Dati bibliografici
Autore: Giuseppe Manni
Tratto da: Prose varie
Editore: G. Pagnini, Pistoia
Anno: 1925
Pagine: 65-89
Irto di questioni e perciò nonostante la bellezza men volentieri trattabile pare od è il canto nono; e pure io mi rallegro che tocchi a me l’onore di leggerlo qui con voi: me ne rallegro sopra tutto per questa ragione ch'egli è il canto nono.
Non ridete, o Signori. La voglia che altri ebbe di tutto ridurre a matematiche rispondenze nell’opera dell’Alighieri, io non l’ho; anche perché la cosa, che in principio seduce, a poco a poco davvero divien grottesca. Ma il simbolismo de’ numeri, caro a tutto il medio evo, caro a Dante che di certo sapeva quel che del numero scrisse tra gli altri con molta compiacenza Agostino e, non senza l'esempio d’ Aristotile, Tommaso pensò, quel simbolismo non possiamo dimenticarlo; non possiamo cioè dimenticare che per esso il nove è numero mistico, e tra i canti del poema sacro il canto segnato del nove dev'essere, per così dire, più sacro. Il tre e il nove regolano tutta la visione e la poesia della Commedia, ha riaffermato il Carducci; acutamente notando, per esempio, in quale canto del Purgatorio Beatrice apparisce al poeta, e in quale del Paradiso lo abbandona per salire al suo scanno di gloria che è nell’ ordine terzo della gran Rosa. Ma fuori e prima della Commedia non sappiam tutti che a Beatrice fu singolarmente amico il numero nove, anzi che fu ella medesima un nove, cioè un miracolo della mirabile Trinità? onde al poeta giovinetto ella apparve la prima volta al principio del suo anno nono, e la seconda volta compiuti dal primo apparimento nove anni, e per tacer tutto l’altro del giorno che prima gli giunse il dolcissimo saluto di lei, l'ora fermamente era nona. E se questa cabala fu il freno dell’arte che fece così proporzionata, armonica, quasi matematica l’esecuzione formale della immensa epopea, è possibile che nell’ architettura maravigliosa i naturali ricorsi del nove uscissero immuni dal poderoso artifizio, e non improntati di qualche valore particolare quasi suggello della mente profonda che li volgeva? Io fermamente credo che la donna beata e bella, dal suo beato scanno scesa nel Limbo per amor del poeta, la donna liberatrice, apparisse in visione a lui meditante il monumento eterno, e ricordandogli il dolce tempo d’un’altra visione, quand’ egli prima la vide involta in un drappo leggermente sanguigno dormir nuda nelle braccia d'amore, e amore teneva in mano il cuor del poeta che ardeva tutto, e il tempo di quella visione era la prima ora delle nove ultime della notte, questo ricordandogli, e di tutte e tre le disegnate cantiche accennandogli il canto nono, ella, la divina Beatrice, dicesse: qui nota, o Dante. E sotto il raggio de’ begli occhi, come i rosai delle nostre valli al sole di maggio, i tre canti fiorirono mirabilmente rispondentisi da’ tre regni; fiorirono singolari non tanto in bellezza d’arte o passionata o sdegnosa come altri loro fratelli, quanto in luce di verità religiosa e morale, secondo i fini dell’intero della mente profonda c poema.
Dei tre singolarissimo il nostro. Siamo co’ due poeti alle soglie del basso inferno, della città che ha nome Dite, dalle mura che paion di ferro, dalle moschee che paion di fuoco, come in qualche fosco tramonto paion di fuoco le nuvole all'orizzonte. Siamo alle soglie, ma in Dite non s’entra: più di mille diavoli hanno minacciato a Dante vivo «sol si ritorni per la folle strada», e a Virgilio mosso a parlar loro segretamente hanno chiuso in faccia le porte, sì ch'egli è tornato indietro adirato ed incerto: «chi m'ha negate le dolenti case?» Questa condizione, nel canto ottavo accennata, di ostinato opponimento da parte de’ diavoli, di paura in Dante, di umiliazione in Virgilio, perdura al cominciamento del canto nostro; ed è condizione tutta nuova, che fece dire al Blanc esser questa la prima resistenza vera ai viaggiatori fatali. Caronte, all’ un d’essi, ha gridato: «partiti da cotesti che son morti», Minos ha ammonito: «guarda com’entri e di cui tu ti fide», Cerbero ha aperto le bocche, Pluto ha brontolato l’enigmatico Pape Satan, e Flegias ha urlato: «or se’ giunta anima fella»; ma di tutti alla parola fatidica:
vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole
di tutti è caduto l’orgoglio
quali dal vento le gonfiate vele
caggiono avvolte poi che l’alber fiacca.
L'orgoglio dei diavoli non cade, e lasciamo stare i perché, facili a intendere anche solo pensando che dall’alto scendiamo ora nel basso Inferno. A questa novità che aggroppa il nodo, a dir così, dell’azione segue un’altra che lo stringe vie più, crescendo l’impedimento da sé già grande, la novità delle Furie; altro ostacolo che Virgilio, s’ intravede, potrebbe anche meno rimuovere. Agli ostacoli s’ aggiunge il pericolo, il solo, pare a me, vero e grande, ad ogni modo il massimo pericolo corso nel viaggio dal poeta, il pericolo di Medusa; onde in Virgilio una cotal sollecitudine e quasi una ressa attorno al discepolo, qual non è altrove mai in tutto l’inferno. Quando l’azione è così stretta, quando più perigliosa volge l’ora e la trepidazione è più grande, a debellare gli oppositori, a liberar dal pericolo e fare aperta la strada, viene un messo del cielo, il solo, notate, che si mostri in tutto l’inferno; dopo il cui avvento, non che esserci più ostacoli non superabili, le potenze infernali obbediscono in servizio di Dante a Virgilio; sì che pare negli avvenimenti di questo canto esser la chiave per tutto il seguito dell’azione. E se pensate che di questi avvenimenti ha ciascuno, secondo l'usanza, un significato allegorico attinente alla ragione ed al fine di tutta l’opera, vedrete che non occorre appulcrar parole alla singolarità ch’ io dicevo e alla importanza del canto. Il quale può dividersi in quattro parti: la prima che è della varia paura di Dante e della sicurtà fatta a lui da Virgilio; la seconda fermata dall’ episodio delle Furie; la terza che dice la venuta del messo; la quarta che ci dà l’entrata nel sesto cerchio e le prime notizie intorno a questo.
