Dati bibliografici
Autore: Marco Veglia
Tratto da: Tenzone. Revista de la Asociación Complutense de Dantología
Numero: XI
Anno: 2010
Pagine: 123-156
Oscure e impervie come solo la Commedia saprà essere in taluni suoi luoghi, le cosiddette ‘rime petrose’ rappresentano ancora oggi, pur dopo tante ricerche a esse dedicate, un arduo cimento per il lettore di Dante . La diffrazione delle ipotesi di lettura riposa naturalmente sul variabile antefatto dell’interpretazione: muta, in effetti, il senso generale di quel manipolo di poesie a seconda del tempo nel quale si colloca quell’esperienza; muta a seconda dell’identità della Pietra, come pure si trasforma in ragione del valore conferito al conclamato sperimentalismo stilistico e alla inclinazione dei dantisti ad assegnare, o a negare, un significato in lato senso allegorico alla Pietra stessa e alla rime che ne rappresentano l’asperità . A questa perdurante oscillazione pendolare si aggiunge, come suo compimento o radicalizzazione, la istituita e quasi ossessivamente ribadita polarità fra la Pietra e Beatrice, a sua volta centrata sulla presupposta natura sensuale delle ‘petrose’ e sulla taciuta sensualità dell’amore di Dante per Beatrice (su questa via, si è mosso di recente Giuseppe Ledda) . Onde, pure, la mutevole sovrapposizione della Pietra alla «pargoletta» (anch’essa non poco misteriosa), alla Donna Gentile (a quella della Vita nuova, oppure del Convivio?), alla Montanina, senza contare, per questa via, l’inclusività del fantasma femminile della Beatrice della Commedia, sulla quale autorevolmente ha richiamato in questo convegno l’attenzione, da par suo, Raffaele Pinto . Comunque si voglia intendere il carattere «radicalmente frammentario» delle petrose, richiamato da Freccero (1989) sulla scia di Contini, resta il fatto che quelle rime, come ben vide Luigi Blasucci in un saggio del 1957, sono forse «l’episodio più determinante per la formazione di quell’abito espressivo che caratterizzerà il Dante maggiore», se non altro perché in esse è dato ravvisare «la novità di una dimensione espressiva che sarà poi così tipica dello stile di Dante», da ravvisare in «una violenta traduzione plastica delle entità, e conseguentemente, in una loro forte attivazione» (Blasucci 1957: 403). Insomma, lo stile della Commedia, capace non solo di evocare ma di rappresentare plasticamente, in dinamica tensione, le cose e le esperienze degli uomini, inizia, o, se non inizia, si manifesta in alto grado, nelle ‘petrose’. «Nei confronti di questa novità», osservava opportunamente Blasucci, «lostesso episodio erotico legato al nome della donna Pietra, con le sue caratteristiche psicologiche di passionalità e sensualità, tende a passare in secondo piano» (Blasucci 1957: 404). Si deve invece a Durling e Martinez la più compiuta messa a fuoco della linea che unisce il ciclo per la Pietra (considerato «the major turning point in Dante’s developement») al poema, tanto che, a loro giudizio, «the poetics of the Commedia is fully understandable only in the light of the petrose» (Durling-Martinez 1990: 199).
Su un aspetto vorrei dapprincipio indugiare. Mi è capitato altrove (Veglia 2010) di osservare che, dalla centralità del libero arbitrio (Purg. XVI) e dalla definizione conseguente del nuovo amore in Purg. XVIIXVIII («liberum meum ligavit arbitrium», è detto, non per nulla, del fantasma dell’amore passionale nell’epistola prefatoria di Amor, da che conven) sino all’incontro con Beatrice (contestuale alla scomparsa di Virgilio), in Purg. XXX, Dante ripercorre tappe e ripensa problemi dell’ultimo cruciale decennio fiorentino, ma, in particolare, s’imbatte in personaggi preziosi per la definizione dello «stil novo» e dell’immagine teologizzata di Beatrice, che chiudeva un tempo la Vita nuova e che ritorna, tal quale, anzi potenziata su quell’antefatto, nell’Eden. Non affermo, benché ne sia profondamente persuaso, che quella sequenza di temi e colloqui riproduca, in modo per noi sfuggente, una serialità che fu anche temporale, quindi storica, a monte del libello: certo è che i personaggi incontrati, da Bonagiunta a Guinizzelli a Forese, rimontano tutti a un periodo anteriore al 1296 (che è il terminus ad quem della morte di Forese), il che, con il vincolo della data fittizia del viaggio, indica manifestamente che Dante sta ripensando nel Purgatorio all’intreccio di questioni che, fra altro e con altro, sta alla radice del libello (nel tempo che corse dal 1290-91 al 1294) (Veglia 2010). Ed è altrettanto certo che il ritorno a Beatrice nella Commedia, a quella Beatrice che, per i lettori del poema, riaffiorava appunto – si badi – dalle lontananze della Vita nuova e da altre rime sparse (non cognito era infatti il Convivio), testimonia del pari la rielaborazione purgatoriale dell’itinerario che condusse alla consacrazione definitiva dell’immagine della donna nelle pagine del 1294. Se questo è vero – e, per il sottoscritto, è vero –, ne discende un ripensamento della serie dei canti coinvolti in siffatta rievocazione nel «secondo regno», i quali canti, trattati con mano leggera al reagente di queste osservazioni, posso forse rivelare un itinerario coerente col libello e insieme col poema.
L’idea, tanto per cominciare, di un amore rinnovato e ‘ascendente’ (Purg. XVII-XVIII), che presuppone la rivendicazione di un libero arbitrio (Purg. XVI) negato invece dall’amore passionale e, diciamo, cavalcantiano; il superamento di amori ancillari e devianti come la «femmina balba», con le sue delectationes ingannevoli, inscritto nel pauperismo francescano (così fervido in Santa Croce per colui che aveva frequentato le «scuole de li religiosi»), che traspare da Purg. XIX-XX; il recupero di un filone sapienziale, aperto alla fede cristiana, nella cultura classica e pagana, così come suggerito dal rapporto fra Stazio e Virgilio in Purg. XXI-XXII (dove già Pasquini intravvedeva in controluce, con sicurezza di sguardo, il rapporto fra Dante e Cavalcanti) ; le vicissitudini condivise con Forese Donati e il colloquio con Bonagiunta Orbicciani da Lucca, che definiscono per contrasto la natura ontologico-stilistica dello «stil novo» (Purg. XXIII-XXIV); il superamento filosofico della posizione averroistico-epicurea circa la separatezza dell’intelletto possibile dall’anima umana in Purg. XXV (dalla quale separatezza, se non emendata da un «organo assunto» dalla pianta-uomo, discendeva la mortalità dell’anima individuale: altro punto, e principalissimo, della sovrapposizione di Stazio a Dante e di Virgilio a Guido) (Veglia 1997); il ritorno a Guinizzelli come precursore della teologizzazione della donna e l’appello e l’omaggio alla lezione, un’autentica «mistica verbale», di Arnaut Daniel (cruciale, come dimostrò Luciano Rossi, per le ‘petrose’), in Purg. XXVI (Rossi 1995); il distacco da Virgilio-Guido, successivo al suo protratto silenzio (Purg. XXVII-XXX), nell’approdo a una Beatrice che, nella Vita nuova come pure nell’Eden, nulla aveva di comune col mondo di Cavalcanti, che pur, come nessuno, aveva preparato quell’incontro, lo aveva atteso ed esortato, quale naturale e poi esterrefatto dedicatario della Vita nuova del più giovane amico: tutto questo prepara e giustifica, nella struttura e nei significati del Purgatorio, il viaggio di ritorno a Beatrice e il ripensamento del decennio 1290-1300 (con ciò che precede e con ciò che segue la Vita nuova), non senza la mediazione (per un Dante che moveva sempre, nei suoi slanci conoscitivi e nelle sue esperienze poetiche, da antefatti storici) di un amore capace di conciliare Dio e la Natura (come accade nell’eterno femminino di Matelda, chiunque ella sia).
