Dati bibliografici
Autore: Dante della Terza
Tratto da: Strutture poetiche, esperienze letterarie, percorsi culturali da Dante ai contemporanei
Editore: Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli
Anno: 1925
Pagine: 13-25
Benvenuto da Imola inizia il suo discorso sul nono Canto dell’Inferno mettendo in guardia il lettore, ancora inesperto degli itinerari intrapresi dal poeta verso la sapienza e la verità, di fronte alla barriera dei significati che presto si ergeranno ad ostacolare ogni sua consueta tensione d’attesa.
«Ad intelligentiam cuius volo te scire quod istud capitulum est valde forte et habet multos passos difficiles». Queste sono le parole di Benvenuto. Occorre chiedersi in che misura ancora oggi esse ci coinvolgano.
Il Canto possiede, in verità, una netta scansione di significativi eventi ed una interpenetrazione di episodi in grado di creare nel lettore una coscienza mai delusa della continuità del viaggio intrapreso e della necessaria gravitazione dell’evento che occupa lo spazio del Canto, verso un futuro imminente. Come l’inizio del Canto che ci apprestiamo ad analizzare rimanda, infatti, immediatamente indietro all’accadimento proditorio che ha rinviato Virgilio, vittima della contestazione dei demoni, fuori delle porte di Dite, accadimento che sigla l’ottavo Canto, così le parole che concludono il Canto ci additano la presenza dei due pellegrini tra i sepolcri e le mura della città a ridosso delle quali il loro movimento assume un suo percorso di pacata evidenza.
La calma raggiunta dall’animo di Dante, la lucida consapevolezza del proprio impegno di guida, che è di Virgilio, saranno rivelate dal ritmo discorsivo che costituisce l’incipit del decimo Canto. La rinnovata curiosità di fronte alle percezioni di cui si sente investito un Dante rinato alla vita, consentono al poeta il dispiego di un diagramma narrativo assai agile e calzante adatto a segnalare l’azzeramento della tensione del racconto. Tale strategia espositiva può essere così riprodotta:
a) Dante chiede in tono deferente a Virgilio notizia degli abitanti delle tombe le quali si rivelano scoperchiate e prive di vigilanza.
b) Virgilio spiega che i sepolcri, abitati dagli Epicurei, saranno serrati per sempre in seguito al Giudizio Universale e assicura Dante che la sua curiosità sarà presto appagata, così come sarà soddisfatto quel desiderio che egli non ha ancora rivelato.
c) Nella mente di Dante è affiorata l’idea che tra gli eretici ci debba essere un leader fiorentino della precedente generazione, controverso ed avverso ai suoi, ma affascinante e carismatico.
d) Dante-poeta calibra l'insorgenza di un evento cruciale abbassando a ritmo di familiare dialogo la risposta del pellegrino a Virgilio. Sì, è vero, il suo desiderio è rimasto inespresso ma non è stato Virgilio stesso a deprecare in altra occasione la sua curiosità prematura?
e) Proprio a questo punto ha luogo la più importante inversione di ritmo, il più lampante capovolgimento di strategia narrativa di tutto il Canto. Farinata investe Dante del fervore ineludibile della sua presenza, facendo tornare nell’animo dell’interlocutore il panico appena interrotto ad ingresso avvenuto entro le mura della città di Dite. Il dramma del confronto si rispecchia nell’accoratezza innovativa della situazione emersa. Solo qui, a questa altezza, il distacco dal Canto precedente si rivela un atto compiuto.