Visto tornare indietro Virgilio con gli occhi alla terra e le ciglia rase d'ogni baldanza, Dante ha paura, e dalla paura è bianco; onde il maestro, rosso invece dall’ira nel colloquio co’ diavoli, con quella volontà che, secondo Tommaso, impera alle passioni e perciò a’ loro effetti, s' affretta a ricomporsi; che è detto con forza se non con bellezza in quel «ristrinse», cioè ricacciò dentro, il suo nuovo colore, il rossore sulle guance virgiliane non solito. Poi «attento si fermò com’uom che ascolta»; verso di potente evidenza, un dei parecchi nella Commedia, che quasi per incantamento, fanno apparire improvvisa davanti una figura viva di cui tu vedi gli atti, e odi le parole, e o bevi le lacrime o godi il sorriso. Virgilio che si ferma attento com’uom che ascolta, Brunetto che aguzza gli occhi «come vecchio sartor fa nella cruna», Belacqua «muove il viso pur su per la coscia», Sordello che guarda «a guisa di leon quando si posa», Piccarda che con le ombre compagne «sorride un poco», questi e cento altri son versi onde l’astratta parola invisibile splende come tela o marmo visibile, anzi diventa ella o marmo o tela lavorati da pennello o da scalpello divino. Ma Virgilio ascoltando, (ed è bellezza questo supporre che l’aiuto non verrebbe senza farsi sentir da lontano), Virgilio non ha intorno a sè che il silenzio e la notte, e con grande verità, volto forse a Dante, gli vien detto: e pur ci converrà vincerla con questi diavoli, se no... Orribile se no, più che nell’ inferno a Dante, a’ commentatori suoi in questo mondo! Io non ci vedo orribilità; ma la semplice espressione di un dubbio, frequentissima a noi fiorentini e tanto chiara che quando uno la dice, l’altro non sogna di chiedere spiegazioni. Vero è che leggendo poco sotto come Dante traeva la parola tronca, il se non, forse a peggior sentenza che Virgilio non tenne, voi potete opporre che dunque chiaro non era; e allora io m’arrischio a compiere il se non, così: se non viene l’aiuto divino; intendendo che Virgilio dica: se l’aiuto non viene bisognerà fare e vincer da noi: che potrebbe esser lusinga in un attimo di turbamento fatta dalla ragione a sè stessa di potere quel che ella non può; lusinga lecita del resto anche secondo Tommaso, e ad ogni modo disdetta subito col tal ne s’offerse, e quasi espiata con l’atto di ferma fede che è nel verso
oh quanto tarda a me ch’altri qui giunga!
Comunque, la reticenza benché da Virgilio ricoperta con l’altro che poi venne, fa paura a Dante; il quale tra le altre cose pensando che possa il maestro ignorar la strada, senz’altro glielo domanda; copertamente come il rispetto voleva. In questa parte d’inferno, domanda a Virgilio Dante, scende mai nessuno da quel limbo dove sola pena è il non avere speranza? E Virgilio, che intende il parlar coperto, con bontà, più che di maestro, paterna, risponde: di noi che stiamo nel limbo di rado qualcuno fa questa strada; ma io un’altra volta l’ho fatta, sforzato dagli scongiuri della maga Erittone, la quale, poco dopo ch’ero morto, mi fece entrar là dentro, dentro al muro di Dite, trarne uno spirito dal cerchio nono, dal cerchio dei traditori;
ben so il cammin, però ti fa sicuro.
Se la materia non incalzasse anch'io mi fermerei volentieri a dimostrarvi la verità e la maravigliosa finezza psicologica di tutta questa scena: ma è pregio consueto a Dante la perfetta osservazione interiore non meno che l’esteriore; e lasciamo stare.
Erittone è la maga tessala di cui Lucano nel sesto della Farsaglia dice che ell’abita le tombe vuote e vi dorme, e quando d’ombre ha bisogno, le richiama ai corpi, e tutta la morte serve a lei sacerdotessa cara agli dei infernali. Questo ha letto Dante in Lucano, e in Virgilio ha letto che quando Ecate prepose la Sibilla ai boschi d’ Averno «divum poenas docuit, perque omnia duxit», la condusse, ammaestrandola, per tutto il regno infernale. Che altro occorreva a crear la presente storia d’un primo viaggio virgiliano per tutto l’inferno, che serviva al poeta mirabilmente per far la sua guida esperta del buio cammino? Era una delle più utili tra le tante cose tolte all’Eneide nel libro sesto. Indagar chi fosse lo spirito per il quale fu da Erittone scomodato Virgilio mi par fatica non necessaria, pur credendo che Dante quando scriveva il generico «uno spirto» dovette pensare ad uno o ad altro determinato spirito di traditore; e così non occorrerebbe altra dichiarazione del presente luogo, se non potesse vedercisi, e altri ci ha visto, una sicura benché remota attinenza con certa leggenda contemporanea. Vi ricordate, o signori, che il medio evo con molte altre cose, insegnateci tanto bene dal Comparetti, pensò di Virgilio anche questa, ch’ei fu gran mago e all’arte magica attese molto, come dimostra quella sua egloga ottava, ab antico chiamata a testimoniare assai pratica di magia nel suo autore?
Con questa singolar fama del poeta latino, ha che vedere, anche secondo me, il nostro passo dantesco, il quale mi pare qualche cosa più che una semplice o imitazione o finzione di artistica convenienza. E innanzi tutto fare esperto Virgilio, come la Sibilla, della strada da camminar con Dante, era di certo, come dicono, conveniente; ma non però necessario. A buon conto la strada del Purgatorio, nessuno gliel’ ha insegnata, e quella stessa dell’Inferno non l’ha imparata del tutto, se ha bisogno di Nesso a mostrargli il guado della riviera «del sangue, e se in Malebolge accetta la scorta de’ diavoli, compati all’ inganno di Malacoda. Oltre di che non era egli il savio gentil che tutto seppe? poteva dunque, come la lingua di Pluto, sapere, anche senza esserci stato, le vie dell’inferno. Convenienza dunque, non necessità di fingere a Virgilio un primo viaggio. Ma per sola convenienza, e senz’altra intenzione, era bello foggiare una storia che potesse anche da lontano parere una pietra recata al grande edifizio della leggenda medievale, in nessun altro luogo, è verissimo, in nessun altro modo accolta da Dante? E che potesse parere lo prova ‘il fatto che ad altri è parsa: non che la lettera del racconto ‘avvalori la leggenda, ma lo spirito e il colorito fa pensare all’egloga ottava più che alla Farsaglia e all’ Eneide, e di queste ricorda i luoghi che molto odorano di magia. Oltre di che i volghi che non hanno né avevano l’ingegno e la dottrina del Comparetti e l'osservazione acuta del D’Ovidio, leggendo la maga che va per l’appunto a scovar l’anima di Virgilio, e Virgilio che per conto di lei gira tutto l'inferno e poi lo rigira con Dante e se ne dice così pratico da parerci di casa, i volgi anche se perspicui come i fiorentini uditori del Boccaccio, leggendo dovevano (diciamo dovevano) naturalmente esclamare: ecco il mago! Tanto più che del suo primo viaggio per forza, Virgilio non par dolente, nonostante il cruda, che è di Lucano, appiccato a Erittone ; tanto più che di quel viaggio si torna molto tranquillamente a parlare nel canto duodecimo:
or vo’ che sappi che l’altra fiata
ch'io discesi quaggiù nel basso inferno
questa roccia non era ancor cascata.
