi coglie l’allegoria dell'oblio. Critici come Rossi, Pellegrini, Venturi, Steiner, Marcazzan intendono le Furie come rimorsi e Medusa come disperazione .
Il senso allegorico e il senso morale presenti nell'episodio dell’apparizione delle tre Furie e nel racconto successivo spiegano l'appello di Dante al lettore affinché abbia un «intelletto sano» - secondo quanto si legge nel Convivio IV, 15, 11, l'intelletto è “sano” «quando per malizia d'animo e di corpo impedito non è ne la sua operazione») —, invitandolo a uno sforzo di intelligenza per comprendere il senso riposto nei versi oscuri, che parlano di verità profonda che sta sotto il significato letterale.
Mario Marcazzan, cercando di «pesare, per quanto è possibile, le parole di Dante», osserva:

strani egli definisce i propri versi in ordine alla materia inusitata e favolosa ch'essi accolgono, non già in ordine all'allegoria e tanto meno al significato ch'essa adombra [...]. E quanto agli intelletti sani, credo Dante intenda molto semplicemente non guasti e non fuorviati da errore. Quale errore? Per Dante errore, nell'ordine religioso e morale, non può essere che il discostarsi dalla dottrina della Chiesa [...] .

Dante sta affrontando la parte più difficile del suo viaggio infernale; vuole pertanto sottolineare i gravi ostacoli da superare per salvarsi, quali le tentazioni (i diavoli), il rimorso della vita passata (le Erinni), infine il dubbio religioso e la disperazione della salvezza (Medusa). Se l’Ottimo invitava il lettore a scovare il senso allegorico intenso e riposto nell’Appello di Dante al lettore:

In questa parte l'Autore rende attento lo lettore a ficcar lo intelletto a quello che si finge, e allegoricamente s'intende, e che è coperto dal velamento di quelli versi di sopra, li quali trattano di materia strana da noi, così perché è materia non usata, così perché questi esempli trattano di gente straniera da noi, cioè di quelle tre Furie, le quali per loro essere sono stranie, e non dimestiche nostre ,

il Castelvetro ne esplicitava il contenuto, dichiarando che «la dottrina, che s'asconde sotto il velame degli versi strani, s'è che non dobbiamo amare i beni di questo mondo, né guardargli, e non cl dobbiamo fidare delle forze nostre, ma dobbiamo ancora prendere consigli e conforti in fuggirgli da gli uomini, che ci sono stati dati da Dio per maestri e per guide» .
L'arrivo del Messo celeste: «Ben m'accors'io ch’elli era da ciel messo», cioè inviato da Dio («de celo missus» si legge nell’Epistola ai Cardinali), in contrasto con i diavoli «dal ciel piovuti» in Inferno VIII 83, è introdotto da un modulo virgiliano «E già» («E già venia su per le torbide onde / un fracasso d’un suon pien di spavento»), modulo che nel poema si alterna al modulo biblico «Ed ecco». Per la maggior parte degli interpreti si tratta dell'arrivo di un angelo; per alcuni, come Toffanin , di Enea; per altri di Mercurio; per qualcuno di Cristo. Sia le onde torbide, sia il fracasso che desta spavento, come annuncio di un favore che Dio ci largisce, richiedono un’esegesi morale come questa di Alessandro Vellutello:

Dice adunque che già venia su per le torbide onde, intese per le triste e meste cogitazioni, di che abbiamo veduto la mente del poeta, per la resistenza fatta a la parte ragionevole da’ ministri de le diaboliche, esser oppressa. Un fracasso d'un suon pien di spavento: perché i teologi [...] vogliono che a principio, quando questo favor divino discende in noi, dia spavento e terrore; ma che in fine assecuri e sia di molta giocondità .