Ma, torniamo, com'è doveroso, al Canto IX. L’inizio eredita senza interruzione o salto di qualità, la situazione che sigla il Canto VIII. Si alternano premesse di accentuata visualità ad osservazioni di carattere uditivo. Risaltano in primo piano il volto di Virgilio, infiammato dall’ira e quello di Dante, dominato dal panico, «valde terrefactus et pallefactus timore infrigidante», per ripetere una pittoresca battuta di Benvenuto . Nello sfondo, invece, domina la monocromia di un paesaggio indifferenziato ed occluso: il blocco di ogni visibilità provocato dall’aere nero e da «la nebbia folta». Il forzato trapasso dalla visione negata allo sguardo, alla ricostruzione del luogo solo legata alla qualità decifrabile dei suoni recepiti è accompagnata però dalla metamorfosi significativa dell’atteggiamento di Virgilio. «Attento si fermò com’uom che ascolta» conferisce spessore ironico all’immobile tensione del personaggio. L'aggettivo «attento» fortemente evidenziato, a principio di verso rivela il trapasso dall'istintivo al riflesso, perché è stato proprio il visibile terrore di Dante, angosciato per l'apparente sconfitta della sua guida, a richiamare Virgilio, simbolo della ragione umana, ingiungendogli di rientrare nella norma e di sentirsi investito dal dovere dell’autocontrollo.
Il momento riflessivo e la pausa meditativa che Virgilio si concede, nella misura in cui diventano parola soffocata ed allusione brachilogica non possono non confermare Dante nello stato d’animo di diffusa paura in cui si è finora dibattuto. La terzina che riferisce le parole di Virgilio appare scandita in tre differenziate istanze che vengono, infatti recepite da Dante, la prima, come asserzione rassicurante, ma alquanto velleitaria: «Pur a noi converrà vincer la punga»; la seconda «se non... tal ne s’offerse», come speranza attraversata dal dubbio appena soffocato e infine rimessa nel proprio percorso di plausibilità, ma con un tono che sembra unicamente adatto a ricacciare nel buio dell’inespresso la perplessità emersa. La terza, infine «oh quanto tarda a me ch’altri qui giunga» devolve, con un sospiro ad altri la soluzione del problema che si è mostrato, all'altezza del presente evento, spinoso ed insolubile.
Guido da Pisa che leggeva in modo diverso l’ottavo verso del Canto: «cominciò» el «se non... tal ne sofferse», lasciando catturare il «si» riflessivo nel corpo del verbo che lo segue e trasformando questo in un passato remoto di “soffrire” svia il lettore verso la ricostruzione dell’inamena avventura di Cerbero che era stato gravemente punito da Ercole venuto a liberare Teseo prigioniero dell’Ade. «Come potranno continuare ad opporsi a noi i diavoli della città di Dite, sembra dire Virgilio nella versione fornita da Guido, memori come dovranno certamente essere della lezione meritata da Cerbero?” «Si nos non vincemus, isti qui clauserunt portas terribiliter punientur» (Se le cose non ci vanno bene, coloro che ci chiusero la porta in faccia, subiranno una dura lezione). Virgilio non dice, naturalmente così, ma l’equivoco di lettura, codicologicamente tutt'altro che implausibile, che sembra cancellare l’allusione ad un'offerta non remota di Beatrice di vigilanza e soccorso da parte della «corte del cielo» segnala proprio a questa altezza del Canto la difficoltà ed il pericolo di fraintendimento additati dalle parole di Benvenuto.
Abbiamo, da una parte, la presenza di un pathos espressivo e di un coinvolgimento dei personaggi — Dante e Virgilio e dei loro affetti nell'emergenza della situazione; dall’altra, il contestuale addensarsi di recuperi culturali di tipo sincretico, nei quali consiste la difficoltà esegetica del Canto. Citiamo le parole di Dante a Virgilio:
In questo fondo de la trista conca
discende mai alcun del primo grado
che sol per pena ha la speranza cionca?
(vv. 16-18)
Dante esprime un dubbio assennato e plausibile e lo fa mobilitando una delicata circonlocuzione. Egli, cioè, non chiede alla sua guida se egli sappia quello che sta facendo o se sia costretto ad improvvisare, messo a confronto con l’ignoto, una strategia di ripiego atta, almeno, a salvaguardare l'incolumità del suo pupillo. La domanda è, anzi, formulata con civile distacco: essa registra in apparenza, soltanto un desiderio di informazione: è mai accaduto che un abitante del Limbo, la cui sofferenza s'identifica con la non-speranza di un dialogo con Dio abbia visitato i cerchi dell’Inferno a lui sottostanti? Virgilio tende subito ad interpretare la domanda nel modo più congruo, riferendola a se stesso. «Se è vero, egli dice, che di rado accade che venga consentito agli abitanti del Limbo di scendere più giù del cerchio a cui sono stati destinati, però è accaduto a lui, Virgilio, di esplorare le latebre dell'Inferno, dove giacciono i traditori dei benefattori, il cerchio di Giuda, colà inviato dalla maga Erittone che aveva bisogno di consultare uno degli abitanti di quel triste fondo».
