Dati bibliografici
Autore: Giovanni Palumbo
Tratto da: Rivista di Studi Danteschi
Numero: 13
Anno: 2013
Pagine: 169-183
Nel canto IX dell’Inferno Dante paragona gli avelli del sesto cerchio, in cui sono puniti gli eretici, alle tombe delle necropoli di Arles e di Pola (vv. 112-17):
Sì come ad Arli, ove Rodano stagna,
si com’a Pola, presso del Carnaro
ch'Italia chiude e suoi termini bagna,
fanno i sepulcri tutt'il loco varo,
cosi facevan quivi d’ogne parte,
salvo che ’l modo vera pit amaro.
Come informa la voce «Arles (Arli)» dell’Enciclopedia Dantesca: «La conoscenza che D[ante] doveva avere delle tombe di A[rles] non presuppone una visione diretta del luogo, e quindi un soggiorno di D[ante] in Provenza, data la grande popolarità che il cimitero aveva nel Medioevo: secondo un'antica leggenda fu consacrato da s. Trofimo alla sepoltura dei cristiani; è ricordato in uno dei poemi del ciclo di Guglielmo d'Orange come il luogo dove, dopo la battaglia contro i saraceni, sarebbero stati sepolti tutti i cristiani. Alcuni commentatori (il Lana, Benvenuto, il Buti) accennano all'origine miracolosa della necropoli dopo una vittoria di Carlo Magno: “A la fine rimase lo campo ai Cristiani. Siché quelli che rimasero vivi [...] voglendo per pietade seppellire li soi [...] feceno prego a Deo che a lor dovesse per grazia revelare quali fossenoli fideli. Esauditi costoro dalla benignitade di Dio, apparve sopra ciascun corpo, ch'era in vita cristiano, una cedola, in la quale era scripto lo nome e la condizione sua. Costoro visti tali nomi e facultadi feceno far tumoli over arche [...]? (Lana). Non si deve certo escludere che la leggenda fosse diffusa già ai tempi di Dante».
Oggetto della presente nota è proprio la leggenda evocata dagli esegeti antichi della Commedia Oltre che dai tre commentatori sopra ricordati, ossia Iacomo della Lana (1323-1328), Benvenuto da Imola (1375 per la lettura bolognese; 1379-1383 per il commento) e Francesco da Buti (1396) il racconto dell’origine miracolosa della necropoli di Arles è riferito — talvolta con non dissimulato scetticismo — anche da Graziolo Bambaglioli (1324), dall’Anonimo Latino (prima del 1328 per l'Anonimo Lombardo; 1336 ca. per l’Anonimo Teologo), dall’Ottimo Commento (1334; cosiddetta “terza redazione”, 1338), dalle Chiose Selmi (prima del 1337), da Guido da Pisa (seconda redazione, tra il 1335 e il 1340), da Andrea Lancia (1341-1343), dalle Chiose Ambrosiane (1355 ca.), da Guglielmo Maramauro (1369- 1373), da Giovanni Boccaccio (1373-1375), dall’Anonimo Fiorentino (XIV-XV secolo) e da Cristoforo Landino (1481), senza contare i commentatori del XVI secolo quali Gelli. ‘Tale leggenda era inoltre molto probabilmente nota anche a Guiniforte Barzizza (1440 ca.), che la classifica tuttavia tra le «fanfalucche» che non si cura di «recitare» .
Tutti i chiosatori che ne danno notizia concordano sul fatto che la genesi del cimitero di Arles è legata a una cruenta battaglia tra cristiani e saraceni, al termine della quale l’intervento divino ha permesso ai cristiani superstiti d’identificare i propri morti e di dare loro una degna sepoltura in avelli “personalizzati”, di varia forma e fattura. Sull’identità degli eroi cristiani protagonisti della battaglia e sulla natura del miracolo che ne ha permesso l’identificazione, le opinioni degli antichi esegeti danteschi sono però discordanti.
Alcuni commentatori (l’Anonimo Selmiano, Guido da Pisa, Benvenuto [Comentum], Francesco da Buti, Cristoforo Landino) ritengono infatti che la battaglia sia stata combattuta da Carlo Magno. Altri (Iacomo della Lana, il volgarizzatore di Bambaglioli, l’Anonimo Latino, Boccaccio) legano invece l’episodio a Guglielmo d'Orange (che, secondo il Lana e l’Anonimo Latino, «in la qual briga mori»), oppure, pit genericamente, ai «figliuoli del grande Amerigo di Narbona» (l’Ottimo, da cui «il grande Amerigo di Narbona» dell’Anonimo Fiorentino). Non mancano poi i commentatori che restano sul vago e non arrischiano alcuna identificazione: cost il Bambaglioli, la cosiddetta “terza redazione” dell’Ortimo, il Lancia, le Chiose Ambrosiane, Maramauro e Benvenuto (corso bolognese), i quali si accontentano di parlare, in generale, di «Christiani» (Maramauro cita però Turpino e Viviano tra i morti sepolti ad Arles).