Il Messo divino è annunciato da un fracasso spaventevole, come in At. 2, 2, non diverso (in latino haud aliter) da un vento impetuoso per l'attrazione delle masse d’aria fredda verso quelle di aria calda. Il paragone ancora una volta trae ispirazione da Virgilio (Aen. II, 416-419 e Georg. II, 440 sgg.), da Lucano (Phars. I, 389 sgg.) e da Stazio (Theb. VII, 65 sgg.). L'evento naturale precede la manifestazione del soprannaturale che genera timore e sgomento. Per l'immagine del Messo, che «passava Stige con le piante asciutte», c'è una memoria interna alla Comedìa: l'immagine delle anime dei savi che nel Limbo camminano sul fiumicello «come terra dura» , e una memoria biblica, Mt., 14, 25: il miracolo di Cristo che cammina sulle acque del lago di Tiberiade. Dante vuole rappresentare la superiorità e la sicurezza del Messo (sicuro della vittoria e giustamente sdegnato: pieni di disdegno), libero da ogni legame col male. Più di mille anime dannate fuggono dinanzi al procedere della creatura celeste («Come le rane innanzi a la nimica / biscia...») . Anche questa similitudine, di derivazione ovidiana (Metamorfosi VI, 370-381) è fortemente realistica. L'«aere grasso» (dal latino crassus = denso e pesante), che il Messo rimuove con fastidio, passandosi spesso sul viso la mano sinistra (v. 84), è l'allegoria del vizio e del peccato.
Virgilio invita Dante a inginocchiarsi dinanzi al Messo, in segno di umiltà e di devozione («e quei fé segno / ch'i’ inchinasssi ad esso») , come dinanzi all'angelo nocchiero in Purg. II, 28 e all'angelo che custodisce la porta del Purgatorio (Purg. IX).
Il silenzio composto del Messo contrasta con la «stizza» e con la rumorosa ribellione dei diavoli («grande stuolo»: VIII, 69, «più di mille in su le porte»: VIII, 82). La sua verghetta è simbolo del trionfo, senza fatica, del bene sul male. Pietro di Dante ricordava l'episodio biblico del bastone di Aronne (Nm. 17) e l’Ottimo scriveva:

[...] dinota la giurisdizione, e signoria della quale Iddio investì questo Angelo, lo quale egli costituì in questo officio, sì che gli diede balia che pertenesse, e che fosse necessaria a ciò: e questa è la verghetta .

Molto interessanti e acute sono le considerazioni di Riccardo Bacchelli sulla noncuranza del Messo celeste, dovuta, da una parte, all’imprudenza di Virgilio che ostenta una sicurezza illusoria, «in se stessa e teologicamente» , alla «insufficienza di quei suoi lumi di ragione e d'esperienza» («Ben so il cammin; però ti fa sicuro») , al pari di quanto accadrà ancora in Malebolge ; dall'altra all'abbandono e alla sfiducia di Dante peccatore che dispera della propria salvezza. Questi sarebbe caduto «in quello stato che fu dell'uomo prima della salutifera incarnazione di Dio nel Figliuol dell'Uomo». Ambedue, «fidando l'uno, diffidando l’altro», avrebbero chiuso quelle porte che la Grazia aprirà loro:

La asserita sicurezza e conoscenza del cammino, ecco lo induce a trascurare, quasi lo ignorasse mentre pur ora ne ha ricevuta la prescienza e l’ansioso desiderio, il soccorso del «messo da cielo», ossia dalla Grazia, di quel «tal», ch'egli ha potuto mentovare soltanto in perifrasi: «altri»; «oh quanto tarda a me ch'altri qui giunga!» [...]. La quale noncuranza (del Messo) significa pure, ultimamente, che non dovranno provocare un intervento, che è avvenuto in quanto la Grazia è infinita; ma essi ne hanno abusato: verità ultima, fatto perenne, giustizia arcana e imperscrutabile mistero .
Nel canto IX i diavoli sono definiti «gente dispetta», spregiata (dal latino despecta), disprezzata da Dio. Il Boccaccio spiegava «dispetta» con «avuta in dispetto da Dio»; il Buti con «dispregiata da Dio». Si ribadisce la loro arroganza («oltracotanza») . A proposito della voce «oltracotanza» vale la pena di ricordare la nota di Aldo Vallone:

Il termine ‘oltracotanza’ (che non deve tradursi semplicemente con ‘presunzione orgogliosa’) si esplica meglio ricorrendo al suo valore etimologico di ultra cogitatio, di azione al di là d'ogni previsione .