Il tono rassicurante della risposta di Virgilio equilibra ed in parte erode il residuo di paura persistente nel cuore di Dante, ma non è riuscito a liberare dal panico gl’interpreti succedutisi nell’itinerario diacronico delle letture dantesche, cominciando dalle più remote. Guido da Pisa cita opportunamente il precedente di Lucano, Pharsalia VI vv. 589-594, dove Erittone, maga tessala, dietro richiesta, convoca uno spirito dell’aldilà perché informi Sesto Pompeo delle risultanze della guerra civile in cui è coinvolto il proprio padre contro Cesare. Guido cita le parole attribuite da Lucano a Sesto e rivolte ad Erittone:
O decus Eumenidum, populis quae pandere fata
quaeque suo ventura potes devertere cursu,
te praecor, ut certum liceat mihi noscere finem
quem belli fortuna parat.
(O decoro delle Eumenidi, tu che sei in grado di rivelare i destini dei popoli e di deviare dal corso stabilito le cose venture; ti prego! Fa che mi sia lecito sapere con certezza quale conclusione la fortuna prepara alla guerra presente). Boccaccio, che conosce e cita l’episodio di Lucano si addentra, sgomento, a segnalare in modo alquanto criptico, un’insidiosa infrazione (almeno tale a lui sembra) alle regole della religione di cui si professa seguace, così drasticamente ostile alle ingiunzioni della magia . Si riferisce, nella Bibbia, al libro di Samuele, I, 28 in cui si narra come Saul, che pure aveva condannato ed emarginato gl’indovini si rivolga alla maga di En-dor perché richiami in vita l’ombra di Samuele. A Samuele, che risale riluttante al richiamo della vita, Saul spiega come abbia bisogno del suo aiuto e della sua mediazione ora che i Filistei gli hanno dichiarato guerra e Dio si è allontanato da lui e non gli risponde più né per bocca dei Profeti né in sogno.
Il Boccaccio, che diffida di questo contesto biblico come dell’invenzione dantesca relativa alla presunta discesa di Virgilio nel cerchio di Giuda, pensa che un finto Samuele, in realtà un bieco sostituto, uno spirito immondo, fosse stato richiamato alla vita dalla maga di En-dor. Quanto all’invenzione dantesca, il Boccaccio non presta fede alcuna a ciò che ha lasciato scritto l’Ottimo secondo il quale a richiedere l’aiuto di Erittone sarebbero stati Bruto e Cassio, dopo l’uccisione di Cesare, impazienti di conoscer quale sarebbe stata la reazione di Ottaviano al loro delitto. Come può essere considerata plausibile una evocazione di Virgilio dall’Ade in un tempo in cui questi era ancora in vita? Non è il caso di addentrarsi nei meandri di altre ipotesi quale quella che sposta in avanti il richiamo di Virgilio dall’Ade per metterlo in grado di mobilitare ai fini che Erittone si propone lo stesso Bruto capace di ammonire Augusto a non voler strafare mentre si appresta a liquidare le istituzioni repubblicane .
Forse, in un contesto così folto di citazioni dal Libro VI dell’Eneide, dal quarto delle Metamorfosi ovidiane, dal Libro VI della Farsaglia di Lucano e dal primo della Tebaide di Stazio, basterà, con contenuto minimalismo, evocare, a sostegno della valenza narrativa dell’ipotesi del viaggio virgiliano nel cerchio di Giuda, il momento in cui la Sibilla racconta ad Enea come nessuno degli spiriti giusti, e perciò nemmeno lei, abbia visitato il Tartaro profondo, ma che però lei ne abbia avuto dettagliata descrizione quando Ecate la prepose a custodire i sacri boschi d’Averno (Aen. VI, vv. 834-843). In realtà, comunque, il lettore avvertito deve per il momento sfuggire all’insidia di ipotesi multiple e tenersi stretto all'itinerario narrativo del Canto nel suo sviluppo palese e negli agganci rivelatori in grado di proiettare l'accaduto verso situazioni future.