Quanto al prodigio, un drappello di esegeti (Anonimo Selmiano, Guido da Pisa, Maramauro, Boccaccio, Benvenuto nella lettura bolognese) racconta il “miracolo delle tombe”: sul campo di battaglia, a fianco di ciascun cristiano morto compare un’arca già bell'e pronta all’uso (secondo Guido da Pisa, in séguito alle preghiere di Carlo «sepulcra ceciderunt de celo»). Altri chiosatori (Iacomo della Lana, la cosiddetta “terza redazione” dell’Ottimo, il Lancia, il Comentum di Benvenuto) riferiscono invece quello che si potrebbe chiamare il “miracolo delle cedole”: i morti cristiani sono infatti identificati grazie all’apparizione di «una cedola, in la quale era scritto lo nome e la condizione» di ognuno di essi (cosi Iacomo della Lana, la cosiddetta “terza redazione” dell’Ottimo, il Comentum di Benvenuto), oppure, più genericamente, grazie ad un «segnale» (Lancia). Una volta identificati, i corpi sono poi sepolti dai compagni sopravvissuti, ciascuno nella bara che meglio si addice alla sua condizione terrena. Infine, non pochi commentatori (Ottimo, il volgarizzatore di Bambaglioli, l’Anonimo Latino, Francesco da Buti, l’Anonimo Fiorentino, Cristoforo Landino) riportano entrambi questi prodigi, mettendo l’accento ora sull’uno, ora sull’altro, e introducendo talvolta varianti minime. Le Chiose Ambrosiane, quanto a loro, si limitano a parlare di «sepulture [...] miraculose».
Malgrado queste discordanze che toccano la superficie del racconto, appare dunque evidente che i commentatori antichi della Commedia hanno attinto ad una comune leggenda sulla genesi del cosiddetto Cimitière des Aliscamps (Campi Elisi). Ma di quale leggenda si tratta? E qual è la sua origine?
A margine di Inf., IX 122, gli studiosi moderni della Commedia usualmente ricordano che: 1) secondo l’Historia Karoli Magni et Rotholandi, ad Arles sono sepolti i cavalieri borgognoni morti a Roncisvalle; 2) nella tradizione epica, Aliscans è il teatro della battaglia di Guglielmo, Viviano e Renoardo contro i Saraceni; 3) il cimitero di Arles è ricordato in numerose opere medievali (tra le quali il Dittamondo di Fazio degli Uberti e, soprattutto, gli Otia imperialia di Gervaso da Tilbury, tertia decisio, xc). Nessuno di questi riferimenti permette però di spiegare in modo soddisfacente il racconto leggendario riportato dai commentatori antichi, dal momento che nessuna di queste opere riferisce il miracolo che, a parere dei primi commentatori di Dante, sarebbe all'origine del cimitero.
Per identificare quale sia la leggenda nota agli antichi esegeti danteschi, bisogna rivolgere lo sguardo altrove. È infatti necessario scartabellare di nuovo il cosiddetto dossier arlésien, che è ben più ricco e complesso di quanto non lascino credere i riscontri usualmente associati a Inf., IX 122. Da tempo costituito, analizzato e discusso, il corpus arlésien è stato recentemente studiato con cura da Hans-Christian Haupt, che ha fornito anche un bilancio bibliografico delle controverse questioni legate all'origine e allo sviluppo della storia leggendaria di Arles. In questa sede sarà quindi sufficiente rivisitare solo le pièces principali del dossier, soffermandoci esclusivamente sugli aspetti che interessano da vicino il nostro discorso.
Diversi testi raccontano — ora in modo disteso, ora con rapidità allusiva — la guerra o le guerre che Carlo Magno, Guglielmo e Vezian (personaggio da identificare, almeno in alcuni casi, senz'altro con Vivien) avrebbero combattuto per impossessarsi della città di Arles, caduta in mano dei saraceni (spesso guidati dal re Thibaut, avversario tradizionale degli Ameridi), e il “miracolo delle tombe” che, al termine dello scontro, ha permesso di identificare i morti cristiani. Si tratta essenzialmente di sei opere.