Da un simile ripensamento non sono escluse le rime ‘petrose’. La ricomparsa della «antica fiamma» di Beatrice in un contesto di perpetua primavera accentua anzi il rilievo, nient’affatto secondario, delle immagini invernali scelte come correlato oggettivo della inusitata durezza dell’amata. Ciò è tanto vero che, secondo Ignazio Balzelli, «gran parte della seconda metà del canto XXX e della prima metà del canto XXXI del Purgatorio si svolge su uno stile (parole e forme) da una parte intensamente realistico e concreto, dall’altra letterariamente alto, difficile e aspro, insomma lo stile proprio delle ‘petrose’» (Baldelli 1992: 173). Eppure, dinanzi alla ripresa dantesca del linguaggio petroso nell’Eden, i lettori hanno per lo più ribadito la persuasione che tali echeggiamenti dovessero giovare a Dante per ribadire l’opposizione inconciliabile tra Beatrice e la donna-Medusa. Tuttavia, se quanto prima si è accennato ha un fondo di verità, se cioè il Dante della seconda metà del Purgatorio ripensa e ripercorre le tappe della propria esperienza poetica dalla Vita nuova all’esilio, la presenza della memoria delle petrose nel ritratto di Beatrice doveva suggerire qualcosa di più di un semplice accertamento di reminiscenze. Non possiamo, è vero, possedere la certezza della loro collocazione cronologica (comunque sia, tra il 1296-98 e il 1304), ma potremmo ragionare, questo sì, sulla loro intrinsechezza all’immagine di Beatrice (non a quella, si noti bene, dolorosa e cavalcantiana di – poniamo – Lo doloroso amor, ovvero della prima parte della Vita nuova o d’altre rime escluse dal libello, ma all’immagine di Beatrice, va ribadito, quale si presenta nella gloriosa epifania edenica della Commedia). La memoria della Pietra (non solo a ridosso, quindi, ma dentro Beatrice) lascia perciò trasparire la sua pertinenza col rapporto di Dante verso la natura della donna amata e ritrovata nell’Eden : meglio ancora, con quella parte della natura di Beatrice che, pur alimentandosi di inestinguibile passione, era pur sempre, e al contempo, Grazia, Teologia, Verità (non godute ancora, non fruibili, ma ostili, severe, quasi inaccessibili alla imperfezione del Viandante). Se non si dubita della pertinenza di altre reminiscenze, adibite in contesti contigui per trattare problemi specifici (si pensi, nello stesso Purg. XXX, 82-84, alla precisione del richiamo al Salmo 30, ai versetti 1-9: sino alla soglia di pedes meos), non si vede perché dovremmo dubitare della pertinenza della Pietra con la zona più misteriosa e dura, litica, di Beatrice (dura, e come tale rimproverata nella «corte del cielo», sin dal principio del poema). Per il Convivio, del resto, ben ricordato da Irene Maffia Scariati (2005), «coloro che non hanno vita ragionevole alcuna sono quasi come pietre» (II, I, 3-4). Né va dimenticato che, dinanzi a Beatrice, in un luogo sempre allegato alle discussioni sulle ‘petrose’, Dante si trova in condizione propriamente litica: «… perch’io veggio te ne lo ’ntelletto / fatto di pietra e, impetrato, tinto, / sì che t’abbaglia il lume del mio detto» (così Beatrice in Purg. XXXIII, 73-75). Una tale esattezza di riferimenti alle petrose, per sé e per Beatrice, ha la medesima chiarezza del Ps. XXX, 1-9 ricordato nel XXX del Purgatorio: essa definisce un contesto che scorre, per dir così, e filtra nel poema, per spiegarne e lumeggiarne le implicazioni.
La certezza della petrosità, nelle rime come poi nella Commedia, è inoltre reversibile: se Dante è «impetrato», «fatto di pietra», ciò accade al cospetto di una donna che ha le medesime caratteristiche (il gelo e la durezza) della Pietra.
Quest’ultimo aspetto della conversione dell’amante nell’amata, nonché della capacità di quest’ultima di rendere «marmo» l’amante, è di particolare rilievo: se non si osserva la reciprocità della pietrificazione, infatti, si finisce col recidere dalla nostra attenzione, in forma indebita, un aspetto determinante dell’essenza di Beatrice, che invece include, come possibilità di manifestazione della propria luce («sì che t’abbaglia il lume del mio detto»: s’è ora visto in Purg. XXXII, 75), i tratti della Pietra. Ciò non sta a significare che Dante sovrapponga le due donne, ma certo non significa nemmeno che le ponga, come troppo spesso accade ed è accaduto ai dantisti, in reciproco ed insanabile conflitto. Nel XXX del Purgatorio Beatrice è (appare come) «ammiraglio». Soprattutto, come la Pietra, ella è tal segno luminosa che Dante può reggerne il fulgore solo a stento, tanto è vero che la donna è (si presenta come) luce velata (Purg. XXX, 27- 39), con quelle «fronde di Minerva» che non la lasciano (ciò che sarebbe fatale per il poeta) «parer manifesta». Eppure, benché velata, la luce di Beatrice colpisce Dante («ne la vista mi percosse», v. 40), sino alla fine del Purgatorio: «con li occhi li occhi mi percosse» (XXX, 18, che a Baldelli –1992: 174 ss.– ricordavano Così nel mio parlar, vv. 35-37: «E’ m’ha percosso in terra e stammi sopra / con quella spada ond’elli ancise Dido / Amore, a cui io grido»). Va da sé che non dobbiamo dimenticare che freddezza, durezza e passione convivono nelle ‘petrose’ come pure nell’Eden, a tal segno che il «tono linguistico-stilistico» del ciclo per la Pietra non si ravvisa soltanto nelle accuse di Beatrice, ma nella medesima «intensità», da parte di Dante, «dell’amore» per lei nutrito . In Inf. II e in Purg. XXX, è bene ripeterlo, la salvezza del poeta sta nella conversione ad una donna che, nello stesso tempo, si converte a lui. Nelle ‘petrose’, invece, la tragedia di Dante sta nella perdurante, insanabile durezza della donna-Medusa verso di lui, che gli fa sorgere pensieri d’ira, di collera, di vendetta verso la durezza della stessa Pietra (la medesima «ira», vedremo tra poco, è uno dei tratti necessari per superare l’ostacolo, in apparenza insormontabile, della Gorgone in Inf. VIII-IX). La luce di Beatrice è pertanto indissociabile dalla sua durezza e dal gelo, del pari, che domina Dante (Purg. XXX, 67-75):
Tutto che ’l vel che le scendea di testa,
cerchiato de le fronde di Minerva,
non la lasciasse parer manifesta,
regalmente ne l’atto ancor proterva
continuò come colui che dice
e ’l più caldo parlar dietro reserva:
«Guardaci ben! Ben son, ben son Beatrice.
