Dati bibliografici
Autore: Achille Piersantelli
Tratto da: Giornale Dantesco
Numero: XV
Anno: 1907
Pagine: 107-124
Un senso di alto mistero, nota bene Giovanni Pascoli, regna in quella parte, dove Dante descrive la condizione del quinto cerchio, ossia della palude Stige (Canto VIII e IX, dell’Inferno). Nessuna notte più buja, né più triste di questa ed essa è a mezzo del suo corso, quando Dante e Virgilio tentano, ma invano, di penetrare nella città di Dite. Le tenebre sono rotte soltanto dai bagliori delle affocate mura:
Le mura mi parea che ferro fosse.
I Demoni, le Furie, la Gorgone, tutto il genio del male si oppone all’uomo, che, vi vuol penetrare nel regno della morte, cioè al filosofo ed al cristiano, il quale, a conosci l’ultimo suo fine e a conseguire la felicità, è dalla sua coscienza e dalla fede invitato a meditare su i novissimi «morte, giudizio, inferno, paradiso». In questa meditazione filosofica e religiosa appunto si compendia tutto il significato dell’allegorico e mistico viaggio, del quale è termine la perfezione e santificazione dell’anima, espressa negli ultimi versi del Poema:
All’alta fantasia qui mancò possa,
ma già volgeva il mio desire e il velle,
siccome ruota ch’egualmente è mossa,
l’Amor che muove il sole e l’altre stelle:
parole divine, nelle quali si ripetono quelle, con cui il Cristo compi il supremo suo sacrifizio: «per altro facciasi non la mia volontà, ma la tua».
Non è chi non veda come Dante, nel fingere questa sua discesa fra i morti, ebbe certo d’ innanzi quelle, celebrate dagli antichi poeti, di Ercole, di Teseo e Piritoo, di Orfeo, di Ulisse, di Enea, quale in cerca della perduta sposa, quale di un regno da conquistare, quale della patria lontana, tutti della pace, della giustizia, della felicità, che fuggiva loro d’ innanzi.
Che Dante mirasse ad assurgere al grado dei detti eroi lo prova il doppio accenno all'assalto di Teseo e alla sconfitta del Cerbero per mano di Ercole nello stesso Canto IX, v. 54 e 98, e il commemorare fin dal Canto II la discesa di Enea, al quale non esita di paragonarsi. Già sant'Agostino e i neoplatonici Alessandrini, seguiti poi da Dante, da Bossouet, dal Vico, avevano veduto nella filosofia greca e nei miti del paganesimo una preparazione alla rivelazione cristiana ed avevano riconosciuto in dette favole misteri di alta sapienza come quelle che alludevano alla persistente tendenza dell’uomo alla felicità ed al possesso del vero contro ostacoli insuperabili senza il soprannaturale soccorso della grazia; ostacoli che procedono dall'opera insidiatrice del Demonio. Ma a raggiungere la meta agognata non basta la speculazione del filosofo; ci vuole il sacrifizio dell'eroe. Il filosofo, come il Faust di Goethe, scende alle Madri, e nella sua curiosità vi si perde; l'eroe invece, dopo essere disceso, si rialza col sacrifizio della sua volontà rinnovellato di novella fronda. Che meraviglia dunque se Dante nelle figure dei detti eroi, per quanto favolosi, dovette scorgere segni precursori e testimonianze del futuro Messia?
Gesù aveva detto appunto poco prima di morire: «E venuta l’ora che sia glorificato il Figliuol dell’uomo. In verità vi dico, se il granello di frumento caduto in terra non muore, resta infecondo; sé invece muore, produce molto frutto». In altre parole: bisogna che l’uomo abdichi a se stesso, se vuol godere la vera vita, e a quanto ha di più caro, cioè che muoia. Dante, che scende nel regno della morte, non è altrimenti che il granello di frumento che muore, come il Redentore, perché gli si riveli la verità e la sua parola fruttifichi e divenga fra gli uomini feconda di redenzione. Questa legge, di applicazione universale, è nota al moralista come al fisiologo, per l'antico adagio — Dalla morte la vita — ed è quella stessa legge che nella mente epicurea di Wolfango Goethe presiede, come accennammo, ai destini del dott. Faust, il quale per godere di tutta la bellezza, di cui era avido, simboleggiata nella figura dell’eterna Elena greca, discende alle Madri, cioè all’idea primigenia, all’archetipo di ogni bello, allo stesso modo Dante, filosofo e cristiano, evoca dalla. sapienza di Dio, improntata nelle cristiane dottrine, l’idea della perfetta libertà e della perfetta giustizia (fonti di felicità), delle quali il mondo aveva allora, non meno di oggi, grande bisogno. Sia pure di Plutarco l’espressione scendere alle Madri, là dove, in quel suo trattato desunto dal Timeo di Platone, chiama la materia madre c balia di tutte le cose, è certo che, a testimonianza di questa eterna ricerca del vero, del buono e del bello (contro l'errore, la colpa e l’orrido), stanno gli antichi miti discorsi; ma nessuno di questi rese così chiara e perfetta l’idea come la finzione di Dante.
Anche Dante scende alle Madri e ne ritorna colla missione di un novello apostolato. Questa missione gli dà prima Beatrice con le parole:
Però in pro’ del mondo che mal vive
al carro tieni or gli occhi, e quel che vedi,
ritornato di là, fa che tu scrive
(Purg. XXXII, v. 104);
e con queste altre:
Tu nota e si, come da me son porte
queste parole, tu le insegna ai vivi
del vivere, che è un correre alla morte;
poi glie la conferma Cacciaguida dicendogli:
Ma nondimen, rimossa ogni menzogna,
tutta tua vision fa manifesta,
e lascia pur grattar dov'è la rogna;
finché, da ultimo, nelle più alte sfere del Paradiso, san Pietro lo preconizza solennemente novello apostolo del Cristianesimo, quando, dopo avere inveito contro i sacerdoti, dimentichi dei propri uffizi, e avere deplorate le condizioni della Chiesa, conclude:
E tu, figliuol, che per io mortal pondo
ancor giù tornerai, apri la bocca
e non asconder quel ch’io non ascondo.
