Dati bibliografici
Autore: Gabriele D'Annunzio
Tratto da: Prose scelte. Antologia d'Autore (1906)
Editore: Giunti, Firenze
Anno: 1995
Pagine: 27-32
Ma l’apparizione centrale della Città di Dite — che è una delle imagini più evidenti, più tragiche e più concise che sieno nell’Inferno — oscura la persona fangosa di quell’Adimaro che cerchiava d’argento l’ugne de’ suoi palafreni.
Quivi il lasciammo; ché più non ne narro.
Il paese infernale è quivi d’una meravigliosa desolazione, maremma scolorata per ove un confuso clamore soffia come un vento che or sì or no s’afforzi. Il grido di Flegiàs fende il fumo spesso, domina iroso il coro delle ire.
Flegiàs, Flegiàs, tu gridi a voto...
L'antico nome del Lapite‘ furibondo, che incendiò il tempio del dio obliquo, passa quasi fiammeggiante su la morta gora, annunzia col suo squillo la città vermiglia. Questo vendicatore, che s’armò d’una fiaccola, è divenuto il nocchiere che traghetterà il maestro e l’alunno alle case ardenti. Il fuoco rugge nel destino della sua stirpe come in una fucina sinistra. Se egli bruciò il santuario dèlfico, la sua figlia Coronide perì sul rogo.
Ricordate i colori di Pindaro nella terza Pitia? I parenti hanno alzata la giovine pregnante su la pira funebre; già violento Efesto la divora con le sue splendidissime fiamme; ed ecco, s'ode la voce di Apolline: «Non soffrirò che il mio figliuolo perisca di sì lacrimevole morte e segua la sorte materna!» E con un sol passo giunge alla pira, strappa dalle viscere della madre già combuste il fanciullo, lo affida incolume ‘a quel centauro dalla gran bocca, al gran Chirone che anche ritroveremo nell’Inferno su la riviera del sangue. Così Flegiàs, uscito da un mito igneo, è posto a vociferare e a minacciare sotto la Città del foco. La mitologia degli Elleni par che prosegua nel poema sacro le sue ultime metamorfosi.
Dal lamento gorgogliante nella belletta alle stizzose imprecazioni dei demoni in su le porte negate, quante voci hanno la collera e la doglia sul putrido pantano e intorno alle mura ferrigne! La stessa voce di Dante passa dall’accento dello sdegno a quello della crudeltà, dall’accento della meraviglia a quello del timore e della supplicazione. La stessa voce di Virgilio passa per le più diverse note, per le melodie più dissimili: insegna, irride, respinge, benedice, ammonisce, consente, rassicura, sospira, annunzia.
Fra tanto contrasto di suoni, fra tanta mobilità di gesti, le linee del paese sono disegnate fermamente. L'ombra e l’uomo, procedendo lungo il fossato dalle buie acque, scendono
al pié delle maligne piagge grige
insieme con quel tristo ruscello che fa la palude dilagando. Vasta è la palude e in forma d’un cerchio e nebulosa, e le genti ignude vi si dibattono ferocemente
troncandosi co’ denti a brano a brano,
e altre son giù fitte nel limo, e per il lor fiatare l’acqua fa le bolle, e il disperato inno sale or sì or no su per l’agitazione della lorda pozza.
Tristi fummo
Nell’aer dolce che dal sol s’allegra!
Ecco un di quei versi, fatti di lume e di freschezza, che a quando a quando si schiudono nella caligine e nell’orrore dell’Inferno come spiracoli della vita serena. Un cristallino cielo di primavera, tutto spirante di soffii odoriferi, si genera dall’impreveduta melodia di quelle sillabe chiare.
Nell’aer dolce che dal sol s’allegra!
Le fangose bocche gorgoglianti al fondo sospirano verso la bontà della vita, esse che furono così acri e mordaci. La memoria dell’aere primaverile fa più grave la loro ambascia.
Or ci attristiam nella belletta negra.
Ma i due pellegrini veggono brillare, alla cima della torre che sta su la secca ripa, due fiammette e un’altra nella fumosa lontananza risponde: «Siccome far si suole» nota il Boccaccio «per le contrade nelle quali è guerra». E sembra questo un episodio dell’assedio di Caprona ove il fiorentino vide uscire i fanti patteggiati. La barca di Flegiàs prende l’ombra e l’uomo; e naviga per la morta gora, carica dell’insolito peso, verso la città roggia che è ancor nascosta nelle nebbie della conca.
L’uomo dalle mascelle grandi e dal naso aquilino, che fa affondare la prua nelle sucide onde, sta diritto e vigile, con l’occhio sbarrato innanzi, contratto nell’attesa della immane apparizione. Grida di dolore giungono al suo orecchio, lo percuotono. Egli non rimuove lo sguardo da quella parte ma vi concentra tutta la potenza della sua vista che fra poco gli si muterà in visione terribile.
Ecco l’attitudine perpetua di Dante innanzi all’Universo. Egli è colui che vede e che vuol vedere, egli è una operosa volontà veggente. Nessun occhio umano è comparabile al suo. Le impronte originali delle cose si stampano nel suo spirito integre; e, quando egli le ferma nell’eternità dello stile, esalta il loro essere a un superior grado di vita, cui per lor intimo ritmo esse non potevano giungere.
Udite come si fa solenne e cupa la musica del verso nell’annunziare il maledetto muro. Due endecasillabi si seguono col medesimo andare misurato dai medesimi accenti, aggravato dal martello delle allitterazioni.