Come degnasti d’accedere al monte?
Non sapei tu che qui è l’uom felice?».
Il rimprovero che Dante subisce non può non ricordare quello di Inf. VIII, 82-96:
Io vidi più di mille in su le porte
da ciel piovuti, che stizzosamente
dicean: «Chi è costui che sanza morte
va per lo regno de la morta gente?».
E ’l savio mio maestro fece segno
di voler lor parlar segretamente.
Allor chiusero un poco il gran disdegno
e disser: «Vien tu solo, e quei sen vada
che sì ardito intrò per questo regno.
Sol si ritorni per la folle strada:
pruovi se sa; ché tu qui rimmarai,
che li ha’ iscorta sì buia contrada».
Pensa, lettor, se io mi sconfortai
nel suon de le parole maledette,
ché non credetti ritornarci mai.
Gli occhi di Dante, nell’incontro a lungo atteso per «decenne sete», non possono sostenere lo sguardo di Beatrice, che, verso il poeta, come «la madre al figlio par superba» (v. 79). Regale nella propria alterigia, Beatrice si fa silenziosa, mentre il canto degli angeli che intonano In te, Domine, speravi scioglie il gelo che serra l’animo di Dante (vv. 85-99):
Sì come neve tra le vive travi
per lo dosso d’Italia si congela,
soffiata e stretta da li venti schiavi,
poi, liquefatta, in sé stessa trapela,
pur che la terra che perde ombra spiri,
sì che par foco fonder la candela;
così fui sanza lagrime e sospiri
anzi ’l cantar di quei che notan sempre
dietro a le note de li etterni giri;
ma poi che ’ntesi ne le dolci tempre
lor compartire a me, par che se detto
avesser: ‘Donna, perché sì lo stempre?’,
lo gel che m’era intorno al cor ristretto,
spirito e acqua fessi, e con angoscia
de la bocca e de li occhi uscì del petto.
Sin d’ora è bene ricordare che già in Inf. II, 94-108 Beatrice era stata rimproverata da Maria, che aveva a sua volta incaricato Lucia, «nimica di ciascun crudele», di scuotere il colpevole torpore della figlia di Folco Portinari: la gravità della condizione di Dante, la durezza di cuore di Beatrice e la sua inerzia nell’intervenire a favore del suo «amico» avevano sucitato pietà nel cielo, e questa compassione aveva infranto un «duro giudicio» di Dio, ma non però ancora il cuore, la sordità e cecità di Beatrice alla disperazione del poeta (vv. 106-107). Nel Purgatorio, invece, dopo le scene e le parole del protratto rimprovero di Beatrice a Dante, arriviamo al nodo centrale del canto XXXII. Ora soltanto, infatti, ci viene data la possibilità di comprendere la natura dello sguardo di Dante, il suo pericolo rispetto alla propria condizione di poeta penitente e, insieme, rispetto alla natura della donna. Il principio del canto inscena una situazione nella quale gli occhi di Dante non sono ancora adatti a contemplare senza veli l’immagine di Beatrice. Non va del resto scordato che la crescente potenza e resistenza dello sguardo del Viandante, apertis oculis, a fissare la Verità verrà sancita unicamente alla fine del viaggio in Par. XXXIII, 97-99:
Così la mente mia, tutta sospesa,
mirava fissa, immobile e attenta,
e sempre di mirar faciesi accesa.
La fascinazione del rispecchiamento nella Verità è tale che, nel definitivo superamento del mito di Narciso , l’occhio non può né deve volgersi dal proprio oggetto (Par. XXXIII 100-105):
A quella luce cotal si diventa,
che volgersi da lei per altro aspetto
è impossibil che mai si consenta;
però che ’l ben, ch’è del volere obietto,
tutto s’accoglie in lei, e fuor di quella
è defettivo ciò che lì e perfetto.
Più Dante sale, quindi, più puro è il suo sguardo. Gli accade al fine ciò che avviene nell’Eden al Grifone, che si rispecchia nel verde smeraldo degli occhi di Beatrice (Par. XXXIII, 112-114):
ma per la vista che s’avvalorava
in me guardando, una sola parvenza,
mutandom’io, a me si travagliava.
Al fine, come dinanzi a Beatrice sulla vetta del Purgatorio, il poeta non può che riconoscere la propria inadeguatezza al cospetto del «fulgore» divino (Par. XXXIII, 139-141):
ma non eran da ciò le proprie penne:
se non che la mente mia fu percossa
da un fulgore in che sua voglia venne.
Dalle ‘petrose’ all’Eden all’ultimo canto del poema colui che guarda si tramuta in ciò che è guardato, ne assume per metamorfosi (non se ne scorderà Petrarca) la natura particolare, ne è percosso.
Con queste brevi considerazioni è forse dato cogliere più esattamente l’esordio di Purg. XXXII, che consente di porre, ed anzi induce a collocare in vicendevole rapporto, il «lume» di Beatrice con lo sguardo pietrificante di Medusa. Come ha osservato Freccero:
quale che sia la qualità del terrore che la Medusa ispira all’immaginario maschile si tratta comunque, in qualche modo, di un terrore femminile. Secondo la leggenda, la Medusa era innocua per le donne, giacché era proprio la sua bellezza femminile a costituire una minaccia mortale per chi la guardava. Dall’antico Physiologus ai mitografi, a Boccaccio, la Medusa ispira una fascinazione sensuale, una pulchritudo così eccessiva da trasformare gli uomini in pietra (Freccero 1989: 182).
Si cade nella fascinazione di Medusa quando la bellezza delle forme e delle cose terrene, della vita stessa, viene guardata fissamente, con ostinazione, senza levare gli occhi a quella più alta Bellezza che, col ristabilire la gerarchia, l’ordo, tra le res temporales e Dio, impedisce del pari all’uomo di rimanere irretito nelle gioie della terra (Purg. XXXI, 43-60) :
Tuttavia, perché mo vergogna porte
del tuo errore, e perché altra volta,
udendo le sirene, sie più forte,
pon giù ’l seme del piangere e ascolta:
sì udirai come in contraria parte
mover divieti mia carne sepolta.
Mai non t’appresentò natura o arte
piacer, quanto le belle membra in ch’io
rinchiusa fui, e che so’ ’n terra sparte;
e se ’l sommo piacer sì ti fallio
per la mia morte, qual cosa mortale
dovea poi trarre te nel suo disio?
Ben ti dovevi, per lo primo strale
de le cose fallaci, levar suso
di retro a me che non era più tale.
Non ti dovea gravar le penne in giuso,
ad aspettar più colpo, o pargoletta
o altra novità con sì breve uso.