Ma per compire tanta impresa Dante doveva morire, soffrire cioè l'esilio e le ingiustizie degli uomini, dare un tuffo negli arcani della divina sapienza, profondendosi in alti studi di filosofia e di teologia per risorgere lui e far risorgere il mondo, moralmente e cristianamente rigenerato; discerde, dice il Pascoli, colla scienza, ascende colla volontà, e noi aggiungeremo: e colla divina grazia: non importa se il mio lettore non crede alla grazia; ben ci credeva Dante e questo basta. Ma quale è, fra le tante possibili, la suprema ragione della visione dantesca?
I profeti, la Sibilla, Virgilio avevano annunziato la venuta del Redentore; il Redentore venne e compi la sua missione; gli apostoli ne predicarono la santa dottrina; i Martiri le suggellarono col loro sangue, ma Satana, sebbene vinto, per continuare la lotta con Dio si rifugia, come in un cantuccio, nel libero arbitrio dell’uomo e mira a soggiogarlo colle passioni, ed infatti ci riesce, destando specialmente nel clero e nei principi la sensualità, la superbia, la cupidigia (le tre Fiere), residui dell’uomo, benché fatto cristiano, dell’atavismo pagano e dell’antico impero dei sensi. Questa tendenza anticristiana la Storia ce la mostra successivamente nell’opera devastatrice dei barbari invasori; nel dominio soperchiatore e corrotto dei feudatari, nelle sanguinarie discordie dei comuni. Ma eccoci al 1300, al grande Giubileo, alla perdonanza universale, proclamata da Bonifazio VIII: un uomo si sente da Dio predestinato a rinnovare l’opera del Redentore, della quale gli stessi sacerdoti sembrano dimentichi; Dante ripete dopo 1266 anni, nel giorno anniversale della morte di Gesù, una discesa fra i morti. Allora la divina misericordia (la Donna gentile), che si compiange dell’impedimento che l’uomo, e specialmente la Chiesa, trova nelle arti di Satana, invia la grazia illuminante (Lucia) a destare la teologia o rivelazione (Beatrice), la quale per mezzo della filosofia (Virgilio) si fa intendere a Dante, che col suo mistico viaggio attraverso il regno dei morti, il cui concetto si compendia nella meditazione dei novissimi — Morte, Giudizio, Inferno e Paradiso — giunge a vedere l'accordo della Filosofia colla Teologia e cosi, per questo nuovo innesto dell’umano col divino, la parola di Cristo darà frutti novelli, come già li aveva dati fra i Gentili coll’apostolato di Paolo, al quale pure il nostro Poeta si compiace di paragonarsi e nell'opera e nella soprannaturale visione:
Io non Enea, io non Paolo sono.
Al lettore potrà sembrare che io mi sia fino a qui indugiato troppo col mio preambolo intorno a cose generalmente note, ma io ho creduto necessario richiamare alla sua memoria quelle mistiche dottrine, che meglio valgono a porlo nell’ambito mefafisico e teologico, nel quale si aggira coi suoi misteriosi veli il Canto IX forse più che alcun altro dell'Inferno dantesco, e quindi a fargli più agevolmente accogliere l’interpretazione, con cui io tenterò di rimuoverli.
«Sbarcano i due Poeti — dice il Pascoli — e per la prima volta Dante vede i dal ciel privati, per la prima volta è lasciato solo; per la prima volta vede il Maestro cogli occhi alla terra dubitare e sospirare; l’ode parlare con parole tronche e raccontare una tetra storia di scongiuri e di luoghi fondi e bui», la quale tetra storia è appunto argomento frim0 di questo mio commento.
Come Gesù sullo spirare, sentendo il peso della morte, esclamava Dio mio, Dio mio, non mi abbandonare; così anche Dante, dinanzi al misterioso passo ed alle minacce dei demoni, pare senta tutto il peso della fragile umanità e lo rivela dicendo:
Così sen va, e quivi mi abbandona
lo dolce Padre, ed io rimango in forse,
che il sì e ’l no nel capo mi tenzona;
breve dubbio, ma angoscioso come l’agonia, dubbio che il male possa mai sul bene prevalere.
Il Pascoli sente la solennità del momento, ma non mi sembra la comprendono né lui né altri, in tutta l'estensione c l'intensità del suo religioso significato, il quale apparirà più chiaro, se noi riconosceremo che Dante intende in quel terrore commemorare anche il tempo, in cui Iddio abbandonò il mondo alla potestà delle tenebre, e la discesa del Figliuol dell’uomo nell’Inferno per compiervi l’alto mistero del suo trionfo; onde Virgilio rammenta coll’accento dell’ammirazione il possente
Con segni di vittoria incoronato
e con quello dello stupore il terremoto, per cui allora
Da tutte parti l’alta valle feda
tremò si che io pensai che l’universo
sentisse amor, per lo quale è chi creda
più volte il mondo in caos converso.
Ma ecco che quei nostri avversari chiudono in faccia a Virgilio le porte di Dite, onde questi se ne torna in volta confuso e colle ciglia rase di ogni baldanza, sicché Dante, per lo sgomento che ne prende, entra nel dubbio atroce di dover restare laggiù senza scampo, cd in questo dubbio domanda suggestivamente al Maestro ed in modo indiretto se egli per avventura sia stato altre volte per quei luoghi tenebrosi, forse come dimorante nel Limbo e come parte della grande famiglia di coloro che sanno:
In questo fondo della triste conca
discende mai alcun del primo grado,
che sol per pena ha la speranza cionca?
E Virgilio, che ha ben compreso l’intendimento di Dante, gli risponde di netto che di rado incontra che alcuno del Limbo scenda nell’ Inferno, e poi soggiunge:
Vero è che altra fiata quaggiù fui,
congiurato da quella Eriton cruda,
che richiamava l’ombre ai corpi sui.
Di poco era di me la carne nuda,
ch’Ella mi fece entrar dentro a quel muro
per trarne un spirto dal cerchio di Giuda.
Quell’è il più basso loco e il più oscuro
e il più lontan dal ciel, che tutto gira:
ben so il cammin, però ti fa securo.
Virgilio dunque era stato già un’altra volta fino al fondo dell’Inferno. Vedremo in séguito che cosa ci andasse a fare e chi fosse l'Eritone, che ve lo mandò. Riteniamo per ora, se così vi piace, che questa sia una strega qualunque, figura per noi secondaria, forse per antonomasia chiamata Eritone; ma fissiamo piuttosto sùbito la nostra attenzione sullo Spirito del Cerchio di Giuda, intorno al quale indarno interrogo commentatori antichi c moderni.