Lo buon maestro disse: «Omai, figliuolo,
S’appressa la città che ha nome Dite
Co’ gravi cittadin, col grande stuolo».
Dante scopre per entro al fumo palustre il sinistro rossore. Le rocche dei demoni si disegnano con un contorno violento come le corone dei vulcani nella notte.
Ed io: «Maestro, già le sue meschite
Là entro certo nella valle cerno
Vermiglie, come se di foco uscite
Fossero». Ed ei mi disse: «Il foco eterno
Ch’entro l’affoca, le dimostra rosse
Come tu vedi in questo basso inferno».
Miracolosa virtù dello stile e della musica! Abbiamo qui il tipo delle rappresentazioni dantesche. Ponete mente alla collocazione delle parole e alla successione dei suoni. Qui tutto è necessario, e tutto converge all’effetto come una serie di moti regolati solleva col minimo sforzo il massimo peso. La struttura delle due terzine sembra aver la fermezza e la possa che sono nel bicipite dell’atleta. Il nerbo della frase vi si tende senza tremito. E l’acume di quel verbo che dall’ultima rima della terzina sembra scagliato come da un arco!
Vermiglie, come di foco uscite
Fossero.
E la rispondenza quasi simmetrica delle conoscenze, nei due tempi della rappresentazione: - effetto musicale istintivo e primitivo, che ritroviamo nelle parti liriche della tragedia greca disciplinato dalla legge dell’equilibrio per mezzo di un’arte segreta e profonda.
«Là entro certo nella valle cerno»
dice l’alunno. E il maestro:
«Il foco eterno
ch’entro l’affoca...»
Tutto è qui efficace, conciso, contratto; tutto è semplice e incommutabile come la necessità: una gran somma di vita concentrata in un sol punto, una vasta visione chiusa in un cerchio adamantino che nulla può spezzare o distruggere.
Questo è lo stile. La parola assume qui la dignità del più alto carattere eroico. E la legge di quest'arte è la più ardua legge del mondo spirituale.
Ora pensate al luogo dove questo canto fu composto, a quell’austera e fiera Lunigiana che ha forse le più belle montagne della Terra.
Mi piace di pensare che Dante, ospite dei Malaspina, avesse la visione della Città di Dite guardando le Alpi Apuane affocate dal sole occiduo, vermiglie, veramente, come se di foco escite fossero.
Chi le ha vedute una volta, dal mare, ardere nel deserto dell’etere, non può non consentire alla mia imaginazione.
Degno rifugio di Dante quel castello di Fosdinovo, su l’altura ventosa, con le sue torri rotonde, con i suoi spaldi invasi dall’erbe selvagge, con le sue gradinate, con i suoi androni, con le sue corti di fosca pietra, con tutta quella sua ferrigna ossatura guerresca che i secoli non hanno incurvata. Se l’Esule abitò la stanza, angusta e nuda come una cella, che il custode mostra religiosamente ai visitatori, egli poteva vedere per la sua finestra al termine d’ogni sua giornata le creste formidabili delle Alpi marmifere infiammarsi e dominare la Val di Magra già sommersa nell’ombra e nel silenzio.
Taluno si è chiesto se la storia dei culmini terrestri non possa dirsi intimamente legata alla storia dei culmini ideali, se non si possa attribuire allo spettacolo delle montagne qualche parte della virtù che fece degli Elleni e degli Italiani i conduttori delle nazioni in Europa, i promotori della grande coltura umana nel mondo. Non v'è una contrada, in Grecia e in Italia, d’onde non si scorga una catena montana. Le montagne quasi sempre formano il principal lineamento di lor bellezze illustri. Ad Atene, a Sparta, a Corinto, a Firenze, a Pisa, a Verona, la sembianza delle montagne è d’una nobiltà che eguaglia la perfezione della più famose statue.
Se io dovessi darvi un’imagine visibile e tangibile dell’energia, della durezza, dell’impeto di Dante, vi additerei quelle Alpi aguzze e nude, patria delle aquile nere e dei pensieri lapidarii, impetuose nella lor solidità come le materie fluide, come le acque, come le fiamme; che sollevano contro il cielo e le loro masse travagliate da una muta aspirazione a trasfigurarsi in forme di superiore armonia. Michelangelo penetrò il segreto di quel lor salire furente, comprese la parola del loro appassionato silenzio, sentì nelle loro viscere imprigionata la stessa forza creatrice che in lui si tendeva così dolorosamente verso le forme divine e titaniche. Dante certo contemplandole nella tristezza dell’esiglio ebbe dallo spettacolo del lor perpetuo ardimento il conforto alla lotta ch’egli intraprendeva contro la fortuna ostile, e dalle loro punte acuminate e solinghe forse ebbe esempio a que’ suoi grandi versi isolati che stanno come le rupi (o volano come i dardi che il saettatore scaglia traendoli a uno a uno dalla sua faretra), e una sera di meditazione, guardandole da uno degli spaldi erbosi – mentre nell’ombra della valle luccicava il meando della Magra e il rogo del sole ardeva dietro i monti di Spezia e le acque del Golfo si tingevano di sanguigno sotto i promontorii e intorno alle isole – egli udì, come il profeta biblico, la promessa di Jehovah: «Tibi dabo frontem duriorem frontibus eorum: ti darò una fronte più dura delle loro fronti». E l’ebbe.