Lasciamo ora da parte il problema dell’identità della «pargoletta», dal momento che non ci è dato sapere, ad litteram, se ella sia o non sia la medesima delle ‘petrose’ e di altre rime note, sulle quali tra poco ci fermeremo. Quel che sappiamo è invece che Dante, dopo la morte di Beatrice, si è smarrito, che ha goduto la bellezza di «cose fallaci» e che ha dimenticato di «levar suso» a Dio il suo sguardo e il suo cammino. Arte e natura non gli offrivano nulla di paragonabile a Beatrice, ma egli si è lasciato sviare da un «piacer», da una «oblectatio rerum temporalium», che lo ha sedotto e traviato .
Un tale «errore» discende perciò dallo ‘sguardo’ che Dante ha recato alle bellezze terrene. Stava in suo potere, nel potere della sua libertà, decidere se seguire Beatrice dopo la sua morte o fermarsi alle «presenti cose / col falso lor piacer» (Purg. XXXI, 34-35). Dante non ha perciò soltanto ceduto al «breve uso» delle bellezze e, più ampiamente, dei temporalia, ma non ha saputo vedere e cogliere il vero significato (ciò ch’è più grave, post mortem) di Beatrice, che, come a suo tempo la Pietra, lo rimprovera e ignora, lo disdegna e “colpisce”.
Al principio del canto XXXII tutto invece si fa più chiaro: Beatrice è, Beatrice può essere, a seconda della natura dello sguardo di Dante, Medusa (vv. 1-12).
Tant’eran li occhi miei fissi e attenti
a disbramarsi la decenne sete,
che li altri sensi m’eran tutti spenti;
ed essi quinci e quindi avean parete
di non caler – così lo santo riso
a sé traéli con l’antica rete! –;
quando per forza mi fu vòlto il viso
ver la sinistra mia da quelle dee,
perch’io udi’ da loro un «Troppo fiso!»;
e la disposizion ch’a veder èe
ne li occhi pur testé dal sol percossi
sanza la vista alquanto esser mi fée.
Gli occhi «fissi e attenti» di Dante (come «fissa, immobile e attenta» sarà la «mente» del Viandante in Par. XXXIII, 97), poi “percossi” come più volte s’è veduto, sono qui distolti «per forza» da Beatrice, da Beatrice che è la Sapienza divina, dalle «dee», che sono le medesime tre virtù teologali che, sul finire del canto precedente, avevano esortato Beatrice, fissata dal Grifone, a tenere gli occhi fissi su Dante (Purg. XXXI, 133-138):
«Volgi, Beatrice, volgi li occhi santi»,
era la sua canzone, «al tuo fedele
che, per vederti, ha mossi passi tanti!
Per grazia fa noi grazia che disvele
a lui la bocca tua, sì che discerna
la seconda bellezza che tu cele».
Beatrice, «ne l’aere aperto», si scioglie quindi del velo che la copriva (Purg. XXXI 145). Sicché, il rischio di accecamento di Dante espresso al principio di Purg. XXXII è conseguenza del manifestarsi pieno, non più schermato, della bellezza della donna-Sapienza. Il punto è assai delicato: le virtù teologali non vogliono che Dante guardi «fiso» la Sapienza di Dio (la Grazia, la Teologia), che ha guidato Dante sino a quel punto. Gli occhi del poeta, colpiti da tanta luce, potrebbero smarrirsi. La situazione, come il lettore ricorda, è congenere a quella di Inf. IX, 43-57:
E quei, che ben conobbe le meschine
de la regina de l’etterno pianto,
«Guarda», mi disse, «le feroci Erine.
Quest’è Megera dal sinistro canto;
quella che piange dal destro è Aletto;
Tesifón è nel mezzo»; e tacque a tanto.
Con l’unghie si fendea ciascuna il petto;
battiensi a palme e gridavan sì alto,
ch’i’ mi strinsi al poeta per sospetto.
«Vegna Medusa: sì ’l farem di smalto»,
dicevan tutte riguardando in giuso;
«mal non vengiammo in Teseo l’assalto».
«Volgiti ’n dietro e tien lo viso chiuso;
ché se ’l Gorgón si mostra e tu ’l vedessi,
nulla sarebbe di tornar mai suso».
È questo il punto forse più oscuro di tutto il poema, dove Dante stesso evoca, e anzi addita, «la dottrina che s’asconde / sotto ’l velame de li versi strani» (Inf. IX, 62-63). Il fascino enigmatico di questi versi ha dato appiglio a numerose, non sempre avvedute, talora mistificanti, letture. Per nostra parte, non ci proponiamo altro se non rimanere aderenti alla lettera. Le tre Erinni stanno a Medusa come le tre dee, le virtù teologali, stanno a Beatrice. Nell’Eden, svanito ormai Virgilio e in attesa che Beatrice si faccia guida di Dante, sono quindi le stesse virtù a impedire a Dante di guardar «fiso» la Donna.
Si può forse comprendere meglio il carattere di un passo celebre di Così nel mio parlar vogli’esser aspro, vv. 74-78:
Ancor negli occhi, ond’escon le faville
che m’infiamman lo cor ch’io porto inciso,
guarderei presso e fiso
per vendicar lo fuggir che mi face,
e poi le renderei, con amor, pace.
La donna, in questa canzone, è una «bella pietra» (v. 2) e Dante spera, mirandola «presso e fiso», di convertirla a sé, di instillarle Amore in cuore e di muoverle pietà della propria condizione. Non solo il «caldo borro» che ha tratti infernali e, più ampiamente, la robustezza e icasticità e plasticità dello stile di questa ‘petrosa’ ricordano la Commedia, ma l’impeto di Dante, la sua collera, paiono, in Così nel mio parlar, non dissimili dal clima di rissa di Inf. VIII-IX (nella «città dolente», si sa, non si può «entrare omai sanz’ira»: Inf. IX, 33). Perfino il v. 73 della canzone, «io mi vendicherei di più di mille», si allaccia al medesimo sintagma riaffiorante, per ben due volte, nel dittico di canti che introduce al cerchio degli eretici, in Inf. VIII, 82-83: «Io vidi più di mille in su le porte / da ciel piovuti…», e in Inf. IX, 79-80: «vid’io più di mille anime distrutte / fuggir così dinanzi ad un ch’al passo / passava Stige con le piante asciutte». (Demoni o «anime distrutte» che siano, questi enti plurimi e malvagi accompagnano la manifestazione della “petrosità”, insomma il processo di pietrificazione, e vengono fugati dal superamento del male procurato da Medusa). Le «feroci Erine» (v. 45) emettono, dal canto loro, grida così alte da spaventare il poeta («battiensi a palme e gridavan sì alto, / ch’i’ mi strinsi al poeta con sospetto»: vv. 50-51), in modo, o con esito non difforme da quello registrato dalla canzone (Così nel mio parlar, vv. 44-47):
Allor mi surgon nella mente strida,
e ’l sangue ch’è per le vene disperso
correndo fugge verso
il cuor, che ’l chiama, ond’io rimango bianco.