Cominciamo dall’antichissimo Boccaccio, il quale innanzi a questo enigma (Commento, lezione 35°) ingenuamente confessa così la propria insufficienza: «Che istoria questa si fosse non mi ricorda mai aver né letta né udita». Poi soggiunge che, secondo i Santi, non si deve credere che mai uscisse anima dall’ Inferno per opera di incantamenti e che, se Saulle credette parlare all'anima di Samuele, questo non poté seguire che per opera di qualche spirito immondo camuffato nell'aspetto di quel profeta.
Di questa consultazione parla appunto la Bibbia nel primo dei Re, capo VIII, quando Saulle, per conoscere la propria sorte nella lotta coi Filistei, sentendosi abbandonato da Dio, quasi disperato, dice:
«Cercatemi una donna che abbia lo spirito di Pitone» (che l’arcivescovo Martini intende per lo spirito di Apollo) ed ottenutala e domandatala di parlare col defunto Samuele, questi gli comparisce e gli predice l imminente rovina sua c della sua famiglia. Teniamo conto di questa consultazione, per quanto ci occorrerà di dirne in séguito, ed intanto rammentiamo quanto dicono gli altri interpreti, che mostrano curarsi poco di questo breve episodio.
Benvenuto da Imola non vede in tutto il racconto di Virgilio che un’ingegnosa invenzione per fare animo a Dante, che si smarriva dinnanzi alla opposizione dei dispettosi demoni, senza riflettere però che così si annichila la figura del grave filosofo e dell’affettuoso educatore Virgilio e la si riduce a quella meschinissima di una femminetta o di un fanciullo, che, per salvarsi, ricorre alla bugia.
Come Benvenuto Rambaldi, la pensa pure il Da Buti, (vol. I, pag. 252-253, Pisa, Nistri, 1858), che nell’episodio vede un espediente per incorare Dante, e gli nega ogni valore allegorico. «Ma questa finzione — egli dice — cioè che Eritone scongiurasse Virgilio, fa l’autore nostro da sè, poetando: ché questo non si trova appo gli autori, né non è da dire che qui l’autore faccia allegoria; ma finge questo per dare verisimilitudine alla sentenzia litterale, considerato che aveva finto di sopra che Virgilio era di quelli del primo cerchio. Ed ancora Virgilio dice nel VI dell’Eneide a niun onesto è concesso varcare lo scellerato limitare (nulli fas casto scelera tum insistere limen) e questo finge l’autore per mostrare che sia possibile che ora vel meni, benché l’Eneide dica che Sibilla non ci menasse Enea.
«Parla della Giudecca, dicendo che è il più basso loco dell’Inferno e più oscuro e più lungi dal Cielo, che gira intorno la terra: però che è al centro della terra e lo centro è il più distante luogo che sia dalla circonferenzia del cerchio, e questo finge mostrare che ben li sia possibile di menarlo d’ogni lato, e però soggiunge: Ben so il cammin, però ti fa securo».
Jacopo della Lana, vol. I, pag. 201 (Bologna 1866 per cura di L. Scarabelli), rozzo nel pensiero e nella forma, incappa in grossolani anacronismi e dice con tutta disinvoltura:
«Qui fa una questione Dante e Virgilio… e questo per introdurre una favola poetica, la quale pone Lucano, che dice che al tempo, ancor poco dopo che Virgilio fu morto, una Eritone incantatrice si lo scongiurò, cioè Virgilio, e fecelo tornare al corpo (sic) ed andare dentro la città di Dite e torre un’anima dall’infimo circolo, cioè dal circolo dove è Giuda. E questa è un’allegoria, che Virgilio trattò di quelli luoghi del suo volume (sic) e che raro di loro faceano quel cammino, quasi a dire che raro poetando si trattava di tal materia (sic)».
In conclusione, Iacopo della Lana pare riduca la novella di questa prima discesa di Virgilio ad una imitazione che Dante avrebbe fatto del passo Virgiliano: Lib. VI, 563-4. «Sed me, cum lucis Hecate praefecit Avernis, Ipsa Deum pocnas docuit, pergue omnia duxit», in cui si accenna ad una discesa della Sibilla, anteriore a quella nella quale essa accompagna Enea, ed in cui, nel medio evo, si credeva (e assai giustamente) simboleggiato lo sforzo dell’intelletto umano, che vuole penetrare nel regno della morte per conoscere la natura del male e dei vizi.
Il Landino (Esposiz. di Crist. Landino ed Aless. Vellutello, G. B. Marchio Sessa, Venezia, 1564) si perde pure in un prolisso ed arruffato discorso, dal quale ci viene fatto rilevare che in fondo prima egli vi riconosce con Iacopo della Lana un’imitazione dell’anteriore viaggio della Sibilla e dell’episodio di Lucano, ed un’allegoria della contemplazione del vizio, e poi si accosta a Benvenuto da Imola nel vedervi un espediente di Virgilio per far cuore a Dante, concludendo con non molta grazia: «orse finge Dante che Virgilio fingesse esservi stato per dimostrare che moralmente i Savî dicono spesso quello che non è (sic), non per ingannare, ma per confortare a perseverare nelle buone opere quelli che hanno preso alcuno sbigottimento».
Quel forse però, posto quasi a guardia ed in cima del suo discorso, ci fa temere che il Landino non dovesse essere molto convinto di ciò che diceva.
Il Vellutello (nel citato volume edito, G. B. Marchio Sessa, Venezia, 1564) quasi correggendo i precedenti interpreti, argomenta meglio e conclude: «Questo medesimo di esservi stato altra volta afferma (Virgilio) ancora come vedremo, nel duodecimo Canto, ove della roccia rovinata del VII cerchio dice:
Or vo’ che sappi che l’altra fiata,
che io discesi quaggiù nel basso inferno,
questa roccia non era ancor cascata,
e però non è da dire che il Poeta finga che Virgilio lo dica solamente per assicurarlo e non perché voglia inferire (come alcuni dicono) che non vi discendesse mai. Finge adunque esservi con effetto un’altra volta disceso». Da queste parole si apprende che il Vellutello, con assai maggiore discernimento, sente ed ammette la realtà della discesa, ma non va più innanzi, perché evidentemente non ne sa spiegare il motivo.