Dal primo punto di vista, della continuità, cioè, del ritmo dell’episodio, il mistero di questa prima visita di Virgilio al basso Inferno sfocia nell’imprevisto di una situazione che la sbiadisce e che, per il momento, la mette come tra parentesi. «E altro disse, ma non l’ho a mente» dice evasivamente Dante, con gesto dilazionante, quando il suo sguardo viene attratto dall’«alta torre alla cima rovente», segnacolo della città di Dite e dell’imminenza di un pericolo nuovo. Dalle estreme propaggini del discorso di Virgilio rimane solo vero e significativo l’accenno, appunto a questo pericolo nuovo. Appare chiaro ormai a Virgilio che la soglia vietata non potrà essere aggredita ed oltrepassata «senz’ira», dove l’ira, sarà l’oggettivo correlativo e il riscontro corale di una mobilitazione esaltata degli spiriti del bene come di quelli del male. Faranno ressa ferro! di Virgilio ferito nel suo orgoglio di guida contestata; l’ira dei diavoli e dei loro accoliti, Furie e Medusa, ostili alle presunte aggressioni portate al loro dominio; ira dell’angelo intervenuto a fare giustizia e ad imporre la volontà del Cielo.
Da un altro punto di vista, la visita di Virgilio al cerchio di Giuda diventa un fatto acquisito ed inglobato nella logica del viaggio e il lettore non potrà mostrare sorpresa di fronte alle molte sue plausibili diramazioni . Così in Inferno XII, 36 Virgilio potrà spiegare a Dante che il terreno che essi al momento esplorano non è più quello da lui reperito nel corso della sua prima visita, accaduta prima che il terremoto, avvenuto alla morte di Cristo, lo trasformasse. Con uguale, plausibile puntualità, Virgilio, circondato in Inferno XXI dai diavoli inforcatori di barattieri sarà in grado di ricordare a Dante che il contegno dei loro avversari non ha ormai per lui più misteri.
E per nulla offension che mi sia fatta
non temer tu, ch'io ho le cose conte
e altra volta fui a tal baratta.
(Inf. XXI, vv. 61-63)
Siamo giunti ora veramente a un punto cruciale del Canto che s’impone alla nostra attenzione per la ricchezza delle sue allegazioni ad un passato poetico con cui Dante è venuto acquisendo una familiarità intensa. Le Furie che popolano minacciose gli spaldi della città di Dite-Megera, Tisifone, Aletto posseggono un passato poetico che gravita verso lo spazio mentale di Dante provocandone la scaltrezza selettiva ed il taglio essenziale delle scelte espressive. L’alta torre «a la cima rovente» del verso 36 rammemora la «ferrea turris» del sesto dell’Eneide (vv. 554 sgg.), la torre nel cui vestibolo veglia giorno e notte Tisifone che indossa una gonna insanguinata. Le Furie figlie della Notte, le cui teste appaiono cinte di attorti serpenti e gli omeri di ali ventose, si mobilitano ad agitare gli animi e a seminare odi nello scontro finale tra i seguaci di Enea e quelli di Turno, che ha luogo nel dodicesimo libro dell’Eneide (Aen. XII, vv. 848 sgg.). Di serpenti sono fatti i capelli delle Furie ovidiane, mentre le ceraste e il verde dei capelli privilegiati da Dante, sono un ricordo della Tebaide di Stazio (I, 103). La mancata vendetta contro Teseo che le Furie si rimproverano nel Canto dantesco («mal non vengiammo in Teseo l’assalto», v. 53) rammemora l’aspra rampogna che il custode della palude Stigia rivolge a se stesso per non aver saputo ostacolare Ercole, Teseo e Piritoo recatisi l’uno a stringere in catene il custode del Tartaro, gli altri a sottrarre Prosepina al talamo di Plutone (Aer VI, vv. 390 sgg.).