Il pallore del v. 47 è il medesimo, anche nel procedimento fisiologico, di Inf. IX, 1, dove ci imbattiamo nel «color che viltà di fuor mi pinse». Quale che sia l’identità della Pietra, la canzone inscena un Dante alle prese con una donna-Medusa i cui tratti perigliosi saranno evocati nell’Eden nella figura di Beatrice guardata fissamente, eccessivamente, dall’amante. S’intende che ci troviamo ora ben oltre la topica amorosa dello sguardo suscitatore d’amore. Con Beatrice-Sapienza, con Beatrice-Grazia, che può redarguire, rimproverare, condannare l’amante indegno, con la Teologia che, guardata colpevolmente da vicino può rendere «marmo» l’amante-poeta, ci muoviamo in un terreno che coincide con le ragioni profonde del poema e con la sua allegoria principale (Fenzi 2002b).
Eppure, Beatrice fu anche, quando in passato aveva mostrato freddezza e crudeltà verso Dante (si rammenti la glaciale noncuranza del «gabbo»), insomma quando questi la concepì o servì o amò in modo errato, o quando ella si mostrò estranea o indifferente al suo amore, una Medusa, una Pietra, capace di rendere Dante un «uom di marmo». Sin dalla Vita nuova, anzi dal percorso poetico-speculativo che condurrà alla Commedia a cominciare da Donne ch’avete intelletto d’amore, Dante era consapevole del bivio dinanzi al quale lo poneva lo sguardo portato alla realtà salvifica di Beatrice (così in Donne ch’avete, vv. 31-36):
Dico, qual vuol gentil donna parere
vada con lei, che quando va per via,
gitta nei cor villani amore un gelo,
per che onne lor pensiero agghiaccia e pere;
e qual soffrisse di starla a vedere
diverria nobil cosa, o si morria.
Questo è ciò che accade dinanzi alla Sapienza, alla creatura che ne incarna la verità e ne testimonia la presenza. Guardata da vicino, ella «agghiaccia» e non consente che la morte o la vita, l’annientamento dei «cor villani» o il «trasumanarsi» in «nobil cosa».
A chiarire ulteriormente questi fatti interviene il dittico di rime conosciute come quelle della «pargoletta». A tal proposito, comunque si voglia intendere il vocabolo «pargoletta» di Purg. XXXI, 59, è certo che esso alluda a una deviazione da Beatrice. Il contesto del rimprovero lascia pensare a qualcosa di bello, di dilettevole, ma di effimero, come «altra novità con sì breve uso» (Purg. XXXI, 60): nulla perciò che abbia a che vedere con la «pargoletta» di Rime 22 e 24, la quale ha, propriamente, le caratteristiche di Beatrice-Medusa. Ecco il testo di Rime 22:
«I’ mi son pargoletta bella e nova,
e son venuta per mostrare altrui
de le bellezze del loco ond’io fui.
Io fui del cielo e tornerovi ancora
per dar de la luce mia altrui diletto;
e chi mi vede e non se ne innamora
d’Amor non averà mai intelletto,
ché non gli fu in piacere alcun disdetto
quando Natura mi chiese a Colui
che volle, donne, accompagnarmi a voi.
Ciascuna stella negli occhi mi piove
del lume suo e de la sua vertute;
le mie bellezze sono al mondo nove
però che di lassù mi son venute,
le qual’ non possono esser conosciute
se non da conoscenza d’omo in cui
Amor si metta per piacer di lui».
Queste parole si leggon nel viso
d’un’angioletta che ci è apparita;
e io che per veder lei mirai fiso
ne sono a rischio di perder la vita,
però ch’io ricevetti tal ferita
da un ch’io vidi dentro agli occhi suoi,
ch’io vo piangendo e non m’acchetai poi.
Di fronte alla «pargoletta» Dante sperimenta il rischio, che già conosciamo, di mirarla «fiso». Nella prima parte, essa si presenta come creatura celeste, che proviene dal cielo: «I’ mi son pargoletta bella e nova, / e son venuta per mostrare altrui / de le bellezze del loco ond’io fui» (vv. 1- 3), che parrebbe riaffiorare in Inf. II, 70-72: «I’ son Beatrice che ti faccio andare; / vegno del loco ove tornar disio; / amor mi mosse, che mi fa parlare». Nel desiderio di Beatrice di ritornare al cielo («ove tornar disio») echeggia inoltre il verso «Io fui del cielo e tornerovi ancora» (v. 4), al modo stesso che l’autopresentazione («I’ son Beatrice») si rispecchia, a ritroso, in «Io fui del cielo» e, in apertura di Rime, 22, in «I’ mi son pargoletta». Quest’ultima, poi, è consapevole di poter suscitare «d’Amor… intelletto», si rivolge alle donne amiche sue, in una coralità che è distintiva di Donne ch’avete intelletto d’amore e della seconda parte della Vita nuova. La «pargoletta» (che si tratti di un caso di Beatrix loquax mi pare l’ipotesi più economica) possiede quindi, come Beatrice e la Pietra, il potere di annientare l’amante: diretta conseguenza – si osservi – della sua discendenza celeste. Più manifesto ancora è il carattere litico della «pargoletta» in Rime 24, dove Beatrice, la «angioletta» e la Pietra-Medusa si sovrappongono con chiarezza: al centro di tutto, il rischio dello sguardo del poeta portato alla creatura celeste e il destino stesso di Dante, decretato sin dalla morte di Cristo (quando Caifas, qui ripreso ai vv. 10-11, decise: «expedit vobis ut unus moriatur homo propopulo, et non tota gens pereat», secondo Io. XI 50) , e così espresso ai vv. 1-8:
Chi guarderà giammai senza paura
negli occhi d’esta bella pargoletta,
che m’hanno concio sì, che non s’aspetta
per me se non la morte, che ·mm’è dura.
Vedete quant’è forte mia ventura,
che fu tra l’altre la mia vita eletta
per dar essempro altrui ch’uom non si metta
i· rischio di mirar la sua figura
Qui, mi pare, si tocca un punto delicato. Non solo la donna-«pargoletta» (Beatrice) è pietra (in quanto Medusa), ma lo scopo della vita di Dante è posto nel «dar essempro altrui» di non farsi, appunto, pietrificare: Dante, in altre parole, testimonia quanto si debba aver «paura» di guardare «fiso», se indegni, la «pargoletta». Egli si rappresenta vittima di quello sguardo, ne porta il vessillo di morte («finita»), ed è persuaso che Cristo abbia desiderato la sua morte, affinché questa potesse rivestire un significato esemplare. Dante ha quindi attratto a sé la morte, come fa una pietra preziosa («margherita») con la virtù degli astri (vv. 9-14):
Destinata mi fu questa finita
da ch’un uom convenia esser disfatto
perch’altri fosse di pericol tratto;
e però, lasso!, fu’io così ratto
in trarre ame il contrario de la vita
come vertù di stella margherita.
La ricomposizione di un polittico di figure femminili in una medesima area semantica, intrinseca alla figura di Beatrice, non può che indurre a un profondo ripensamento della Pietra .