Il Castelvetro (Sposiz. di XXIX Canti, pag. 117, Modena, 1886) si sforza di dimostrare che qui non può trattarsi dell’ anima del soldato pompejano risuscitato (Lucano VI) dalla maga Eritone, perché questi, combattendo per la Repubblica, non era un traditore, né Virgilio era allora morto: tuttavia (vedi coerenza!) sembra ammettere che l’anima di Virgilio, come esperta dei regni infernali, possa essere stata mandata, per un intervallo, a tenere il posto di quella del soldato pompejano, ancor che con alquanto tormento (sic!).
Il Tommaseo, parlando della Eritone (della quale solo si occupa), senza un riguardo alla cronologia e senza neppur riflettere che Virgilio al tempo della battaglia di Farsalo (48 a. av. G. C.) era vivo e verde, dice: «Non già che Virgilio fosse da lei scongiurato per trarne il soldato pompejano, il quale, al dir di Lucano, non era ancora disceso al fondo dell’Inferno, ma Dante, dietro l’invenzione di Lucano, ne immagina un’altra per far dire a Virgilio — Io sono stato fin laggiù, però ti assicura — Così Virgilio fa dire alla Sibilla: Sed me, cum lucis etc.».
Bisogna pur convenirne che questo discorso, in cui si risente il pensiero del Landino, manca del solito e grande acume del Tommaseo, il quale riduce così l’episodio ad una sterile imitazione di quello di Lucano e di quello di Virgilio, e senza alcun risultato.
Il Fraticelli parla della Eritone, e crede che sia la maga stessa di Lucano, perché Virgilio mori appena trenta anni dopo la battaglia di Farsalo, ma dello Spirto ne verbum quidem; e nello stesso modo si contengono, presso a poco, lo Scartazzini, il Venturi, il Casini, il Passerini, il Pascoli ed altri.
Il Benassuti si esprime così: «Quasi tutti i commentatori confondono il caso qui accennato da Virgilio col caso narrato da Lucano nel sesto della Farsaglia. Ma ciò è assurdo: 1° perché il fatto di Lucano non riguarda Virgilio; 2° perché Virgilio era vivo al tempo di quel fatto; 3° perché l’Eritone di Lucano ad istanza di Sesto Pompeo fa venire un soldato traditore(??) morto sul campo per sapere quando avranno fine le guerre civili fra suo padre e Cesare; ma, quando mori Virgilio, le détte guerre civili erano cessate da molti anni.
«Si dice: è un anacronismo famigliare ai poeti. Ed io rispondo che qui un anacronismo non poteva avere luogo, perché si tratta di convincere Dante colla verità alla mano, e non con un'invenzione; la cui falsità sarebbe stata sùbito rilevata da Dante, il quale avrebbe cosi avuto ogni ragione per tenersi ingannato da Virgilio e sarebbe caduto in maggiore paura. L’inganno poi non era nemmeno cosa da Virgilio, che in tutta la Divina Commedia sostiene le parti della retta ragione. Se dunque Virgilio non allude e non può alludere al fatto di Lucano, a qual fatto egli allude? — Egli allude ad un fatto ignoto a noi, ma che sapeva doversi credere da Dante, il quale ne aveva letto un simile in Lucano. Solo era necessario, per capacitare Dante, che Virgilio provasse con qualche fatto la sua asserzione; ed il fatto che serve a questa prova è appunto la descrizione dei contorni della città di Dite e dell'ultimo cerchio di Giuda. Quanto ad Eritone o ella poteva ancòra esser viva, quando Virgilio mori, o Eritone è qui preso per nome comune di Maga, come lo prende Ovidio nel XV delle Eroidi».
Il Biagioli fa suo quanto, forse per primo, suppose il Castelvetro, senza però citare questa fonte; e senza alcuna prova ripete che, quando una maga vuol cavare un’anima dall’Inferno, per servirsene pei suoi bisogni, ella deve, per l’intervallo che la tiene fuori, mandarne un’altra in suo luogo, e di quelle che non passarono Acheronte. Di questa legge, de jure cervellotico, dobbiamo lasciare tutto il merito al Castelvetro e al Biagioli.
Il Poletto cita il Biagioli per riderne e per notare che l’anima di Virgilio, come tutte quelle del Limbo, secondo Dante, l’Acheronte lo aveva già passato; ma non aggiunge altro.
Il padre gesuita, Cornoldi, nel suo commento dice: «Si dubita chi sia cotesta anima (sic). La discussione non conta un frullo, perché si tratta d’una fiaba. Il poeta può dir cose non avvenute, come fossero avvenute, ma non deve dire cose intieramente assurde. E possibile il fatto? Per certo non ha intrinseca repugnanza. Nella scrittura abbiamo il fatto della consultazione di Saulle... Ai nostri giorni questa consultazione è ridotta a sistema». Lasciando stare la rugiadosa amenità, con cui il p. Cornoldi tenta ravvicinare la biblica consultazione di Saulle alle moderne imposture degli spiritisti, si direbbe che egli non dia valore che ai fatti storici concreti e documentati, poiché chiama senz’altro questa prima discesa di Virgilio fiaba che non conta un frullo; ma il viaggio di Dante pel regno dei morti, privo, come è anche esso, di ogni realtà storica, che altro può essere pel p. Cornoldi se non una fiaba? E in tal caso perché il padre Cornoldi ha voluto aggiungere ai tanti commenti della Divina Commedia anche il suo? Per insegnarci che le fiabe non contano un frullo? Eppure il favoleggiante di questa prima discesa di Virgilio è proprio quell’Alighieri, che egli onora di una nuova chiosa. Egli poi ritiene, senza neppure discuterlo, che lo spirto sia un’anima; e che questo sortilegio non abbia intrinseca repugnanza: ma di chi è quest'anima? E come può il padre Cornoldi asserire che non ha intrinseca repugnanza, contradicendo al Boccaccio ed ai Padri, i quali ne ammoniscono che mai per forza di magia usci anima dall’ Inferno? Ed ecco in proposito che cosa anche ne insegnarono Cristoforo Landino e sant'Agostino, da questo citato (Commento alla « Divina Commedia», edizione principe):
«Ma, quanto al presente testo, è da dubitare come Dante ponga che l’anima di Virgilioesca fuori scongiurata e stretta, conciossiaché la nostra religione lo vieti: perché non vogliono i teologi che l’arte maga abbia questa forza: il perché Aurelio Agostino scrive che quella pitonessa, della quale recita il primo dei Re, non era l’anima di Samuele, ma un demonio ». E dovrebbe essere anche ragionevole per ogni buon teologo il ritenere che capriccio o volontà di mago o di stregone non possa mai turbare la pace dei defunti, né la divina giustizia a cui questi sono soggetti. Sarebbe stata dunque nel p. Cornoldi lodevole modestia il confessare, come fa il Boccaccio, di non avervi neppure lui capito nulla.