Il racconto dunque immaginato qui dal Poeta ha, credo, un’intenzione riposta, un significato che si rannoda e si compie al passo del ventesimo canto, famoso. Nel canto ventesimo e nella bolgia degli indovini e dei maghi, Dante, guardando la pena loro orribilissima, piange; e Virgilio con accento veramente nuovo di sdegno, voltosi a lui, dice secco: sei uno sciocco anche tu? qui, dinanzi alla pena di questa gente, vive la pietà quando è ben morta: chi è più scellerato di colui «che al giudicio divin passion porta»? Nella quale uscita di Virgilio, legge il D’ Ovidio, e per me con ragione, una protesta di Dante contro il deturpamento medioevale del poeta suo caro. Or bene: la finzione di una prima infernale discesa virgiliana è l’apparecchio a quella protesta; è il fatto della leggenda celatamente affermato da Virgilio che può saperlo; è un far dire a lui: so bene quel che ora si pensa di me nel mondo, e perché: a suo tempo saprò scagionarmi; e quando il tempo viene ed il luogo, prorompe lo sdegnoso rabbuffo e la fiera presentazione dei maghi che abbiam veduta. Così il tratto del canto nostro e quelli del duodecimo e del vigesimo son tutti e tre quasi onda purificatrice dal poeta fiorentino versata misteriosamente sulla figura del mantovano annerita dalla fuliggine medievale, o meglio sono i tre raggi dell’aureola ricomposta sul capo del poeta di Roma, che Dante non volle mago, se anche, per bocca di Stazio, potè volerlo profeta. Seguitiamo. Per fare a Dante più sicurtà mostrandosi informato di tutto il luogo, Virgilio comincia un po’ di topografia:
questa palude che il gran puzzo spira
cinge dintorno la città dolente;
topografia o descrizione interrotta in modo un po’ curioso per noi, non per Dante, che, detto quel tanto che voleva dire, se n’esce col verso: «ed altro disse ma non l’ho a mente». E perché non l’ha a mente, ve lo dice la seconda parte del canto.
Versi strani! perché? Se nel vestibolo dell’inferno virgiliano sono i ferrei talami delle Eumenidi, e alla porta del Tartaro è una torre ferrea su cui vigile sta Tisifone succinta che c'è di strano se in Dante appariscono il pallio cruento, su una torre le furie, cinte con idre verdissime e con. ceraste e serpentelli per crine? e poi che siamo in via di ricordi mitologici, se le Furie invocan Medusa a vendicarsi di un vivo violatore de’ morti regni, e se, udendo «Medusa» che fa di pietra chi la guarda, Virgilio dice a Dante di chiuder gli occhi, che c'è di strano? Nulla, pare, così a prima vista. Ma se nel breve episodio pauroso fosse gran parte di ciò che ho detto singolarità del canto, e se le Furie e Medusa adombrassero una dottrina teologica che è, moralmente, spirito informatore di tutto il poema, non sarebbe un po’ strano? e questo Dante vuol che s’intenda: strani i versi, strano il velame, semplice la dottrina. Quale dottrina? All’ atto dell’intelletto ond’altri, conoscendola, giudica la propria colpa, e che si chiama rimorso, due atti della volontà posson seguire diversi e opposti, e cioè possono del rimorso seguir due effetti: o la conversione o la disperazione. Dove è da avvertire che non sempre la disperazione è come quella di Caino o di Giuda, ma talora o spesso, qual che ne sia la cagione, è un induramento del cuore, l’obduratio cordis di S. Tommaso, un acconciarsi al male e con falsa pace adagiarvisi, e, come un oscuro cinquecentista dice a questo proposito, farci il callo. Tale secondo effetto del rimorso vuole il diavolo; e il rimorso ordinato dal diavolo a conseguir questo effetto Dante adombrò nelle Furie che perciò gridano:
venga Medusa, sì il farem di smalto;
l’effetto conseguito o voluto conseguire, l’indurimento cioè che seguita al disperare, è figurato in Medusa. E perché, diciamolo subito, contro il pericolo di Medusa il primo soccorso è dalla ragione che mostra la inutile reità dell’ostinarsi, disperando, nel male, perciò Virgilio grida: «Volgiti indietro e tien lo viso chiuso»; e perché il pericolo è massimo, perciò non si contenta di dire, ma volge Dante egli stesso, e, sugli occhi pericolanti, alle mani di lui sovrappone le sue:
non si tenne alle mie mani
che con le sue ancor non mi chiudessi.
Questa interpretazione, che non è nuova, non vi paia, o Signori, troppo povera confrontata col solenne appello agl’intelletti sani e col velame de’ versi strani: un’altra volta, e un’altra sola, Dante nell’ ottavo del Purgatorio ha sonato l’appello medesimo; e i buoni interpreti fino al Torraca non ci hanno visto nulla né di squisito troppo né di troppo sottile: facciamo lo stesso qui, come ci conforta qualche ragione, secondo me, non invalida. E a proposito delle Furie la prima è nella convenienza di poetizzare, o qua o là, la dottrina tomistica del rimorso, avuto riguardo al disegno del poema e all’ intento. Come si disegna il poema? il viaggio, per regni oltremondani, dell’anima operante la sua conversione; quale n’è l’intento? sostanziale e primo la conversione di tutti. Ma la conversione dell’anima ond’è cominciata? e d’onde può cominciare la conversione di tutti, se non da quel rimorso che ha fatto pianger Dante nella selva, e più forte lo farà piangere fin tra le bellezze del terrestre paradiso, in faccia al trionfo di Beatrice divina? Così l’intero poema dimostra e quasi glorifica l’effetto primo e salutifero del rimorso; conveniva dunque o qua o là toccare l’altro effetto, che è principio di dannazione. E dove toccarne meglio che qui davanti alla città di Dite, dove i peccati son più gravi e perciò più orrendi i rimorsi? Io non dubito: come tutta la concezione dantesca è il trionfo della Donna gentile, di quella, dico che si compiange nel cielo del peccatore pentito, così qui grandeggia il solo non superabile ostacolo a quel trionfo, l’indurimento del cuore: e perché può I indurimento, come la conversione, generarsi dal rimorso, è figurato prima questo nella debita luce; nella luce sinistra che dalle Furie balena naturalmente.