Il giuoco delle corrispondenze e la strategia dantesca delle assimilazioni si arresta, al momento, qui. Le parole di Benvenuto che definiscono Aletto «prava cogitatio» ... «quia non permittit quiescere mentem»; Tisifone «prava locutio»; Megera «prava operatio» e «longa lis» sono, come sempre, suggestive, ma dal punto di vista della essenzialità delle scelte operative dantesche e della loro accelerata gravitazione verso gli eventi, si rivelano alquanto ridondanti. La tecnica che porta Dante a scarnire fino all’osso la storia che racconta si rivela, del resto, assai determinante nell’espediente drammatico dell'appello delle Furie, pronte ad evocare dalle ignote latebre del paesaggio infernale l’arrivo incombente di Medusa.
C'è da chiedersi, a questo proposito, perché mai Dante lasci vedere tante sollecitazioni dotte derivate dall’eredità d’una tradizione sincretica alla quale pur tiene moltissimo. Il lettore che abbia familiarità col testo ovidiano non può non ricordare lo straordinario epilogo del quarto libro delle Metamorfosi dove Perseo, celebrando la bellezza antica e lo splendore dei capelli di Medusa ricorda come quei capelli fossero stati trasformati all’improvviso in orride serpi. Ciò accadde quando Medusa subì violenza da parte di Nettuno nel tempio di Minerva e la casta figlia di Giove protervamente considerando la vittima come complice della violenza subita, per punirla dell’improvvisa solitudine con cui si era messa a frequentare il tempio, più per monito a lei che per consegnarle uno strumento di autodifesa contro le violenze a cui si sarebbe esposta, le trasformò i capelli in serpenti.
In realtà però, per il poeta del nono Canto dell’Inferno l'inserimento di Medusa nella logica dell’incontro con le Furie segna un trapasso importante dall’agglomerazione sapiente delle immagini che sottolineano la lettera degli eventi alla vera e propria allegoria del viaggio. Hic et nunc, il significato di Medusa è nella sua essenza di non-personaggio o, per lo meno, nella proiezione nell'immediato futuro di una sua presenza delineata ed ipotizzata, ma che non riceve rispecchiamento concreto nella forza di un evento. (Si ricordino le parole di Virgilio solo legate ad un'ipotesi che non trova conferma nei fatti: «che se il Gorgon si mostra e tu? vedessi» (v. 56). L'impatto episodico di Medusa è tutto relato alla non registrabilità visiva della sua figura di attante di una minaccia di immobilizzazione perenne enunciata contro Dante «Vegna Medusa: sì ’l farem di smalto» (v. 52). Occorre che Dante stia in guardia! Un errore di condotta, un calcolo sbagliato possono distruggere le premesse del viaggio salvifico da lui intrapreso sotto l’egida di Virgilio.
Dobbiamo ad uno studioso americano, John Freccero una preziosa messa a punto sul personaggio di Medusa nel suo apparire alla ribalta dell’evocazione delle Furie . I punti di maggior rilievo del citato scritto mi sembrano essere i seguenti: 1) Esiste un legame paradigmatico tra l’azione minacciata dalle Furie e da loro devoluta all’iniziativa di Medusa e l’apostrofe al lettore dall’intelletto sano, cioè non impedito, nelle sue operazioni, da malizia, secondo la definizione dantesca reperibile in Convivio, IV, xv, 11. A costui si rivolge il poeta che assume a propria responsabilità il ruolo di guida perché il lettore si addestri a scoprire «la dottrina che s’asconde sotto il velame de li versi strani» (vv. 61-63). E qui occorre effettivamente dire che il Freccero coglie a mio avviso con esattezza il valore conclusivo e non prolettico delle apostrofi di Dante al lettore e la necessità di recuperarne il senso integrandone la conclusiva valenza nell’episodio che gravita verso di esse.
Nel caso in esame, l’apostrofe al lettore va riferita al duplice gesto che promuove le mani di Dante e quelle di Virgilio a schermo salvifico contro l’ipotizzata porosi o pietrificazione affidata a Medusa e minacciata dalle Furie contro Dante.