Finalmente il march. Domingo Franzoni nei suoi Studi vari sulla «Divina Commedia» (Firenze, Minori Corrigendi, 1887) a pag. 145 sotto il titolo Chi fosse lo spirito che Virgilio trasse del cerchio di Giuda, entrò per primo in questa questione e credette poter dimostrare che quest’anima fosse proprio quella di Palamede. Si sa dalla favola che il folle Ulisse volle vendicarsi di Palamede, il quale aveva svelata la pazzia da lui finta per non andare alla guerra di Troia. Ulisse l’accusò pertanto di tradimento e di segrete intelligenze coi Troiani, e, a provarlo, pose del denaro nella tenda dell’innocente Palamede, prezzo del suo delitto. I Greci credettero e lo lapidarono. Ma Virgilio fa alta testimonianza della sua innocenza, e di lui, come poi del giustissimo Rifeo, (II Aeneidos, v. 81) discorre colle seguenti lodi:
Fando aliguil si forte tuas pervenit ad aures
Belidae nomen Palamedis, et inclyta fama
Gloria: quem falsa sub proditione Pelasgi
Insontem, infando iudicio, quia bella vetabat,
Demisere neci, nunc cassum Iumine lugent.
Lo stesso compianto Ovidio mette sulle labbra di Ajace (Metamorf., libro XIII, v. 56).
Mallet et infelix Palamedes esse relictus:
Luem male convicti nimium memor iste furoris
Prodere rem Danaam finzit, fictumque probavi:
Crimen, et ostendit, quod jam draefoderat, aurum.
Onde il Franzoni conclude che, come Dante si è arbitrato di portare Rifeo dal Limbo al Paradiso, così poteva fingere che Virgilio, dopo morto, vedendo nell’ Inferno la immeritata sorte di Palamede, portasse lui in loco di salvazione. Ma il march. Franzoni non ha riflettuto che all’Inferno si va per le colpe proprie, non per le calunnie altrui, e che per la malignità di Ulisse potevano esser tratti in inganno i Greci, per quanto astuti, non mai la divina Giustizia, a cui st vola senza schermi. Il giustissimo Rifeo poi, tosto che il Limbo fu aperto per l’uscita dei Patriarchi, poteva anche lui essere salvato per la viva carità, con cui aveva atteso il trionfo della giustizia, ce Dante da buon teologo (nullius dogmatis expers) sapeva distinguere le tre specie di battesimo:
battesimo dell’acqua
battesimo del sangue
battesimo della carità.
Il posto dunque di Palamede, appena morto, avrebbe dovuto essere nel Limbo, accanto a Rifeo, non mai nel cerchio di Giuda. Come potrebbe entrare poi in tale ipotesi la strega Eritone? Queste obbiezioni il march. Franzoni non se le ha fatte, ed ha preferito chiudere la sua dimostrazione facetamente, dicendo che Palamede dovette andare all’ Inferno, perché non ebbe per avvocato l'Angelo, che accolse pietosamente Buonconte forse poco convinto il Marchese stesso della serietà della sua congettura.
In conclusione, come vedete, dei commentatori antichi e moderni, chi, quasi per istanchezza, accoglie l’interpretazione di Benvenuto da Imola e giudica l’accenno di Virgilio un espediente per fare cuore a Dante; chi si dichiara incapace di una spiegazione e chi vi passa su, non fermandovi neppure un momento l’attenzione. Eppure le parole di Virgilio alludono ad un fatto certo, positivo, determinato:
1° dallo stesso tono risoluto dell’asserzione
Vero è che altra volta quaggiù fui;
2° dal tempo:
Di poco era di me la carne nuda;
io ero morto da poco tempo;
3° dal luogo:
Ch’ella mi fece entrar dentro a quel muro;
cioè dentro la città di Dite;
4° dal fine espresso:
Per trarne un spirto del cerchio di Giuda;
per cavarne uno spirito dal cerchio dei traditori.
Determinata così da Virgilio questa sua prima discesa in tutte le sue circostanze, egli stesso poi la conferma poco dopo al Canto XII dicendo:
Or vo’ che sappi che l’altra fiata,
ch'io discesi quaggiù nel basso inferno,
questa roccia non era ancor cascata;
e questo dice per incidenza, quando non c’era nessun bisogno di questa conferma; e vi torna ancora su e con tutta sicurezza, senza punto di quella peritanza e di quel rossore di chi tenta dire una bugia senza averne ancora l’abito, quando al Canto XXI ripete:
Non temer tu, ch'io ho le cose conte,
perché altra volta fui a tal baratta.
Perché Virgilio afferma di essersi altra volta incontrato ad un uguale contrasto? Evidentemente perché, anche in quella prima volta, gli dovette essere dai demonî contrastato il passo, e certo per un grande motivo, che Dante si compiace di lasciar indovinare al sagace lettore e di cui presto parleremo. Ma si dirà: Se Virgilio era pratico della via, come mai si lasciò poi ingannare da Malacoda intorno al sicuro passaggio sul ponte? Egli doveva sapere che questo era rotto. — Non lo sapeva, appunto perché, quando vi passò la prima volta, il ponte era sano, non essendo ancora avvenuta la morte di Cristo ed il conseguente terremoto, che spezzò le rocce infernali; e questo vale pure a segnare il tempo di questa prima discesa, la quale dovette avvenire precisamente nell’ intervallo dei cinquantuno anni, che corrono dalla morte di Virgilio a quella del Salvatore.
Questo si rileva anche meglio dai seguenti versi, in parte già citati:
Ma certo poco pria, se ben discerno,
che venisse Colui che la gran preda
levò a Dite dal cerchio superno,
da tutte parti l’alta valle feda
tremò sì che io pensai che l’universo
sentisse amor, per lo quale è chi creda
piri volte il mondo in caos converso.
Accertati cosi i limiti del tempo di questa prima discesa, resta da risconoscerne il motivo, il quale è pure enunciato schiettamente dal verso:
Per trarne un spirto del cerchio di Giuda.