Perché le Furie, ed è un’altra ragione del nostro modo d’interpretare, le furie o Erinni, le Erine di Dante, in tutta la tradizione classica sono insomma quel che Eschilo dice, anzi fa dire a loro, prima che il senno di Minerva le abbia cangiate in quelle Eumenidi onde ha nome la grande tragedia. «Intrecciamo anche la danza, cantan le Erinni, quasi come nel Machbet shakspeariano le streghe, intrecciamo anche la danza, ché vogliamo far noto a tutti il nostro orrendo carme... Chi ha pure le mani, non è mai assalito dall’ ira nostra, e senz’ affanno passa la vita. Ma quando un uomo, commesso un delitto, come costui (Oreste) ha commesso, nasconde le mani insanguinate, noi, dritti testimoni, levandoci in soccorso dei morti, gli siamo davanti, esattrici del sangue sparso... Contro lui nostra vittima, ecco questo canto; delirio, vertigine, l’inno delle Erinni che lega l’anima, l’inno senza lira, che dissecca la vita». Così Eschilo; e sono i terrori del delitto, o Signori, è la coscienza che si rimorde, è Machbet che uccide il sonno e grida: ho ucciso il sonno, e ripete delirando: uccidere il sonno!; e con tale significato le Erinni, anche se col nome di Eumenidi, passano nella tradizione romana: Didone morente che le invoca contro lo spergiuro troiano, scusa ogni altra facile citazione. Se qui dunque ove a Dante conveniva, come io credo, figurare e impersonare il rimorso, qui noi troviamo le Furie, quale altro se non quello segnato da tutta significato è giusto cercarne la tradizione? Non mi indugio in quanto potrebbe oppormisi, che non è poco, neanche per far grazia al dotto interprete, che volendo figurati nelle Furie i peccati d’ingiuria, è il solo alla cui opinione m’inchinerei, se non credessi quella accolta da me essere più desiderata da tutto il contesto e più vera.
E similmente di Medusa, l’orrenda bellezza cara all’ arte, non veggo spiegazione più sincera di questa nostra. Il Gorgone, per sua ventura non visto in Inferno, Dante l’ha visto (anche se non altrove) effigiato sull’armatura di Pallade nel libro ottavo dell’Eneide; ed è stato un punto vederlo e intuir quanto bene il letterale e ordinario valore del mito gli servisse a figurar l’anima dal rimorso terrificante, per disperazione, impietrata. Alla ragione di così interpretare già detta in parte, soggiungo che prova più certa me n’è quel che avviene appena è vinto il pericolo di Medusa. Se vinto questo, le valli si colmano, secondo il detto del Profeta, i monti si agguagliano, e le vie aspre si fanno piane, vuol dire che a tutti i peccati può Dio perdonare fuorché a quell’uno; alla disperazione che faccia di pietra l’anima.
E che vinto il pericolo di Medusa, il viaggio dantesco non abbia più, gravi, né ostacoli né pericoli, a me pare evidente. Ecco: appena Dante s’è coperto gli occhi e ha lasciato che anche Virgilio glieli copra, viene il messo del cielo, e apre fa porta; nel cerchio sesto i poeti entrano tranquillamente:
dentro v’entrammo senz’alcuna guerra;
il Minotauro, custode al cerchio settimo, che morde sé stesso vedendo i poeti, più che della sua forza a impedirli, dà, mi pare l’idea della sua rabbia perché nulla può contro il pellegrino fatale; a scender dal settimo nel cerchio ottavo, non che opporsi, dà modo Gerione, portando sulle spallacce i due visitatori; i diavoli nella bolgia de’ barattieri, se anche simboli di tentazione paurosa a Dante, mi paion lì meglio che a figurare un pericolo, a più vivamente colorire la continuata comicità de’ due canti; Anteo il gigante in fretta, ma senza nuocere, sull’ orlo del pozzo prende Virgilio e Dante a deporli dall’ottavo cerchio sulla ghiaccia del nono, e finalmente Lucifero del suo pelo fa scala ai poeti prima a discendere, poi, varcato il centro della terra, a risalire, sì che escan liberi del suo regno. Il peccatore che non ha visto Medusa, procede sicuro sotto gli occhi della misericordia di Dio. Procede, e, nel racconto dantesco, giunto al Purgatorio, sale con fatica ma tranquillo i primi balzi, arriva, con l’aiuto sensibile della grazia, alla porta del Purgatorio, chiede, inginocchiato a’ piè dell'angelo, che gli sia aperta, e la porta, che è insomma la porta del cielo, gli s'apre; gli si apre nel canto nono della seconda cantica, come s’aprirà ora in questo nostro la porta di Dite. Non basta.
Salite meco al paradiso, dico, per ora, a quello di Dante; e apriamolo al canto nono. Ci viene innanzi un’anima che il suo volerci piacere significa nel chiarir di fuori. Chi è? è una donna, una gentildonna che è lì, lì nel cielo di Venere, perché in vita amò molto, amò troppo, si vinse il lume desta stella, è la sorella del tiranno Ezelino da Romano, Cunizza. Vi ricordate, o Signori, il rumore degli studiosi di Dante, perché questa donna della quale i cronisti raccontano tante cose che qui non importa ridire, egli, Dante, questa donna l’ha messa in paradiso, e ce l’ha messa poco dopo ch’ell’era morta? Superfluo romore degli studiosi! Voi sapete: qui in Firenze dove passò gli anni ultimi della vita, qui nelle case del primo amico di Dante, la signora della Marca Trivigiana diede tanti buoni esempi in vecchiaia quanti n’avea dati in gioventù di cattivi: non avea visto Medusa. Ed ella è in paradiso per quante ragioni volete di convenienza di opportunità di bellezza o politica o artistica, ma di tutte le ragioni questa è prima: che Dante ha voluto raffigurare in lei, il trionfo della misericordia divina nel peccatore pentito:
non però qui si pente, ma si ride,
non della colpa, ch'a mente non torna,
ma del Valore ch’ordinò e provvide;
ha voluto che il Canto nono del Paradiso rispondesse al nono: del Purgatorio, e ambedue rispondessero a questo nostro, qui dove si dice. che il sommo pericolo il male sommo d’un’anima è il disperare, e, disperando, farsi di pietra. Umile concetto e altissimo insieme; al quale ripensando io talvolta nelle mie ore più solitarie, raffermo una mia vecchia fede: che la nazione madre del poeta potente a creare su questo concetto il sovrumano edifizio della Commedia divina, tale nazione, per quanto uomini e tempi avanzino e mutino, non farà senza Dio, e che Dio del poema che sull'Italia intesse ne’ secoli, direbbe il Tommaseo, non ha scritto ancora gli ultimi canti. E qui della seconda parte sarebbe detto abbastanza, se io non dovessi supporre da voi una domanda: Dante ha chiamato le furie «le meschine», che vuol dir le ancelle, «della regina dell’eterno pianto»: chi è questa regina? I commentatori vecchi e nuovi rispondon quasi tutti Proserpina; oggi il Torraca, con altri, risponde: Ecate; e, credo, risponde bene. Quanto Dante sapesse la differenza tra’ due miti antichissima, e a qual tempo di loro età si fondessero o confondessero, non so io: so però che nel sesto dell’Eneide (fonte da non. perdersi di vista mai) egli trova distinte le due divinità. Proserpina è la moglie di Plutone, che aspetta e vuole omaggi da chi visita il Tartaro, ma non ha né potenza né autorità di comando; è una specie di quel che fu il principe consorte in Inghilterra a tempo della buona Vittoria.
Ecate ha l'impero; e a’ boschi infernali la Sibilla è preposta da Ecate, non da Proserpina, e da Ecate, come da regina e signora vera è condotta a prender conoscenza’ di tutto il regno. Di Ecate, la dea triforme, sono i boschi e la sacerdotessa che prima di cominciar con Enea il viaggio, lei invoca potente nel cielo e nell’ erebo, intanto che poco innanzi Enea ha promesso a lei votivi templi marmorei. Ancora e più: Didone che muore, dicevo or ora, invoca le furie, ma con queste, proprio accanto a queste, invoca Ecate:
Nocturnisque Hecate triviis ululata per urbes.