La testimonianza pit antica della presa di Arles a noi pervenuta si legge ai vv. 14885-908 della Kaiserchronik (1147 ca.). Il chierico di Ratisbona racconta infatti l'assedio vittorioso della città da parte di Carlo Magno, poi il prodigio divino che permette di riconoscere i cristiani dai saraceni:
L’empereur Charles [...] assiégea une place forte qui s'appelle Arles. Il y resta plus de sept ans. Les assiégés le méprisaient: un canal souterrain leur apportait en abondance du vin et tout ce qui était nécessaire à leur vie; mais Charles, par grande adresse, détourna le canal, si bien qu'ils ne purent plus tenir. Ils ouvrirent les portes et combattirent avec un grand acharnement; mais ils succombèrent dans la bataille... On ne pouvait distinguer les morts, quand Dieu les indiqua à l’empereur: il trouva tous les chrétiens placés dans des cercucils de pierre ornés. C'est une chose qui mérite d’étre racontée à jamais.
Assenti dal racconto della Kaiserchronik, i personaggi del ciclo di Guillaume d’Orange, verosimilmente sospinti dal successo di Aliscans, fanno la loro apparizione nella galassia narrativa legata alla presa di Arles già alla fine del XII secolo e poi, in modo sempre pit marcato, nel corso del XIII e del XIV secolo. Il primo testo che attribuisce loro una vera funzione nella conquista della città è la Vita sancti Honorati (1250 ca.), che riferisce due spedizioni militari. La prima volta, Arles è presa da Carlo sulla via del ritorno da Roma, dove è stato incoronato imperatore. Nella spedizione in Provenza perde la vita in un agguato un tal Uezianus, sulla cui tomba, situata in Alichamps, sarà edificata la chiesa Saint Honorat. La seconda spedizione è resa necessaria dal fatto che i saraceni, approfittando dello scompiglio politico causato dalla morte di Carlo, hanno riconquistato l’intero litorale. Lotario e Luigi inviano allora contro gli infedeli «Raynoardum, Bertrandum, Giscardum et duces Uezianum et Arnaudum et Aymonem marchionem et principem Narbonensem et Aurasicensem cum eorum clara sodalitate filiorum, fratrum pariter et nepotum»; ma i cristiani, sconfitti, sono costretti alla fuga e nella battaglia muore il «nobilis Lotoringus Vezianus». Un racconto analogo si legge nell'adattamento della Vita sancti Honoratiin lingua provenzale ad opera di Raimon Feraut: la Vida de sant Honorat, che è stata terminata nel 1300 e che segue in genere con discreta fedeltà la Vita, «n’ajoute rien à ces récits sommaires où la trame historique s'orne de vagues souvenirs d'Aliscans».
Se le due opere appena citate ignorano il “miracolo delle tombe”, il prodigio riemerge nel Qualiter et quotiens civitas Arelatensis, que est sita in comitatu Provincie, fuit acquisita per Christianos, breve estratto cronachistico conservato nel ms. Vaticano, Palatino 965, cc. 264-265, copiato verso il 1360, e nel Roman de saint Trophime, copiato nel 1380 da Bertran Boysset. Questi testi derivano con ogni probabilità da una comune fonte latina che hanno rimaneggiato indipendentemente l’uno dall’altro. La riscrittura, mal riuscita, ha causato vistose incongruenze in entrambe le narrazioni.
Nel Roman de saint Trophime, che non menziona esplicitamente la presa di Arles, il “miracolo delle tombe” è maldestramente incastrato tra l'adattamento di due capitoli dello Pseudo-Turpino: «E cant Karle auzi que tantz homes mortz son, / En aquelas batalhas, e non conois qui son, / Fes preguieras a Dieu que elh li demostres / Cals eran Crestians vo Sararins ades: / E Dieus nostre senhor, qu'es plens de pietat, / Las preguieras de Karle a tantost escoutat; / Que trames monimens de marme ben obratz / E de totas manicras de pieras que queratz; / E trames n’i Dieus tant el sementeri sans/ C’on non los nombraria s'i ponhava .c. ans. / E vengron tug ensems li vas en .j. nueg / Von li Crestians foron sebelitz sens enueg».
Secondo il Qualiter et quotiens, invece, il miracolo si produce all’inizio, e non al termine, dell’assedio di Arles:
Cum Karolus civitatem Arelatensem, quam tune temporis Sarraceni tenebant, obsedisset, cum exercitu infinito, precibus ipsius Caroli, dominus Jhesus una nocte innumerabilia sepulchrorum milia ex marmore et alio genere vario diversis lapidibus miraculose operatus est, ad opus illorum qui, in obsidione illa, a Sarracenis, pro nomine suo, in illo loco vel quocumque alio, interficiendi erant. [...] Quo miraculo peracto, Karolus, cum desiderio sui exercitus, pugnavit cum Sarracenis, et, eis devictis, civitatem cepit et cam Christianis tradidit.