La sintassi rigorosa ci addita la strega come soggetto dell'infinito trarre, perché altrimenti avrebbe dovuto dire «Perché io ne traessi uno spirto». Comunque, il senso per noi torna lo stesso, accingendoci noi a dimostrare che Virgilio non fu in mano di quella cruda che un cieco ed intemerato strumento della divina giustizia, per un segreto consiglio di Dio, in tutto dall’accorger nostro scisso.
Però, se non si vuol supporre col Castelvetro e col Biagioli che la maga volesse trarre un’anima di traditore dal fondo dell’Inferno, e che perciò vi mandasse l’anima di Virgilio a tenerne precariamente il posto — dottrina, che, come abbiamo veduto, repugna alla sana teologia e ad ogni ragione di giustizia, — si dovrà ammettere che l’anima di Virgilio sia mandata per trarre, non già un’anima, ma uno di quegli spiriti impuri, che Dio talvolta lascia in balia dei negromanti, ed in questo caso il demone del tradimento e della fellonia, forse Satana stesso, da quel cerchio, che, per figura di prolessi, è detto di Giuda, prima che Giuda vi sia dannato: allo stesso modo Dante fa dire a Virgilio nel Canto I dell’Inferno:
E li parenti miei furon lombardi,
sebbene i Longobardi siano venuti in Italia seicento anni dopo Virgilio.
Già vedemmo per la testimonianza del Landino essere dottrina della Chiesa che ai negromanti non è concesso risuscitare i morti o turbarne in alcun modo lo stato. Ed infatti, nel caso di Samuele, sant’Agostino, Cornelio a Lapide (II) ed il Martini ritengono o che un demone parlasse per lui o che Dio permettesse all'anima di Samuele di parlare prima che la Pitonessa incominciasse i suoi scongiuri. L’ortodossia di Dante adunque esclude che qui si discorra di un’anima e che Dante fingesse posta in balia dell’empia Eritone la sorte di un’anima, fosse pur quella di un traditore. Che se Eritone è indicata come quella «Che richiama l’ombra ai corpi sui», questo Dante lo fa dire a Virgilio e con verosimiglianza del carattere di lui, che poteva crederlo e dirlo come pagano, ma non per fede propria.
Dimostrato cosi che lo Spirto non può essere che un demone, si potrebbe a prima giunta pensare che questo, evocato dalla negromante Eritone per mezzo di Virgilio, fosse uno di quelli, che, secondo la satirica finzione di Dante, vennero in questo mondo a vivificare qualche persona già defunta, a rivestirne il corpo e ad operare e a funzionare per essa, mentre l’anima col carico delle sue colpe aveva anticipatamente fatto traboccare la bilancia della divina giustizia ed era piombata nell’ Inferno «innanzi che Atropos mossa la dea», prima cioè che fosse vòlto tutto il tempo di vita predestinatole. Tale è appunto l’orribile legge imposta a frate Alberico e a ser Branca D'Oria . Questa invenzione non è, dice il Graf, veramente di Dante . Ma questo a noi poco importa; qui preme invece rammentare che questa legge è, secondo Dante, speciale privilegio della Tolomea, dove sono dannati i traditori degli amici.
«Cotal vantaggio ha questa Tolomea» dice con infernale ironia frate Alberico; vantaggio, a cui non partecipano i traditori dei benefattori, che sono quelli del cerchio di Giuda, del quale si discorre.
Esclusa dunque qui l’incarnazione diabolica e ristretto così il caso nostro all’evocazione del Demonio, e più specialmente del demone del tradimento, io mi sono fatto a ricercare nel detto periodo dei cinquantuno anni» corsi dalla morte di Virgilio a quella del Salvatore, qualche solenne fatto storico, qualche grande tratto di fellonia, in cui fosse mai potuta occorrere l’opera del Demonio. A dire il vero la mia attenzione si è da prima fissata sugli scongiuri, che, secondo Tacito, si fecero dai congiunti di Germanico per conoscere da chi e per quali vie fosse stata procurata la morte per misterioso malore a questo grande eroe, sostegno e scudo dell’Impero romano, ed i responsi lasciarono cadere i sospetti su Pisone e su lo stesso Tiberio suo mandante. Ma a Dante era ignoto questo istorico, che fu solo scoperto nel secolo XVI; laonde, per questa esclusione, la mia attenzione dovette fissarsi sopra un altro fatto di quel tempo, del resto assai più solenne, sul massimo dei tradimenti, del quale appunto fu vittima Gesù Cristo per opera di Giuda Iscariote; tradimento, di cui la storia non registrerà mai altro più atroce e per la sua stessa essenza, come ordito contro il massimo dei benefattori, e per le tragiche circostanze che l’accompagnarono; tradimento, che i fedeli credenti possono ritenere l’uomo non essere bastato a compiere da sé stesso, senza il concorso del Diavolo. E ben meritava che in alcuna parte del sacro poema se ne facesse menzione, e qui appunto in questo passo, dove, come dicemmo, si celebra il venerdi anniversario della passione di Cristo, nella quale, secondo i Vangeli, l'Angelo delle tenebre ebbe parte si nera, ed a cui dovevano concorrere, secondo i teologi, il paganesimo ed il giudaesimo, cioè tutta l'umanità.
Senza dire della tentazione del Demonio che Gesù sofferse nei quaranta giorni in cui si appartò nel deserto, rammenteremo i vari passi dei Vangeli, in cui il Signore accenna a Giuda Iscariote, come all’ossesso dal Diavolo. Narra Giovanni, capo VI, 71: «Rispose Gesù loro: Non sono stato io che ho eletto voi dodici: e uno di voi è un diavolo?»
72: «Voleva dire di Giuda Iscariote, figliuolo di Simone; perché questi, che era uno dei dodici, era per tradirlo».
Capo XIII, c. 2: «E fatta la cena (avendo già il Diavolo messo in cuore di Giuda Iscariote che lo tradisse)», ecc. e 27: «E dopo quel boccone entrò dentro di lui Satana». San Luca, capo XXII, 3: «E Satana entrò in Giuda, cognominato Iscariote, uno dei dodici» e 31: «Disse di più il Signore: Simone, Simone, ecco che Satana va in cerca di uno di voi per vagliarvi come si fa del grano».