Tutto ciò sa Dante; e così quando legge in Virgilio e a modo suo intende il dominam Ditis, la signora di Dite, gli viene spontanea una delle tante correzioni che fanno all’ uso cristiano men ripugnante la materia pagana, e nella regina dell'eterno pianto sente Ecate e non Proserpina. Voi direte: ma nel canto seguente, nel decimo, Farinata degli Uberti a significar la luna usa anche lui una perifrasi chiamandola «la donna che qui regge»; e poiché la donna che qui regge è tutto uno con la regina dell’eterno pianto, dunque Dante per bocca di Farinata identifica Ecate con la Luna. Per l’appunto; e questa, mi pare, è la forma primitiva del mito, e questa, a ogni modo, dura in Virgilio che Dante ha sott'occhio: onde la perifrasi del canto decimo chiarisce quella del canto nostro; perché se la luna, con altro nome, regge, cioè è regina in inferno, regina vera abbiam visto esser Ecate e non Proserpina. Regge in inferno, ho detto; perché, badate, nel verso «la faccia della donna che qui regge», il qui non ha significato particolare e ristretto al cerchio dove è Farinata, ma s’intende di tutto l'inferno, come si può dimostrare esemplificando sull’ uso del: qui, in tutte e tre le cantiche; e se poco fa io stesso alludendo alla bolgia degl’indovini ho inteso il qui in senso ristretto a quella bolgia, l’ho fatto perché credo doversi dal contesto determinare il significato del qui o particolare, secondo i casi, o largo e universale. Ecate dunque e non Proserpina.
Ma voi mormorate: e foss’anche vero, tutto ciò, che resta pure assai dubbio, che cosa importa? Importa molto, per due E primieramente importa scagionar Dante dell’aver dato moglie a Lucifero, al Lucifero biblico, cristiano, medievale una moglie pagana. Connubio sì strano e grottesco era forse possibile (non so se ci sia) al medio evo più grosso, a Dante no, che nella composizione del suo diavolo tocca il sublime. Né basta dire, come un uomo illustre ha detto, che Dante ai due: sposi ha tolto la reggia e li ha collocati nel Tartaro in cristiano divorzio; se c’è il divorzio, anche il matrimonio c’è stato; come obbrobrioso questo, così quello non ancora di moda. In secondo luogo, per riverenza al pensiero di Dante, importa contradire a chi dalla perifrasi della donna che qui regge toglie argomento a far la Luna 0 Proserpina custode e patrona del cerchio sesto. Questa patrona dev’esserci, dicono, per simmetrica rispondenza di costruzione del sesto con gli altri cerchi; rispondenza che, maravigliosa sempre, non può Dante aver qui trascurata. Vedete caso! a me pare invece maravigliosa davvero la simmetria, escludendo dal sesto cerchio qualunque o patrona o custode; o Ecate o Proserpina o Luna. Il limbo non ha custodi, e se al cerchio primo dell'alto inferno, risponde il primo dell’inferno più basso, di tutti il sesto, dee questo esser, com'è, senza o patroni o custodi.
Ecate è la regina non d’un cerchio, ma di tutto l’inferno, la regina del pianto eterno, che è una cosa, parmi, con l’ eterno dolore, scritto sulla porta che voi sapete. Del resto, non volendo fare ipotesi mal consentite, dal silenzio o dalla parola di Dante, questa regina nell'inferno di lui non aspettate di vederla, perchè non c’è; e, per conclusione sicura teniamo che le due perifrasi disputate non, come dice il Porena, potrebbero essere, ma veramente sono un semplice richiamo mitologico, voluto da Dante per una convenienza personale, per colorito storico ed erudito, a proposito di Virgilio, per convenienza stilistica nella predizione di Farinata. Dopo di che non mi rimproverate, o Signori, che per regina siffatta non occorreva scalmanarsi tanto: gl’ imprestiti che Dante fa da la mitologia, dice il Fauriel, sono imprestiti di puro nome; qui, è l’ombra di un nome: giovava, cercando dietro a quell’ombra, l’imprestito, che non è una bellezza, togliere almeno le incongruenze. E siamo alla terza parte.
E qui fermiamoci volentieri, perché del notevolissimo canto è questo il tratto più notevole, quello anzi il cui riposto significato benché diffuso per l’intera epopea, fa singolarmente luminosi i canti segnati del nove. Qui dunque c’insegna Dante che l’aiuto divino non manca al peccatore pentito; e questa dottrina, che è una delle consolanti discorse poco fa da monsignor Bonomelli, egli, il poeta, adombra chiaramente con arte nuova di bellezza e di forza. Guardate. Il quadro che Dante disegna è la venuta del messo celeste, aspettato: da un lato è la palude fumosa ove a brano a brano si lacerano gl’iracondi; dall’ altro la città dalla torre infuocata, e sulla torre le Furie minaccianti, e, non vista, ma nel grido delle Furie intravista Medusa; presso la porta chiusa e custodita dai mille diavoli stanno i poeti smarriti e come sospesi tra due immensità: quando, discesa l’erta, liberatore di Dante che è lì con le mani sue e quelle di Virgilio sugli occhi, liberatore divino ecco il messo. Tale il quadro; ma l’arte della parola può quello che le altre arti non possono; e quello che pennello non saprebbe, sa dire il canto. Precede il messo, come di terremoto, una romba che voi sentite ne’ versi cupi affannati
e già venia su per le torbid’onde,
un fracasso d’un suon pien di spavento,
dove ai suoni chiusi dell'o, «torbid’onde», succedon gli aperti dell’e dell'e, quasi grido di chi si svegli nello spavento del terremoto; e il terremoto batte nel verso «per cui tremavan ambedue le sponde», verso che trema. Il fracasso è come quello del vento in un turbine estivo; e del vento voi sentite l’impeto nell’aggettivo impetuoso; € ne’ suoni e negli accenti de’ versi pieni di r:
che fier la selva e senza alcun rattento
li rami schianta abbatte e porta fuori,
sentite l'urlo e l'urto, gli schiaffi e gli schianti; poi lo vedete, il vento, che va, sollevando la polvere,
dinanzi polveroso va superbo,
(due aggettivi pieni di verità) superbo, cioè quasi conscio della sua forza, e godendo che innanzi a questa fuggan le fiere e i pastori, come chi dicesse: bestie e cristiani. Con tale fracasso, conveniente al ministro di Colui che cammina su le ali de’ venti, e i monti tremano e fumano quando passa, con questo suono come di trombe d’ Arcangeli che intimino: In nomine lesu omne genu flectatur coelestium terrestrium et infernorum, con tale apparato viene il messo... Oh non ancora! sovrana arte di Dante che da quel primo E già venia, frappone ben sei terzetti prima di dirci chi, e non lo dice che dopo notato un altro effetto della venuta sua e dopo un’altra similitudine mirabile di verità e di evidenza.