Nelle rime ad essa dedicate troviamo rappresentata non tanto una donna che è, che può essere e che talora diviene, una «pietra», ma una «pietra» che «parla e sente come fosse donna» (Al poco giorno, v. 6). La giovane (una «nova donna», al v. 7, come la «pargoletta»), è dura e gelida. Per Domenico De Robertis, è evidente la «sua non riassorbibilità nella storia proposta da Dante», come pure il fatto che essa rappresenta uno «scoglio» alla «scadenza dell’incontro con Beatrice nel Paradiso terrestre» (De Robertis 2005: 105). Ne siamo certi? In verità, abbiamo visto che un tale scoglio, nell’Eden, è la asperitas della manifestazione di Beatrice, è la sua agghiacciante petrosità (che appartiene in particolare alla donna morta che, dopo morta, è dimenticata o male amata da Dante) tramata di stile petroso e tale da presentarsi al cospetto di un Dante a sua volta litico, perché indegno di «mirar fiso» negli «occhi santi» della donna. La petro sità (a prescindere dall’identità della Pietra) è quindi una possibilità della manifestazione post mortem di Beatrice, che, come s’è veduto, viene rappresentata, nell’Eden, coi tratti della Medusa (in linea con la crudeltà della fanciulla ancor viva, ma indifferente al poeta).
Con queste premesse, una volta accertato il filone della reciprocità di sguardi che unisce la Pietra a Dante e Beatrice-Medusa a Dante, si può sostare sulle altre ‘petrose’ per coglierne, in aderenza strenua al senso letterale, alcuni aspetti essenziali per il discorso che stiamo svolgendo. Cominciamo da Al poco giorno e al gran cerchio d’ombra, che rappresenta, sin dal principio, una situazione estrema: la «nova donna», che ha tratti non umani («parla e sente come fosse donna»), indifferente al contesto di una eterna primavera («si sta gelata come neve all’ombra», v. 8), è radicata in se stessa e irremovibile («non la move se non come pietra / il dolce tempo che riscalda i colli», vv. 9-10), come l’amore di Dante, che è radicato in lei («si è barbato nella dura pietra», v. 5) e che non perde speranza, nonostante la glaciale natura della donna («e ’l mio desio però non cangia il verde», v. 4). Quando si manifesta incoronata d’erba, ella è di tale bellezza che fuga il pensiero d’ogni altro amore («Quand’ella ha in testa una ghirlanda d’erba / trae della mente nostra ogni altra donna», vv. 13-14; in Purg. XXX, 67-68, il «vel che le scendea di testa» sarà «cerchiato de le fronde di Minerva»; in Purg. XXXI, in modo del tutto coerente, sarà la stessa Beatrice a invocare l’aut-aut fra se stessa e ogni altra «cosa mortale»: XXXI, 52-54). La Pietra, si badi bene, non è effigiata nelle rime in termini riduttivi, ma inaccessibili rispetto al poeta che la esprime. Nella sua natura luminosa e pietrificante ella ha il solo, drammatico limite di non avere pietà. Nulla del mondo vegetale, inoltre, può sanare il «colpo», non la «ferita» (questa è in Rime 22, 22) che ne viene: «La sua bellezza ha più virtù che pietra, / e ’l colpo suo non può sanar per erba» (vv. 19-20; da raccordare, come fa pure Benozzo in questo volume, ad Amor, tu vedi ben, vv. 15-18 e Così nel mio parlar, vv. 51-52). La Pietra è, in aggiunta, ed è questo un tratto teologico che la accomuna alla «pargoletta», fonte di luce non naturale, o, comunque sia, altra rispetto al mondo naturale («e dal suo lume non mi può far ombra / poggio né muro mai né fronda verde», vv. 23-24). Se ciò accade, se nessun elemento naturale può velare la luce della Pietra, ciò accade perché la Pietra, che diffonde luce propria, è ormai in Dante (pietrificato), ed egli, movendosi, trae con sé la luce della donna. La quale, a Dante, come Beatrice nell’Eden «sotto verde manto» (Purg. XXX, 32), appare del color dell’erba:
Io l’ho veduta già vestita a verde
sì fatta, ch’ella avrebbe messo in pietra
l’amor ch’io porto pur alla sua ombra;
ond’io l’ho chiesta in un bel prato d’era
innamorata com’anche fu donna,
e chiuso intorno d’altissimi colli.
Una tale scena è sovrapponibile a quella dell’Eden, come pure, alla donna del Paradiso terrestre e al suo glaciale splendore, protervo e superbo, non contraddice affatto la figura muliebre di Amor, tu vedi ben, che, avvezza a dominare le altre donne, non si cura di Amore «in alcun tempo» (vv. 1-3), tanto che «non par ch’ell’abbia cuor di donna / ma di qual fiera l’ha d’amor più freddo» (vv. 7-8). Tanto è dura, la Pietra, che pare una statua, una «bella pietra» scolpita da un Pigmalione («per man di quei che ne’ ’ntagliasse in pietra»: un Deus artifex?). Dante, dal canto suo, è vittima del processo di pietrificazione della Medusa (vv. 13-18):
Ed io, che son costante più che pietra
in ubbidirti per beltà di donna,
porto nascoso il colpo della pietra
con la qual tu mi desti come a pietra
che t’avesse noiato lungo tempo,
tal che m’andò al cuore, ov’io son pietra.
Al cospetto della Pietra, come dinanzi a Medusa in Inferno e a Beatrice in Purgatorio, dove il poeta ricorda «lo gel che m’era intorno al cor distretto» (Purg. XXX, 97), Dante si fa pallido e si sente ghiacciare il sangue (vv. 31-36):
così dinanzi dal sembiante freddo
mi ghiaccia sopra il sangue d’ogni tempo,
e quel pensiero che m’accorcia il tempo
mi si converte tutto in corpo freddo
che m’esce poi per mezzo della luce
là onde entrò la dispietata luce.
La Pietra è quindi luce, anzi sorgente di luce che suscita gelo, che impietra, e che può essere ed è, a un tempo, «dispietata» e «dolce». Crudeltà e bellezza sono pertanto manifestazioni, epifanie, della luce. La sola imperfezione della Pietra è la sua mancanza d’Amore, di pietas (che, dalla Vita nuova a Inf. II a Purg. XXX, è pure – va detto – un tratto distintivo, superato con l’aiuto della «corte del cielo», di Beatrice). Come già s’è visto, la Pietra infonde luce in Dante ed egli non può schermirsene, anzi la riverbera ovunque si conduca (vv. 37-42):
In lei s’accoglie d’ogni beltà luce:
così di tutta crudeltate il freddo
li corre al cuore ove non va tua luce;
per che negli occhi sì bella mi luce
quando la miro, ch’io la veggo in pietra
o in ogn’altro ov’io volga la luce.
Dante, pur pietrificato, non pare afflitto ma spronato a intendere, a capire la Pietra. L’auspicio è quello di Così nel mio parlar, non tanto, o non solo, dei vv. 66-71:
S’io avesse le belle trecce prese,
che son fatte per me scudiscio e sferza,
pigliandole anzi terza
con esse passerei vespero e squille;
e non sarei pietoso né cortese,
anzi farei com’orso quando scherza;
quanto del desiderio finale, dove (repetita iuvant) il poeta spera di guardarla negli occhi per destare in lei quell’amore che solo manca alla perfezione luminosa, ma algida, della Pietra (vv. 76-78):
guarderei presso e fiso
per vendicar lo fuggir che mi face,
e poi le renderei, con amor, pace.