2) C'è un rapporto di tenace simmetria, ma anche di drastica inversione di ruoli tra la coatta ed ermetica chiusura degli occhi di Dante e l’invito-auspicio del poeta perché venga squarciato il velo che copre l’allegoria dei versi appena pronunciati.
3) L’impellente buio emblematicamente necessario perché venga fatta luce sulla vita profonda delle cose, sul tesoro segreto racchiuso nel linguaggio di Dio trova risoluzione ecdotica nel linguaggio della tradizione paolina ed in ispecie nei paragrafi salienti della seconda lettera ai Corinzi, laddove San Paolo asserisce che malizia ed ignoranza pietrificano e che il Dio di «questo» mondo, il solo a cui siano devoti gl’increduli che abitano il nostro pianeta, è la lettera fatta per uccidere lo spirito che dà vita, per ottundere la nostra mente impedendole di capire che eterne sono solo le cose che non vediamo.
4) Non è da trascurare, afferma il Freccero, l’analogia di rime verificabile nella canzone petrosa «Io son venuto al punto de la rota» (Rime, 43c, vv. 53-60) e nei versi 50-52-54 del Canto IX. «Alto», «assalto», «smalto» servono in rima a delineare nelle «petrose» un mondo senza amore, analogo all'inverno dell’anima. «Alto», «smalto», «assalto» con una inversione differenziante di rima, rispetto a «Io son venuto al punto de la rota» ci ingiunge, diremmo noi, a pensare che l’alto grido delle Furie, regolato da tragica intensità atta ad incutere spavento, serve a sbarrare la strada all’«alter Theseus» che è Dante, proiettato dalla nobiltà del proprio viaggio ad evincere quell'amore, assai diverso da quello sollecitato da Teseo, che ogni creatura, purificata dal peccato, deve a Dio.
La pietrificazione minacciata («sì ’l farem di smalto») si rivolge al Dante-Teseo perché nella punizione imminente si rispecchi in intensità e qualità quella punizione che Teseo avrebbe meritato per la sua invadente solerzia di esploratore dell’ignoto in cerca della preda agognata. Il nesso tra le rime della «petrosa» e quelle del Canto IX è valido sempre però, direi, che non se ne deduca una stretta analogia di significati. Il meccanico riflesso delle rime aspre e difficili ritornanti alla ribalta di una metrica coattiva e priva di molte risorse alternative, possiede una logica diversa da quella implicita nei contenuti convergenti, determinati da interazioni situazionali strategicamente organizzate da Dante.
Si può, comunque asserire col Freccero che come la donna pietra è creazione agghiacciante della mente del poeta che nell’atto in cui ne teme i devastanti effetti a proprio disagio e rovina ne inventa dal nulla tutte le diramazioni ipotizzabili, così Medusa e il suo fascino pietrificante assumono significato e valore apotropaico per Dante e per la sua guida desiderosi della auspicata salute che può rispecchiarsi soltanto nella continuità senza remore decisive del percorso infernale invogliato dall’alto.
Occorre a questo punto osservare che autodifesa degli occhi di Dante, argomentata con persuasiva veemenza da Virgilio, si consuma nell’immobilità del corpo che si protegge come può, senza poter trovare il rifugio auspicato dentro le mura della città. Il salto di qualità che permetterà all'ombra di Virgilio e al corpo di Dante di muoversi, non potrà assolutamente essere autogestito: non basta l’equa razionalità della mente, né la volontà di riscatto perché il riscatto abbia luogo. Ci vorrà la forza travolgente dell’angelo mandato al soccorso. La sua forza sarà pari a quella dei venti contrari che si scontrano quando Nereo spumeggiante sconvolge i fondi marini, come nel secondo libro dell’Eneide e la paura dei diavoli sarà simile a quella delle rane ovidiane (Met, VI, vv. 370 sgg.) in fuga davanti alla biscia nemica e le porte della città di Dite si spalancheranno ad un segno della verghetta che le mani dell’angelo agiterà con un gesto simile a quello rivolto dalla Sibilla al riluttante traghettatore Caronte (Aen. VI, 466 sgg.) .