Come le rane innanzi alla nimica
biscia per l’acqua si dileguan tutte
finch’alla terra ciascuna s’abbica,
Vid’io più di mille anime distrutte
fuggir così.
A proposito delle quali similitudini, una cosa di necessità viene a mente: in tutta la Commedia, benché più forse nel Paradiso, Dante fa maravigliosamente visibile a noi, con imagini tolte dal nostro mondo, la condizione o dei fatti o degli abitatori di un mondo che noi ignoriamo, ed egli finge aver visto; ma come in verità l’altro mondo neppur lui l’ha visto, così dalla sua fantasia trae egli intera prima la materia da lumeggiare, poi la similitudine che lumeggia: doppio miracolo di creazione innanzi a cui la mente si chiude, e tornando pensa che quel miracolo nessun altro poeta fece mai, e forse nessun altro farà. Ed ora eccolo davvero finalmente l’atteso.
La qualità sua è detta con due tocchi maestrevolmente: dinanzi a lui le anime fuggono sgomentate, ed egli, al passo, senza fretta, avanza a piedi asciutti sull’acque. Se non fosse quell’al passo, e più se non temessi di profanarne la natura, direi ch'ei somiglia la Cammilla virgiliana, la vergine che
correndo non avrebbe anco de’ fiori
tocco nè delle ariste il sommo appena,
non avrebbe per l’onde e per li flutti
del gonfio mar non che le piante immerse
ma nè pur tinte;
diremo piuttosto ch'ei ricorda il Gesù del Vangelo che viene ai discepoli camminando sul mare; se non che il camminare non tanto maraviglia quanto l’imagine così precisa ed insolita delle piante asciutte: egli non preme l’onda, la sfiora. E la miseria circostante non lo tange: par che lo noii soltanto il menare spesso innanzi al volto la sinistra a rimuoverne l’aer grasso: particolarità che è invenzione di artistica verisimiglianza dal nostro aggiunta forse al verso di Stazio, dove il torbido aere indugia il passo a Mercurio che scende anch'egli all’ inferno. All’ appressarsi della figura divina, Dante, cui Virgilio ha sciolto gli occhi confortandolo a ben guardare, facilmente s’accorge ch'egli è messo del cielo, e, al cenno di Virgilio, tace e s’inchina; intanto che quegli, sdegnato in vista; giunge alla porta e con una verghetta
l’aperse, che non v’ ebbe alcun ritegno.
Alcun ritegno non v’ebbe? o i mille diavoli e le furie e Medusa e tutto l’inferno? Dante non ne dice più nulla, e questo silenzio e la semplice queta fulminea rappresentazione della vittoria su tali e tanti nemici, sì facile e con sì lieve mezzo, tocca il sublime. Ma ai diavoli, che dalla paura o fuggiti o annichilati forse non l’odono, parla il messo; convenientemente parla dopo l’azione, non prima, convenientemente rampogna d’oltracotanza gli spregevoli cacciati dal cielo, convenientemente rafferma voluto da Dio il viaggio: men convenientemente, forse, ricorda Cerbero dal mento e dal gozzo pelato, togliendo il ricordo dal Caronte virgiliano, che per un messo del cielo e in quel punto, checchè i difensori ne dicano, non mi par bella cosa. Bella cosa è però, dopo subito, il rivolgersi di lui per la strada lorda, signorilmente sdegnoso, senza far motto ai poeti: adempiuto l’ufficio suo, non deve inutilmente indugiarsi lui che può dir con Beatrice
Vegno di loco ove tornar disio;
ma in sembiante
d’uom cui altra cura stringa o morda
che quella di colui che gli è davante;
deve, come l’angelo che primo s'incontra nel Purgatorio, e per le stesse ragioni d’arte, tacito andarsene. E mentre va, noi, come Dante, inchiniamolo: ma dopo a nessuno venga voglia di domandarmi il nome di lui, perché non lo so, e solamente so ch’egli è un angelo. Vero è che saperne questo non è saper poco a come stanno, in proposito, tra i commentatori le cose: perché, dei commentatori, altri nel messo vede Mercurio, altri Enea, altri Giulio Cesare, altri Arrigo VII, altri Gesù, altri non so se altro. Non v’insistiamo. Io scommetto che a voi, o signori, leggendo senza commenti il passo dantesco, leggendo che Dante il personaggio miracoloso lo chiama messo del cielo, dinanzi al quale, per cenno di Virgilio, egli tace e s’inchina, a voi subito, s’ affaccia chiara l’idea e luminosa la figura d’un angelo. Ora io dico, che, di certo non sempre, ma spesso è nella prima impressione la verità. Dante sa qual è, a proposito d’angeli il concetto e il linguaggio sacro, e cioè il linguaggio proprio; sa che gli angeli sono e si appellano i messi, missi, gl’ inviati di Dio a custodia a salute ad altro qualsiasi ufficio; e dicendo, senz’altra giunta, messo del cielo, pensa che nessuno possa d’ altro intendere che d’un angelo. E a me piace pensare che a questo luogo Dante avesse davvero la mente al passo dell’Esodo dove Iddio dice a Mosè: io manderò il mio angelo che ti preceda e t'introduca nel luogo che ti ho preparato; piace pensare che al grande legislatore ebreo con lecita superbia si agguagliasse il poeta cristiano che della legge o adempiuta o violata distribuendo il premio o la pena fu ministro ne’ secoli delle giustizie di Dio. Due sole difficoltà contro la nostra che ormai, credo, è la più accetta interpretazione, due sole paiono di qualche peso. La prima è il passo del Purgatorio, dove all’apparir del primo angelo, che a posta io ho ricordato, Virgilio dice a Dante
ormai vedrai di sì fatti ufficiali;
dunque, dicono, di siffatti. ufficiali Dante. prima non ne avea visti. Ha risposto bene il Venturi: badate alla parola ufficiali! Sicuro; angeli da potersi chiamare con nome di ufficiali Dante non ne avea visti, perchè ufficiali (impiegati) nell’ inferno sono i demoni, non gli angeli: ma è forse escluso da questo che per eccezione, unica eccezione, possa un angelo scendere all’inferno, non ufficiale in esso, ma straordinario esecutore per un momento dei voleri divini? La seconda obiezione è o può essere che i colori adoprati a dipinger l’angelo nostro non sono i consueti al pennello dantesco nella pittura degli angeli.
Lo credo: i canoni dell’arte Dante li sa, e sa che d’ ogni arte è precipuo l’id quod decet, la convenienza. Quando egli, il poeta, verrà all'isola nel cui cielo puro s’ accoglie un color dolce di zaffiro orientale, e del sorriso di Venere ride tutto l’oriente; quando sarà nella valle verde come fresco. smeraldo e fragrante di mille odori, dove assise in sull’ erba e in su i fiori, con dolcezza di note unica nella poesia del mondo le anime cantan salve Regina; quando salirà i gironi del monte sacro tutti pieni di sole; e più quando ne’ sommi cieli contemplerà i cerchi angelici di coro in coro osannanti sfavillar come ferro che bolle; allora dipingerà, e noi vedremo, angeli folgoranti dalla veste e dall’ali bianche:
a noi venia la creatura bella
bianco vestita e nella faccia quale
par tremolando mattutina stella;
o angeli nelle cui faccie si smarrisce l’ occhio, ma si discerne la testa bionda e le vesti e le penne verdi:
verdi come fogliette pur mo nate
erano in veste che da verdi penne
percosse traean dietro e ventilate,
o angeli che scendendo, come schiera d’api che s' infiora, nella candida rosa paradisiaca
le facce tutte avean di fiamma viva
e l’ali d’oro e l’altro tanto bianco
che nulla neve a quel termine arriva.