Ecco la parallela speranza di Amor, tu vedi ben, vv. 45-47:
così foss’ella più pietosa donna
ver’me, che chiamo di notte e di luce,
solo per lei servire, e luogo e tempo.
Dante desiderava insomma che Amore entrasse nella Pietra per convertirla a lui. Confesso di non capire come una tale donna, identificata con la freddezza della luce, possa da molti lettori esser stata giudicata l’oggetto di un amore degradante e conflittuale con quello nutrito per una Beatrice, come aveva compreso bene Borges, fredda e crudele e spietata:
Così fu per Dante. Rifiutato per sempre da Beatrice, sognò Beatrice, ma la sognò severissima, ma la sognò inaccessibile, ma la sognò su di un carro tirato da un leone che era un uccello e che era soltanto uccello o soltanto leone quando gli occhi di Beatrice lo riflettevano […]. Beatrice esistette infinitamente per Dante. Dante, molto poco, forse niente, per Beatrice; tutti noi siamo propensi, per pietà, per venerazione, a dimenticare questo penoso contrasto, indimenticabile per Dante. Leggo e rileggo le traversie del suo illusorio incontro e penso a due amanti che l’Alighieri sognò nella bufera del secondo cerchio e che sono emblemi oscuri, anche se egli non lo comprese o non lo volle, di quella felicità che non ottenne. Penso a Francesca e a Paolo, uniti per sempre nel loro Inferno («Questi, che mai da me non fia diviso»). Con un amore spaventoso, con angoscia, con ammirazione, con invidia, deve aver forgiato questo verso (Borges 2001: 94-96).
Ciò è tanto vero che, prima di sostare sui versi che seguono (una preghiera del Dante di pietra, destinata a trasformare il cuore della Pietra) , vorrei riportare l’annotazione di Domenico De Robertis, che, pur consapevole di quanto segue, è persuaso della aversio che la Pietra rappresenterebbe rispetto a Beatrice:
Qui Amore è potenza suprema, esistenza ab eterno, “prima del tempo” e della formazione del mondo, e dietro queste parole par trasparire, in termini assoluti (“tempo”, “moto”, “luce”), quanto di sé dice la Sapienza, Prov. VIII 23-29: «Ab eterno ordinata sum, et ex antiquis antequam terra fieret… Quando praeparabat celos, aderam; quando certa lege vallabat abyssos; quando aethera firmabat sursum… Quando circumdabat mari terminum…» ecc. E questa concezione, che è della canzone cit., di Amore come principio di tutto e tutto pervadente, ritrasparirà nel congedo della canzone seguente [Io son venuto al punto de la rota]. (De Robertis 2005: 117)
Insomma Dante, «volgendosi alla donna-pietra», non si era certo «dimenticato di tutto il resto» (Ibidem). L’Amore ora invocato è, con ogni evidenza, quello che «move il sole e l’altre stelle» (Par. XXXIII 145), ed è, appunto, l’amore per la Pietra, non vedo in qual modo ostile o alternativo al culto per Beatrice professato nella Commedia, specie se ricordiamo che un tale sentimento è il medesimo «amor divino» che, al principio del poema, «mosse di prima quelle cose belle» (Inf. I, 39-40). Leggiamo allora Amor, tu vedi ben, vv. 48-54:
Né per altro disio viver gran tempo.
Però, Vertù che·ssè prima che tempo,
prima che moto o che sensibil luce,
increscati di me, c’ho sì mal tempo,
entrale in cuore omai, che ben n’è tempo,
sì che per te se n’esca fuori il freddo
che non mi lascia aver, com’altri, tempo:
una simile preghiera non contrasta con la Commedia, al modo stesso che la donna che la suscita (sia o non sia, anagraficamente, Beatrice), di Beatrice nondimeno possiede i caratteri, le fattezze, il gelo (sarà Beatrice, in quanto somma d’ogni desiderio, ad aver assorbito via via in sé i lineamenti di tutte le donne precedenti, se non altro di quelle che non contrastarono con la sua natura o che condussero Dante a meglio comprenderla).
Va inoltre osservato che il poeta di Amor, tu vedi ben, il quale, per destare Amore nella Pietra scrive siffatti versi, si presenta nella condizione di colui che crede al giudizio finale di Dio, e che è persuaso che solamente in quel giorno si comprenderà la realtà vera della Pietra (che non è punto in conflitto con Dio, ma, di Dio, non possiede l’Amore, non possiede la pietà). Dante immagina infine che il sopraggiungere della primavera, quando si dispiega la potenza d’Amore, lo condurrà a morte (Amor, tu vedi ben, vv. 55-60):
che se mi giunge lo tuo forte tempo
in tale stato, questa gentil pietra
mi vedrà coricare in poca pietra
per non levarmi se non dopo ’l tempo,
quando vedrò se mai fu bella donna
nel mondo come questa acerba donna.
Vero è che il Dante petroso di questa canzone (non servo d’altre passioni, né lontano da Dio) si presenta come il solo testimone dell’Amore universale (per Durling e Martinez, «the cooperation of the whole of creation in the destiny of a single individual» è il tratto identificativo delle petrose e della Commedia) (Durling-Martinez 1990: 199) ed è capace, lui pietra, di forgiare, per la Pietra, una canzone di inaudita novità ed eccellenza formale («novum aliquid atque intentatum») (Durling-Martinez 1990: 261 ss.), capace di lasciar trasparire, lavorata anch’essa come pietra preziosa, una luce nuova (vv. 61-66):
Canzone, io porto nella mente donna
tal che con tutto ch’ella mi sia pietra
mi dà baldanza, ond’ogn’uom mi par freddo;
sì ch’io ardisco far per questo freddo
la novità che per tua forma luce,
che non fu mai pensata in alcun tempo.
Tali aspetti, potenziati in uno stile di alta maturità, ritornano in Io son venuto al punto de la rota, che, negli studi dedicati alle ‘petrose’, è additata come quella dove tante e significative sono le giunture che conducono al poema : a tal segno che non sono mancate proposte di datazione diverse da quella tradizionalmente collocata al 1296. Per la Maffia Scariati, in particolare, si potrebbe giungere al 1304.