Se il sagace lettore avrà ancora pazienza di seguirmi, intenderà facilmente il nesso che queste citazioni possono avere colla questione nostra, tostoché si recherà alla mente la reputazione di profeta, di negromante e, per poco che io non dica, di stregone, che Virgilio si ebbe nel medio evo. Questa reputazione come ognuno sa, dinanzi alla immaginazione, cd al fanatismo dei volghi, gli derivava direttamente dalla Ecloga VIII, in cui il pastore Alfesibeo celebra la potenza arcana dei versi e dei filtri nei casi di amore, coi quali appunto Circe riuscì a trasformare in bestie i compagni di Ulisse; — dal libro IV dell’Eneide, nel quale Didone dichiara alla sorella Anna di voler fare, sebbene con animo repugnante, scongiuri ed incantesimi per richiamare l’ingrato Enea: dalla fatale discesa di Enea colla Sibilla agl’ Inferi; ma sopratutto dal principio dell’Ecloga IV.
Che Dante non confondesse il carattere del grande Poeta, del famoso saggio, con quello di mago, che gli veniva attribuito dalla gente grossa del medioevo, è chiaro, né io starò qui a ripetere quanto in proposito ne dissero il prof. Francesco D’Ovidio e il prof. Comparetti. Il primo argomenta della naturale avversione di Virgilio alle arti magiche dalla repugnanza, che egli a Didone attribuisce nell’atto stesso d’invocare i numi d’Averno e di costringerli con incantesimi; e dall’orrore che spira da tutta la descrizione della discesa di Enea ce della Sibilla nel regno della morte.
A questo aggiunge per maggior prova l’irruenza, che Dante gli appropria (Zero, canto XXV, 27 e segg.) nell'inveire contro gli indovini e gli impostori. Il secondo poi dice che la leggenda medioevale, per quanto barbara, non fece mai di Virgilio un indovino, e, anche facendone un mago, non gli attribuì né magiche frodi, né malie, né fattucchierie . Da questi due solenni critici non mi pare neppure dissenta molto il Finzi, cui pure venne attribuito contrario avviso.
Infatti, se il Comparetti dice: «Virgilio apparisce nella Divina Commedia molto più recisamente cristiano di quello apparisca nella tradizione del medioevo», anche il Finzi conclude: «Noi ammettiamo che tutti i modi straordinarî e portentosi, onde Virgilio aiuta Dante, gli vengono appunto consentiti dalla virtù divina. Ma ciò non toglie che a far operare Virgilio: cotesti portenti, Dante non fosse mosso dalla tradizione, che appunto li dava come cosa propria ed abituale a lui; ciò non toglie insomma che, appunto per la taumaturgia di Virgilio, il Poeta si sentisse abilitato ad attribuirgli azioni taumaturgiche». Di poco differiscono dunque fra loro questi scrittori, ed in questo si accordano che in Dante Virgilio prende un carattere religioso e benefico, contrario affatto a quello del profano negromante e dello stregone: più somigliante piuttosto a quello di un cultore della magia bianca, secondo la distinzione dei neoplatonici Alessandrini. Ciò posto, mi sia lecito, con tutto il riserbo e l’ossequio all'autorità di si valenti critici, concordare le loro opinioni concludendo che a Dante erano certo note anche le più strane fiabe della leggenda virgiliana, ma che egli, pur sprezzandole, si compiacque di dar credito a quelle fra esse che facevano di Virgilio un grande maestro di divinità, e di completarle, dando loro quell’ unità che è condizione essenziale, specie per Dante, di arte perfetta. Arte e fede poi in Dante si accordano in sublime armonia.
Gli piacque pertanto affidare a Virgilio una grande missione religiosa e civile, in tre momenti distinta. Nel primo momento Dante riconobbe in lui il Vate, il continuatore della voce della Sibilla e dei Profeti, il primo banditore della buona novella, della venuta di Cristo fra le genti idolatre, della legge, che san Paolo doveva portare tanto oltre i confini del moseismo: nel secondo momento forse lo trovò degno, quale campione del paganesimo, di farlo concorrere, ma inconsapevole, insieme col popolo ebraico, nella passione di Cristo e nel suo arcano compimento: nel terzo momento lo fa, quale filosofo spiritualista e maestro in divinità, duce e maestro a dimostrare il perfetto accordo della rivelazione e della morale cristiana colla ragione, simboleggiate nella Commedia in Virgilio e Beatrice.
Chi, anche mediocremente colto, ignora i fatidici versi dell’Ecloga IV? Ecco il Vate:
Ultima Cumaci venit jam carminis actas;
magnus ab integro saeclorum nascitur ordo,
jam redit et Virgo, redeunt saturnia regna;
jam nova progenies coelo demittitur alto
Questi e i seguenti versi fino al 25°, colla loro ineffabile bellezza e nel loro mirabile accordo, sia pure accidentale, colla voce dei profeti c coll’aspettazione di un Messia, toccheranno sempre il cuore, anche dei più sccttici, purché informato a poesia; e Dante appunto nel Canto XXII del Purgatorio li fa suonare sulle labbra di Stazio con tanto affetto:
Facesti come quei che va di notte
che porta il lume innanzi e sé non giova,
ma dopo sé fa le persone dotte;
quando dicesti secol si rinnova,
torna giustizia e primo tempo umano
e progenie discende dal ciel nova.
per te poeta fui, per te cristiano.
Qui Dante non intese solo di mettere sulle labbra di Stazio una testimonianza di individuale gratitudine e venerazione verso Virgilio, ma con tali parole e con tale esempio volle anche far comprendere al mondo quanto sia stata provvidenziale ed efficace l’opera di Virgilio ad apparecchiare i pagani al cristianesimo, e a farlo da essi più facilmente accogliere; officio che doveva poi essere trasmesso, quasi in eredità, da Virgilio a Dante, perché questi fosse continuatore di un cristiano apostolato nel mondo, ancora paganizzante e guasto (la selva selvaggia) dei tempi suoi e dei seguenti, non esclusi davvero i nostri.