A questa tavolozza qui nell’inferno non era luogo. La qualità della missione angelica e il dove ed a chi voleano immagini non d’altro che di sicurtà onnipotente; e come sconveniva che dannati e demoni vedessero, anche per un attimo, Su fronte d'angelo gli splendori della beatitudine, così era bello ‘che vi leggesser lo sdegno:
Ahi quanto mi parea pien di disdegno!
Meglio dunque che indarno sottilizzare, onoriamo il poeta grande anche per questo: che futuro ispiratore a tante anime d’artisti, insegna con l'esempio o ricorda loro quel che oltre l'ispirazione è necessario alla perfezione dell’arte: le leggi, il freno, o, ripetiamolo, l’id quod decet: maestro così egualmente alla ideale realità di Giotto e al misticismo ineffabile dell’Angelico, alle rinnovellate eleganze del Botticelli e alle fantasie terribili di Michelangelo. La corona al materno capo d’Italia intessuta dai più grandi artefici, anch'essa è fiorita in parte al sole della tua grand’ anima, o Dante poeta.
Tornato a’ suoi cieli l’angelo, e schiusa l’entrata della città, viene l’ultima parte del canto.
Siamo nel sesto cerchio, che è la terra a cui muovono i poeti sicuri dopo le parole dell’angelo, e dove entrano senza guerra; sappiamo il perché. Il cerchio, credo per quello che abbiam visto, detto anche fortezza, a Dante che, entrato, guarda con desiderio, apparisce, dall'una e dall’altra mano, una grande campagna piena di lamentoso dolore; e l’aspetto del suolo è varo, cioè vario, disuguale, spezzato, come ne’ sepolcreti d’Arles, ove il Rodano stagna, o in quelli di Pola presso il Quarnaro, «che Italia chiude e suoi termini bagna». Arles, antichissima città di Francia in Provenza, ebbe un sepolcreto d’origine romana, celebre, e nel medio evo termine di devoti pellegrinaggi, perché illuminato dalla leggenda che narrava quivi sepolti i morti a Roncisvalle quando, perduta da Carlo Magno la santa gesta, il corno d'Orlando sonò terribile, e i morti nella battaglia d’Aliscaus, perduta da quel Guglielmo d’Orange che trionfa nel cielo di Marte con Cacciaguida crociato. Non meno chiara, anche per la sua necropoli, fu Pola, la forte città dell’Istria che Dante afferma italiana, onde il Basserman dice che, a nome di Dante, è lecito agl’italiani desiderarla ricongiunta alla madre. Ed io per visione di sogno, in Pola, a piè di quel colle su cui una volta fu il suo Campidoglio, in faccia a quel golfo dove un tempo ancorò tutta l’armata di Roma imperiale, nel mezzo del bello anfiteatro che è ancora romano, tra le macerie ammantate di verde e di silenzio, io per visione di sogno veggo levarsi come scolpita, con gesto e con occhio sereni accennando il mar nostro, la austera imagine dell’ Alighieri: da quali mani levata non veggo bene: soltanto odo voci che cantano: il Signore è coi forti, e altre voci rispondono: ma i forti nascono dai forti e dai buoni.
Son dunque nel sesto cerchio sepolcri, come ad Arli ed a Pola, ma di modo troppo più amaro; perché questi dell’inferno son così accesi, arroventati da circostanti fiamme, che nessun’arte di fabbro chiede più rovente il ferro per lavorarlo. Dai sepolcri o avelli o arche, di cui son sospesi tutti i coperchi, escon lamenti duri e dolenti sospiri, e a Dante che interroga chi dunque è seppellito in quell’ arche, Virgilio risponde: qui son gli eresiarche, i capi d’eresia, co’ loro seguaci d’ ogni setta, e son molti; e simile è sepolto con simile; cioè, come nelle diverse tombe si puniscono le diverse eresie, così piangono nella stessa tomba quelli che tennero lo stesso errore; e come fu o più o men grave l’errore, così è più o meno infuocata la tomba. Dopo la quale dichiarazione i due poeti, voltando a destra, s'avviano, per visitare il cerchio, tra le tombe e le mura, tra i martiri e gli alti spaldi. Ma prima ch’ ei muovano, fermiamoli un poco ancora, e di due o tre cose interroghiamo Dante. Come hanno i tuoi eretici questo modo: di pena, e qual è la rispondenza da te sempre osservata tra la pena e la colpa? E par che Dante risponda: le arche in faccia al bel S. Giovanni, presso alle quali il mio Guido s’aggirava, dicevano, cercando come dimostrare che Dio non è, mi balenarono il primo lume a idear questa pena; e come io ebbi in mente, innanzi agli altri errori, l’errore degli epicurei che il mio tempo chiamò eresia, così di loro che vollero l’anima morta col corpo, io volli come il corpor sepolta l’anima; poi allargando il concetto agli eretici tutti, feci infuocato il sepolcro per somiglianza col rogo che poteva arderli o li arse vivi. Mi soccorse anche nella invenzione il passo del salmo, sepulcrum patens est guttur eorum, la loro gola è un aperto sepolcro; e puoi quindi comprendere perché di tutte le arche è sospeso il coperchio; nel che ebbi anche un’altra intenzione, dichiarata abbastanza nel canto decimo quando scrissi dei sepolcri:
tutti saran serrati
quando di Giosaffat qui torneranno
co’ corpi che lassù hanno lasciati.
E questa invenzione delle arche o tombe mi parve buona, anco perché mi dava modo a collocar divise nelle varie tombe le varie eresie; e l'eresia è divisione: mi parve bello che le tombe come ad Arli ed a Pola qui nel cerchio sesto spezzassero la campagna, come le eresie spezzarono l’unità della Chiesa. Così par che risponda Dante, e io interrogo ancora. Ma come ciò tutto e altro che di questo cerchio vorremmo sapere, tacesti segnandoci di tua mano la morale topografia dell'Inferno? Perché dovevo o potevo tacerlo: ho detto io forse qualcosa del limbo in quella topografia? e nella mia intenzione, tu hai visto, il primo cerchio e questo si corrispondono: oltre di che, con l’eresia qui punita, che c’ entrava Virgilio a cui, spiegando il mio inferno morale dò la parola, e che c'entrava quell’etica di Aristotile che unica informa essenzialmente la concezione mia d’esso inferno? Tocca a voi vedere come di questo cerchio io ho fatto opera che sta per più rispetti da sé; alla quale, per la collocazione che tanto vi ha fatto dire, hanno segnato il luogo Virgilio e Tommaso accordati: Virgilio con quella zona dell'inferno suo che è sede all’Idra; e idra è l'eresia; Tommaso insegnandomi che l’eresia derivante talvolta da incontinenza talvolta da malizia, è fuor dei peccati che si trovano nei fedeli: al qual concetto, senza altro badare, m’arrestai io con autorità di poeta. Così Dante. Ma noi restiamo ancora con due curiosità; né io ho colpa se il canto ne ha troppe: io ho il debito di non dissimularle. La prima è, guardate, nel penultimo verso del canto
e poi ch’alla man destra si fu volto.