Prima di concludere vorrei accogliere un’osservazione di Freccero, che notava la ripresa, in Inf. IX, 49-54 (un passo che abbiamo più sopra riportato) di Io son venuto, vv. 53-60, per il riaffiorare nella Commedia (con sequenza alto-smalto-assalto) della canzone petrosa (dove le medesime parole compaiono nella sequenza, invece, alto-assalto-smalto) (Freccero 1989: 187). Così suggerita, l’analogia fra i due testi è evidente ma, a me pare, ancora epidermica. Ciò che conta nella canzone, dove ripetuti sono i luoghi accolti poi nel poema, è, di nuovo, l’isolamento cosmico di Dante, che è ormai il solo testimone e custode di un Amore assente dalla natura come pure dalla Pietra («amore è solo in me non altrove», v. 70). E in particolare conta, nella canzone, la volontà di Dante, al v. 62 (ripreso in Inf. II, 4-5), di proseguire il proprio cammino, anzi la propria «guerra», nella consapevolezza che quello sia il destino che lo attende (Io son venuto, vv. 53-65). Come accadrà nell’Inferno, Dante non recederà dal proprio viaggio: «non son però tornato un passo a dietro, / né vo’ tornar, che se ’l martiro è dolce, / la morte dee passare ogn’altro dolce». Nella Commedia sarà Virgilio a testimoniare la sicurezza del cammino (Inf. VIII, 103-108):
E quel segnor che lì m’avea menato,
mi disse: «Non temer; ché ’l nostro passo
non ci può torre alcun: da tal n’è dato.
Ma qui m’attendi, e lo spirito lasso
Conforta e ciba di speranza buona,
ch’i’ non ti lascerò nel mondo basso».
Alle affinità osservate dalla critica fra le ‘petrose’ e la Commedia occorre tuttavia aggiungere, da questa a quelle, la più clamorosa differenza: nel poema, la donna è colei che muove, a sua volta mossa dal cielo, il poeta Virgilio, affinché questi conduca Dante a sé, ovvero alla Sapienza ritrovata sulla cima del Purgatorio. Ma una tale diversità fra la conclusiva pietà di Beatrice e l’immutata freddezza della Pietra presuppone, a sua volta, il punto di maggior e più netta sovrapposizione tra le due figure: la crudeltà e freddezza e indifferenza di Beatrice, testimoniata in vario modo dalla Vita nuova alla Commedia. Siamo così avvezzi, per riprendere ancora Borges, alla Beatrice del poema e alla sua icona teologizzata nella Vita nuova; abbiamo tanta e tale ammirazione per la sua immagine e tanta venerazione per il poeta che l’ha effigiata in quel modo, che dimentichiamo di Beatrice
la sostanziale, originaria, disinvolta, non di rado compiaciuta, ostile noncuranza nei confronti del poeta. La salvezza di Dante comincia allora, ben prima che con la propria conversione, con quella di Beatrice: il poema rende infatti pietosa, addirittura innamorata e loquace («amor mi mosse, che mi fa parlare»: Inf. II, 72, dove non casualmente si prefigura Purg. XXIV, 52-54) colei che definisce se stessa (è, questo, un punctum realiter saliens) attraverso l’assenza di pietà: «I’ son fatta da Dio, sua mercé, tale, / che la vostra miseria non mi tange, / né fiamma d’esto incendio non m’assale» (Inf. II, 91-93). Ma non fu questa forse, nella sua profonda natura, la Pietra? Che altro fu la Pietra se non luce raggelante e impietosa? Beatrice, nella sincerità assoluta dell’oltremondo, racconta allora (perché Virgilio desiderava conoscere le sue ragioni «cotanto a dentro»), la propria conversione (Inf. II, 94-114):
Donna è gentil nel ciel che si compiange
di questo impedimento ov’io ti mando,
sì che duro giudicio là su frange.
Questa chiese Lucia in suo dimando
e disse: – Or ha bisogno il tuo fedele
di te, e io a te lo raccomando –.
Lucia, nimica di ciascun crudele,
si mosse, e venne al loco dov’i’ era,
che mi sedea con l’antica Rachele.
Per salvare Dante, nell’indifferenza di Beatrice, deve scomodarsi la Vergine. Questa, a sua volta, deve interpellare Lucia, la quale, avversa a ogni «crudele», rimprovera Beatrice (in effetti, in questo contesto, la funzione di Lucia si esercita puntualmente versus Beatrice):
Disse: – Beatrice, loda di Dio vera,
ché non soccorri quei che t’amò tanto,
ch’uscì per te de la volgare schiera?
Non odi tu la pieta del suo pianto,
non vedi tu la morte che ’l combatte
su la fiumana ove ’l mar non ha vanto? –.
La natura divina di Beatrice, come si vede, non è affatto in discussione: ella siede con Rachele, è prossima a Maria e Lucia ed è, soprattutto, «loda di Dio vera». Ma Beatrice non soccorre Dante, non ha pietà di lui, ne ignora la fedeltà e devozione, non ne scorge il pericolo così estremo da aver piegato il «duro giudicio» del cielo. Il problema di Beatrice è di fatto quello enunciato da San Paolo in I Cor. 13, 2-7: la donna-Sapienza non è patiens, non è benigna. La carità, invece, «non inflatur, non est ambitiosa, non quaerit quae sua sunt, non irritatur, non cogitat malum, non gaudet super iniquitate, congaudet autem veritati». Prima dell’intervento celeste che la sprona, invece, Beatrice non si cura che di sé. Quando però si avvede della verità delle parole di Lucia, Beatrice, ormai pentita, si muove sollecita in aiuto dell’uomo smarrito:
Al mondo non fur mai persone ratte
a far lor pro e a fuggir lor danno,
com’io, dopo cotai parole fatte,
venni qua giù del mio beato scanno,
fidandomi del tuo parlare onesto,
ch’onora te e quei ch’udito l’hanno.
La sollecitudine mostrata è commisurata all’inerzia precedente. Ed è, come tutti ricordiamo dalla chiosa di Virgilio, una sollecitudine contagiosa (Inf. II, 115-117). Di norma, il pianto della donna («li occhi lucenti lacrimando volse»), riconfermato in chiusura del XXX del Purgatorio («Per questo visitai l’uscio d’i morti, / e a colui che l’ha qua su condotto, / li prieghi miei, piangendo, furon porti», vv. 139-141), dove si presenterà finalmente «vestita di color di fiamma viva» (v. 33), quindi caritatevole, sembra essere stato inteso come una sorta di raffinatezza femminile, laddove esso appare come il segno inequivocabile del pentimento di Beatrice, il suo «seme del piangere» (Purg. XXXI, 46): «perché sia colpa e duol d’una misura». Non solo in Dante, ma anche nella donna le lacrime sono la traccia di una conversione, che in Inf. II, è ancora parziale: la sua perdurante durezza lascerà stupiti persino gli angeli dell’Eden (s’è visto: «Donna, perché sì lo stempre?»), perfino le tre virtù teologali che la esorteranno a volgere «li occhi santi» al suo «fedele», che, per vederla, «ha mossi passi tanti». A questo proposito, il nesso che stringe il «fedele» di Purg. XXXI, 134 al «fedele» di Inf. II, 98 testimonia la presenza della mutatio animi di Beatrice al principio della Commedia nella sua ripresa e compimento nell’Eden, a riprova che la palingenesi della donna è premessa e condizione vitale dell’itinerario dantesco di renovatio. Ciò è tanto vero che, in Inf. II, 98, Dante era «fedele» di Lucia, mentre solo in Purg. XXXI, 134 viene presentato come «fedele» di Beatrice.
A differenza allora di quanto al solito si crede, la Pietra ha i tratti di Beatrice e Beatrice ha, ha avuto, i tratti della Pietra. La trasformazione della donna, la sua conversione dalla Vita nuova alla Commedia, fu il principio della salvezza di Dante.