Arles è poi ripresa due volte dai saraceni e per due volte è riconquistata da Carlo. Gli infedeli, tuttavia, non demordono e alla morte dell’imperatore si impossessano di nuovo della città, così come avviene nella Vita sancti Honorati. Segue quindi il racconto della terza riconquista cristiana, che vede protagonisti gli Ameridi e che si fonda essenzialmente su Aliscans.
Infine, il Roman d’Arles, copiato nel 1375 dallo stesso Boysset cui si deve il Roman de saint Trophime, offre il racconto piti sviluppato, che risulta da molteplici stratificazioni, ma non menziona il “miracolo delle tombe”. Qui basterà perciò ricordare che vi sono narrate quattro spedizioni contro i saraceni di Arles, capeggiati da Thibaut e Marcile: le prime due spedizioni sono condotte da Carlo; la terza da Vezian, coadiuvato da Guillaume; la quarta dal figlio di Carlo, Louis, fresco di corona.
Anche da questa breve carrellata, appare dunque evidente che gli esegeti antichi della Commedia attingono alla medesima tradizione narrativa che va dalla Kaiserchronik al Roman de saint Trophime e oltre, tradizione che esisteva dunque già all’epoca di Dante. La presenza in questo filone leggendario tanto di Carlo che degli Ameridi spiega senz'altro, insieme al successo di Aliscans; le esitazioni dei commentatori danteschi, che, come abbiamo visto, citano ora l’uno ora l’altro personaggio. Quanto alla nascita miracolosa del cimitero, i testi del corpus arlésien che ne parlano sono, su questo punto, concordi: in risposta alle preghiere di Carlo Magno, Dio, di notte, fa in modo che i numerosi cristiani morti siano sepolti in bare preziose, varie per forma e per materiale, comparse all'improvviso sul campo di battaglia. Gli esegeti della Commedia che riferiscono la «favola» nel modo più genuino sono dunque l’Anonimo Selmiano, Guido da Pisa e, con minor precisione, Benvenuto da Imola (lettura bolognese), Maramauro, Francesco da Buti, Boccaccio (che attribuisce però la battaglia a Guglielmo), il Landino.
Sarebbe certo interessante determinare attraverso quali canali i commentatori danteschi, infaticabili e preziosi collettori di notizie d’ogni genere, abbiano conosciuto i racconti sulla presa di Arles — attraverso una cronaca latina o un testo narrativo, per il tramite del dominio d’oil oppure d’oc- e quale sia l'origine delle varianti che essi riferiscono. Purtroppo gli indizi a nostra disposizione sono troppo flebili per autorizzare qualsiasi speculazione e le affermazioni dei commentatori sulle fonti utilizzate, come avviene di norma in questi casi, sono di scarso soccorso: se Iacomo della Lana rinvia alle «croniche», senza nulla più, la maggior parte degli altri esegeti (Anonimo selmiano, l’Ottimo, Bambaglioli, Benvenuto, Francesco da Buti, Landino) si trincerano dietro le opache e generiche formule abituali, del tipo: «dicesi», «dicono», ecc., il che fa pensare a leggende popolari, così come afferma esplicitamente Boccaccio, seguito dall’Anonimo Fiorentino: «dicono i paesani». Le zone d'ombra dunque, inevitabilmente, restano, ma il confronto tra la tradizione dantesca e quella arlesiana è comunque proficuo. La tradizione arlesiana permette infatti di gettare una luce supplementare sul retroterra culturale dei commentatori della Commedia e consente di recuperare un’altra tessera del variegato mosaico delle loro conoscenze. Per converso, la testimonianza degli antichi esegeti danteschi aiuta a perimetrare con maggior precisione l’area di diffusione della leggenda sulla presa di Arles e sulla nascita della necropoli, attestandone la circolazione, al più tardi nei primi anni del XIV secolo, anche in Italia. Il corpus arlésien s'arricchisce così di una pièce supplementare: una ramificazione secondaria, passata finora inosservata, ma non priva di interesse.
In margine a Inf., IX 112-17, molti commentatori antichi della Commedia accennano all'origine miracolosa della necropoli di Arli, che sarebbe nata in séguito a una cruenta battaglia combattuta dai cristiani, capeggiati da Carlo Magno o da Gugliemo d’Orange, contro i saraceni. Il contributo mette a confronto la tradizione dantesca con quella arlesiana, con lo scopo, da un lato, di gettare una luce supplementare sul retroterra culturale degli antichi esegeti della Commedia, dall’altro di contribuire a una migliore conoscenza della diffusione della leggenda sulla presa di Arles e sulla nascita della necropoli, di cui proprio la testimonianza dei commentatori danteschi permette di recuperare una ramificazione laterale, passata finora inosservata, ma non priva d'interesse.