Voi sapete che il viaggio nell'inferno si fa sempre voltando a sinistra: perché qui, e un’altra volta sola, nel cerchio dei frodolenti, a man destra? Non credo vera la ragione topografica da alcuni assegnata, e mi pare da intender così. Dante innanzi tutto pone dunque una qualsiasi somiglianza tra 1° eresia e la frode; e la pone, credo, perché ad ambedue mancò forse dirittura d’intenzioni; certo mancò essenzialmente dirittura d’opere ai frodolenti, agli eretici di giudizio e di discorso. Mi è chiaro questo dal luogo del Paradiso ove è detto come
vie più che indarno da riva si parte
chi pesca per lo vero e non ha l’arte;
soggiungendo poi subito:
sì fè Sabellio ed Ario e quegli stolti
che furon come spade alle scritture
in render torti li diritti volti.
Contro questo torto procedere o speculativo o pratico è necessaria una particolar dirittura d’intenzioni e d’opere e di discorso; di questa dirittura è fatto simbolo il voltare a destra ‘anche nell'inferno, avviandosi a visitare eretici e frodolenti. E forse un altro ammaestramento c’è.
Ricordiamoci che Malacoda riesce ad ingannar Virgilio, la diritta ragione: voglia forse insegnarci Dante che a vincer gli errori e le insidie dell’eresia e della frode, qualche cosa di più occorre che la ragione anche integra? Quando nel Purgatorio. il cammino sarà sempre a destra, Virgilio maestro. avrà bisogno del sole o d’altri a far la strada ch'egli non sa: alla: ragione per avanzar nel bene s’ aggiunge un lume che è fuori di lei e di lei più potente: occorra, nel pensiero di Dante questo medesimo lume particolarmente contro le malizie degli eretici e dei frodolenti?
L’altra curiosità e, rallegratevi, l’ultima, è questo edifizio singolare costruito per gli eretici dal poeta, e nell’ edifizio gli splendori che diversi ma egualmente mirabili, raggiano dalle figure di Farinata e del Cavalcanti: voglio dire: perché intorno agli eretici tanto e sì squisito lavoro ? Per me questa volta, applaudite, risponde il Carducci: Nell’età che fu della giovinezza di Dante, era negli animi un bisogno di spirituale riazione contro gli eccessi della forza, contro il materialismo, il dubbio filosofico, la carnalità dell’ età anteriore, rappresentata negli averroisti e paterini di Federigo II, negli epicurei imperiali; un bisogno di riazione spirituale e di sottomissione a quella fede che in contrapposto all’empietà dei vecchi ghibellini, dei tiranni feudali, dei cavalieri delle case grandi, dalle aureole dei nuovi santi nazionali ancor vivi o motti di poco, parea piover fiammelle di fuoco sugli spiriti e i cuori del popolo nuovo. E a questo che dell’empietà ghibellina, imperiale o feudale, paterina o averroista, in genere, ricorda il Carducci, fa eco il ricordo, in ispecie, della storia fiorentina nel secolo che Dante nacque. Anche sfrondata delle leggende mescolatevi dalla ignoranza o dal tempo, la storia in Firenze dell’eresia paterina, nel secolo XIII, è storia di divisioni e di sangue: e l’anno 1245, venti anni soli prima che Dante nascesse, ebbe Firenze, non la sua notte ma il suo giorno di S. Bartolommeo, e vide il cimitero della maggior chiesa violato, e violata la chiesa e feriti o uccisi, e spogliati o fugati i cittadini che a difesa di lor fede avean tolte l’armi. Era naturale, era giusto che l’anima di Dante, fresca di questi ricordi, udita, credo, da vivi testimoni la narrazione di questi fatti, per coloro che alle altre divisioni aggiungevano la pessima di tutte, la religiosa, invermigliando col sangue il bianco giglio della repubblica, era giusto che Dante preparasse nell'inferno un rogo, qui non dall’ira divina, ma dallo onnipotente ingegno suo, tenuto acceso ne’ secoli.
E ora davvero a Dante che passando tra i martiri e gli alti spaldi si allontana, diamo il saluto, non senza l’augurio di presto rivederlo, nel monumento che a Roma, dicono sul monte Mario, gli leveranno le mani e il cuore d’Italia. In Roma e lassù, genio dell’Urbe, con ai piedi le antiche e le recenti grandezze, aspettando che si avverino i versi augurali
forse diretro a me con miglior voci
si pregherà perchè Cirra risponda,
il poeta che è del medio evo e d’Italia, ma è insieme di tutti i tempi e di tutto il mondo, in Roma e lassù deve sorgere decoro dell’uman genere e credibile ammonitore.
Ammonitore, dico, di molte cose, ma di due specialmente da non doversi tacere per omaggio a quella Bontà che imprenta più forte i canti del nove nella Commedia; alla Bontà onde è lieta in Paradiso Cunizza e biondo ancora e bello e gentile nel Purgatorio Manfredi. L’una cosa è che le sovrane idealità animatrici della sua grande opera non sono ancor tramontate; perchè il tramonto degli dei che è bel titolo di romanzo è anche fatto di storia purché si resti al plurale; l’altra che un termine oltremondano alla nostra via faticosa affermato dalla coscienza dei popoli, raddoppia in questi la forza e della mente e del braccio. AI suo maggior figlio e poeta, crederà innanzi a tutti l’Italia, e al primo fine per cui nel consiglio di Dio la penso risorta, debitamente adempirà, con alti esempi di giustizia e di pace facendo buono un’altra volta il mondo:
Soleva Roma che il buon mondo feo.
Divina missione che non io, o signori, assegno alla nuova Italia. Nel suo stile tra di romantico e di profeta, a modo suo giudicando, quell’ italiano che nel 1840 scrisse in Londra la prefazione agli studi foscoliani su Dante, (e voi sapete quell’italiano chi era) disse proprio quel che ho detto io: La patria si è incarnata in Dante. La grande anima sua ha presentito più di cinque secoli addietro, tra le zuffe impotenti de’ guelfi e de’ ghibellini, l’Italia: l’Italia iniziatrice d’ unità religiosa e sociale all’ Europa, l’Italia angolo di civiltà alle nazioni, l’Italia come un giorno l’avremo. L’avremo diceva nel ’40 il Mazzini; non restiamo a mezza strada noi che, volendo, possiamo dire: l’abbiamo.