Si ricorda la vanità del loro «recalcitrare», come dire «dar di calcio» (Buti), resistere agli sproni, eco biblica degli Atti degli Apostoli, IX, 5; XXVI, 14 («calcitrare») , e si evocano con crudo realismo i danni subiti da Cerbero quando si oppose alla discesa agli Inferi di Ercole («Cerbero vostro, se ben vi ricorda, / ne porta ancor pelato il mento e ‘l gozzo») . Successivamente, in Inferno XIV, v. 44, Dante chiamerà i diavoli «demon duri», cioè ostinati, proprio riferendosi a Inferno VIII, 82 sgg. («Maestro, tu che vinci / tutte le cose, fuor che’ demon duri / ch'all'entrar della porta incontra uscinci»). Fin dalle prime battute nel canto VIII, v. 92 («provi, se sa...») i diavoli sfidano la legge divina con l’opporsi al viaggio di Dante. Nel canto IX dell'Inferno Dante evoca, per bocca del Messo, la discesa di Cristo agli Inferi e quella mitologica di Ercole e Teseo: exempla biblici e mitologici, a conferma della validità degli insegnamenti morali della mitologia pagana e della necessaria integrazione delle due culture.
Scene di diavoli che si oppongono al viaggio nell’oltremondo si leggono con molta frequenza nella letteratura medievale, così nel Purgatorio di san Patrizio, dove il pellegrino trionfa sulle loro insidie solo grazie alla fede, pronunciando infatti il nome di Cristo, come nella Visio Tundgali, la prima delle visioni del XII secolo, scritta in latino intorno al 1149 da un chierico irlandese. Tundalo, ostacolato da diavoli malvagi e violenti, è colto da grande paura, ma l'angelo che lo accompagna riesce a confortarlo e a vincere ogni difficoltà.
Il ritratto dei diavoli danteschi dei canti VIII e IX si completa nei canti XXI e XXII dell'Inferno, dove Dante ne mette in scena la malizia e la crudeltà, l'impazienza e l'inquietudine, e soprattutto il loro essere ottusi bugiardi e tentatori, attraverso un forte espressionismo di parole e di gesti che culmina con la zuffa tra Alichino e Calcabrina, in seguito alla beffa di Ciampolo di Navarra. Le coppie dei canti VIII-IX e XXLXXII sono accomunate dall'uso di metafore militari che negli ultimi due canti sconfinano in una parodia dell’epico significativamente sconcia e volgare.

Al v. 106 riprende la narrazione e comincia la seconda parte del canto. Compiuta la sua missione il Messo scompare («Poi si rivolse per la strada lorda»). I due Poeti entrano nella Città di Dite che ha l'aspetto di una città militare e pagana. Agli occhi di Dante si presenta una distesa pianeggiante piena di avelli, uno sconfinato cimitero, tanto che gli vengono in mente due famose necropoli, quella di Arles, nella Provenza e assai nota nel Medioevo, e quella di Pola , con la differenza che è molto più dolorosa la condizione delle tombe roventi della Città di Dite, nelle quali giacciono gli eretici: «li eresiarche» (il plurale in -e è assai frequente nell'italiano antico), cioè i capi e i fondatori di sette eretiche. Le tombe sono piene e sono più o meno roventi a seconda della gravità della colpa degli eretici che accolgono. Il canto IX dell'Inferno si chiude con l'immagine dei due Poeti che camminano tra i sepolcri e le alte mura della Città di Dite.
Le fiamme che avvolgono le arche degli eretici e ne costituiscono la punizione (fiamme “aliene” al pari della fiamma che lambisce le palme dei piedi dei papi simoniaci in Inf. XIX) sono il contrappasso del fuoco della ragione che alimentò le eresie. Già il particolare delle «meschite» nel canto VIII, v. 70 (ovvero le chiese, le moschee, con allusione «al culto ed alla vita dei musulmani»), induce il lettore a immaginare un paesaggio popolato da infedeli. La voce «meschite», dall'arabo masghid, e l’altra «meschine» riferita a Furie (IX, 43), dall’arabo miskin che vale «povero», «schiavo», sono voci pagane indicative e conformi alla città militare, dove - scrive Aldo Vallone - «Pagani sono gli abitanti. Pagani gli usi, le prepotenze, le audacie, gli orgogli. Pagani e militari i simboli» .
Sono stati opportunamente segnalati alcuni elementi comuni dei canti VIII e IX dell'Inferno con Il Libro della Scala. Enrico Cerulli e dopo di lui Maria Corti hanno individuato alcune corrispondenze tra l'Inferno nel Libro della Scala e la Città di Dite nella Comedìa.
La struttura dell'Inferno del testo arabo è quella di una città fortificata, con settantamila castelli di fuoco, settantamila sale anch'esse di fuoco e sette porte («tres chaudes», «ita calidissime») attraverso le quali vi si accede. Anche la Città di Dite dell'Inferno dantesco è una «fortezza», città vallata e cinta da mura di ferro infuocato, popolata da un esercito di diavoli come nella pittura e nell'immaginario medievale, con le sue «meschite» («vermiglie come se di foco uscite / fossero») , e con «un'alta torre».
Ecco come sono descritte le porte dell'Inferno nel paragrafo 176 del Libro della Scala, nella traduzione francese di Bonaventura da Siena:

[…] Et devant chasqune de les portes devant dittz si a une grant compagne deables et d’omes, qui sunt tormentez en enfer. Et Nostre Sire Diex fait chasqun iour venir ces deables et ces homes par devant celles portes; et les fait regarder les biens, qui sunt en Paradis et par ceste monde. Et en ce qu'il les regardent, si lor redoblent les poines.

Ed ecco ancora come sono descritti i castelli di fuoco nel paragrafo 177 dello stesso Libro, sempre nella traduzione di Bonaventura da Siena:

Et par dehors ad chasqune de celx portes, dever la part senestre, si sunt LXX mil montagnes tottes de feu. Et en chasqune de ces montagnes sunt LXX mil fontaines de feu; et de chasqune de ces fontaignes sordent LXX mil fluns de feu ausinc. Et sor chasqun de ces fluns si sunt LXX mil chasteaux de feu. Et en chasqun de ces chasteaux LXX mil sales de feu .

Maria Corti ha individuato «corrispondenze» tra la Città di Dite (Dite è uno dei nomi che Dante, seguendo Virgilio, usa per Lucifero) e l’habitatio dyaboli nel paragrafo 150, La dimora di Satana nel settimo inferno, del Libro della Scala. Dal confronto dei testi risaltano le affinità delle due strutture:

E io: «Maestro, già le sue meschite
là entro certe ne la valle cerno,
vermiglie come se di foco uscite
fossero». Ed ei mi disse: «Il foco etterno
ch'entro l’affoca le dimostra rosse,
come tu vedi in questo basso inferno».
Noi pur giugnemmo dentro a l’alte fosse
che vallan quella terra sconsolata:
le mura mi parean che ferro fosse.
(Inferno VIII, vv. 70-78)

Io vidi più di mille in su le porte
dal ciel piovuti [...].
(Inferno VIII, v. 82)

Ver‘ l'alta torre a la cima rovente
(Inferno IX, v. 36)

la condizion che tal fortezza serra
(Inferno IX, v. 108)

passammo tra i martiri e li alti spaldi.
(Inferno IX, v. 133)

Valla quidem circa hoc castrum existencia omnia sunt plena veneno multarum manerierum eciam diversarum; nam muri, turres, menia et domus omnes castri hujusmodi sunt de igne valde nigro, qui ardet continue in se ipso . Et ex una parte castri est quedam porta, per quam vadit homo ad infernum magnum (Il libro della Scala, 150, trad. lat)

È dunque veramente spessa e diversificata la stratificazione culturale dei canti VIII e IX dell'Inferno dantesco, come lo è la loro struttura retorica e linguistica in cui si inseriscono forme di reticenza inusitate nella prassi poetica, perifrasi, antitesi, metafore e similitudini che veicolano verità teologiche e scritturali, latinismi, arabismi e francesismi, voci e immagini militari, espressioni fortemente realistiche e popolaresche.

Date: 2022-01-09