Sulla identità del personaggio carismatico che schiude a Dante e a Virgilio la soglia proibita ha scritto con accortezza il Sapegno nel suo commento all'edizione della Commedia da lui curata per La Nuova Italia di Firenze. Non è il caso di mobilitare Ercole, Enea, Mercurio o Mosé; si tratta di un angelo anonimo, in un contesto dove ancora un angelo non può avere nome; può svolgere soltanto la funzione che gli compete. Egli lo fa con distacco professionale, mettendo alla gogna l’oltracotanza diabolica ed anche evitando ogni contatto con Dante e Virgilio che egli lascia alle responsabilità del loro imminente destino.
Poi si rivolse per la strada lorda,
e non fé motto a noi, ma fé sembiante
d’uno cui altra cura stringa e morda
che quella di colui che li è davante
e noi movemmo i piedi inver la terra
sicuri appresso le parole conte.
(vv. 100-105)
Dante e Virgilio sono ormai dentro le mura della città accanto alle tombe degli eretici. La plausibilità e la riproducibilità descrittiva delle cose viste trasferisce il lettore all’interno d’una topografia verificabile. I luoghi privilegiati sono uno più lontano e un altro più legato all’esperienza ipotizzabile di un lettore operante intra moenia in possesso di una geografia peninsulare ed italiana. La stessa tecnica Dante adopererà per descrivere l’argine lungo il quale egli si muove a ridosso del sabbione dei violenti contro natura: affiora prima l’opera di difesa elevata dai Fiamminghi tra Guizzante e Brugia; poi quella elevata dai Padovani contro il fiume Brenta straripante dagli argini. Qui si passa da Arles a Pola. A proposito del primo cimitero, così ha scritto André Pézard nel suo commento al Canto che è parte della traduzione e del commento all’intero poema apparso in francese nel corpo delle edizioni della Pléiade. “Le cimitière des Aliscamps fut jadis immense, des miracles y avaient eu licu. Les héros des chansons des gestes, les chevaliers chrétiens des Croisades, les princes et les seigneurs, de siècle en siècle, les riches dévots enfin voulaient y avoir leurs sépultures». (Il cimitero di Arles fu una volta immenso; vi avevano avuto luogo miracoli. Gli eroi delle chansons des gestes, i cavalieri cristiani delle Crociate, i principi e i signori di secolo in secolo, i ricchi devoti infine, volevano esservi seppelliti).
Accanto alla ricostruzione dantesca in partibus Galliae, fatta per traslati di simpatia libresca non rara nella Commedia, appare, visibile al lettore, un indice teso verso il confine orientale tra Pola e il Carnaro «che Italia chiude e suoi termini bagna», in allusione segnatamente affettiva che ci prepara in qualche modo all’incontro con due Epicurei di provenienza italiana e fiorentina, assai vicini all'orizzonte mentale di Dante, Farinata e Cavalcante. Meno razionalizzabile e pur meritevole di segnalazione è il movimento di Dante e di Virgilio verso destra piuttosto che verso sinistra, come accade per deliberato proposito e per scelta topografica significante, nel percorso infernale. La cosa aveva colpito Charles Grandgent nel suo commento in inglese alla Commedia che è del 1933 . A questi venne fatto di alludere ad Eneide, VI, vv. 540 sgg. dove si dice che la destra conduce alla salvezza dei Campi Elisi, la sinistra ai tormenti del Tartaro empio (Hic locus est, partis ubi se via fendit in ambas / dextera, quae Ditis magni sub moenia tendit / hac iter Elysium nobis; at laeva malorum /exercet poena et ad impia Tartara mittit») (È questo il posto dove la strada si scinde in due: la destra che tende verso le mura del grande Dite è la strada tracciata per noi verso l’Elisio la sinistra invece dove sono tormentati i malvagi guida verso il Tartaro empio.). È forse la scelta del lato meno protervo un simbolo, certo di non travolgente evidenza, d’un superamento futuro, auspicato e preconizzato da Dante e dalla sua guida, degli orrori che si apprestano a visitare? Possiamo, senza danni, almeno sospettarlo.