Il prof. d’Ovidio crede che allo spirito colto di Dante dovesse parere soverchia ingenuità il valore di profezia attribuito ai citati versi virgiliani, ed anzi gli presta un po’ del suo indulgente sorriso pel volgo dei credenti e si compiace che il prof. Comparetti abbia per una lepidezza la figura di Virgilio, profeta, paragonata a chi porta la lanterna. Con questo giudizio però mi sembra che l'illustre Professore adombri un poco la lealtà e l’interezza del carattere di Dante, sempre aperto e sempre ispirato a convincimenti profondi, e qui, come altrove, al misticismo di sant'Agostino, il quale i detti versi appunto riconosceva per profetici, sebbene san Girolamo fosse di contiaria sentenza. Si aggiunga che questa profezia doveva acquistare non poco valore dall’autorità dell’imperatore Costantino, il quale la proclamò in un Concilio e la dichiarò santa nella Oratio ad sanctoruni coctumn.
Non trovo poi nel Virgilio del Comparetti, citato dal prof. D’Ovidio, (almeno nella 2° edizione), neppure adombrato in questo proposito il dubbio sulla sincerità della fede di Dante in questa profezia.
Il Comparetti cosi semplicemente si esprime: «In questo luogo del Poema, con artificio profondo e delicatissimo e con grande opportunità, viene posta innanzi per la prima volta l’idea medioevale della profezia relativa a Cristo contenuta nella 4° Ecloga», né sull’ intenzione del Poeta aggiunge verbo.
Ma affrettiamoci a concludere che Virgilio, sebbene secondo il grido popolare fosse capace di trarre da una bottiglia il diavolo e di rinserrarvelo a sua posta, non era e non poteva nella mente di Dante essere un mago, né un magoide (come quasi concederebbe il prof. D’Ovidio), un autore cioè di capricciosi portenti o di vaticini per diabolica assistenza, ché sarebbe stata cosa contraria a quell’ufficio provvidenziale ed arcano, che da Dio nel corso degli eventi a questo grande uomo, tanto diverso dagli altri pagani, Dante credette affidato. Vediamo piuttosto in lui prima il vate della redenzione fra i Gentili, quale si dimostra nell’Ecloga IV, e poi (per quanto potrò provare) il ministro di arcana giustizia, quando Dio concedette a lui, come a Tiberio:
Gloria di far vendetta alla sua ira.
cioè di essere anche lui strumento della passione di Cristo ce della giustizia, che doveva riconciliare l’uomo con Dio; in fine il conciliatore della fede colla ragione.
Ed eccoci appunto al nocciolo della questione nostra, nella quale tenterò (non senza però qualche trepidazione pel mio ardimento) sollevare il velo dei misteriosi versi, che forse coperse per sei secoli una dottrina ed una delle più geniali invenzioni poetiche di Dante.
La Repubblica romana cede il posto all'Impero; la ragione alla forza; la giustizia all’arbitrio, ed il mondo sta per toccare il fondo della sua morale rovina.
È giunto il termine fisso, in cui l'eterno consiglio d’ Iddio salverà l’uomo per opera di un Redentore, che Virgilio ha già annunziato. Bisogna però che per un momento sia dato il mondo in preda alla Podestà delle tenebre; che per una ineluttabile legge di giustizia patisca la suprema Possanza e che il Salvatore sia tradito; così l’uomo tocca il fondo dell’abisso morale, simboleggiato appunto nello eterno ghiaccio del cerchio di Giuda.
A questo misterioso atto di perdizione e di giustizia a me sembra Dante abbia inteso associare l’opera di Virgilio, del grande maestro in divinità, che della conoscenza di Dio, per singolare privilegio, più d'ogni altro era assetato.
Siamo vicini al sacrifizio del Golgota; uno dei discepoli cederà al Consiglio del Demonio e tradirà il divino Maestro. A trarre questo Demonio, questo genio di tradimento, scende nell'abisso l’anima di Virgilio, inconscia però del mistero, che da lei si compie. La sua discesa non è quindi capriccio di negromante; è la stessa volontà di Dio, che a Virgilio si impone: ma come e perché? Qui fa d’uopo integrare in parte colla storia ed in parte colI’ immaginazione il poetico episodio, che Dante ha creato, senza offendere né la legge della verosimiglianza, né quella di una schietta ortodossia.
Che se egli ci ha posto dinnanzi anche qui, come altrove, uno dei suoi profondi enigmi da provocare la curiosità e l’impazienza del lettore e da tenerlo in ponte, chi oserà muovergliene rimprovero? In questo caso possiamo ricorrere alla sagace osservazione che il prof. d’Ovidio fa a proposito degl’indovini del Canto XX dell’Inferno: «Quel contrasto, così tagliente, è sicuramente un uncino, col quale egli ha voluto ghermire il nostro pensiero e volgerlo a scrutare tutto quel che si asconde sotto il velame dei suoi versi. Oltre la inclinazione propria di tutti i grandi poeti a voler far capire a volo ed intuire anche ciò che non esprimono, si aggiungeva in questo, che qui non posso chiamare il mago della poesia, l’abitudine al secondo fine, alla seconda vista, che gli veniva dall’inveterato uso dell’allegoria»
A questa, che possiamo chiamare legge della sua arte poetica, si doveva aggiungere in lui anche un prudente consiglio di circospezione. Sebbene tranquillo della sua perfetta ortodossia, pure più di una volta lo sfortunato Poeta si sarà guardato attorno ed avrà visto o creduto vedere il viso arcigno di qualche ignorante e fanatico inquisitore, che poteva rammentargli gli «umani corpi già veduti accesi», ragione questa più che sufficiente per farlo procedere involuto e misterioso. Ma ora che gli inquisitori, la Dio mercé, hanno le unghie spuntate, possiamo continuare l’opera di integrazione e senza che al divino Poeta possa apporsi taccia di empietà pel suo pocetico ardimento, perché egli ai suoi censori potrebbe rispondere colla Bibbia: Disciplina sapientiae cui revelata est, et manifestata? et multiplicationem ingressus illius quis intellexit?
Ciò posto, nessuno vorrà scandalizzarsi che Dante abbia messo in iscena la maliarda Eritone, la vera strega, intorno alla quale la tetra fantasia di Lucano ha raccolto cose si nere ed atroci. Mossa da istinto feroce e da profonda malvagità, non da una nobile causa, come la Sibilla di Virgilio, costei se la intendeva colle potenze infernali, turbava, secondo che i gentili potevano ammettere, la pace dei defunti, e s'insozzava dei loro cadaveri, raccogliendoli sui campi di battaglia, o spiccandoli dalle forche e dalle crocî, per farne nefando governo ed esercitarvi su le arti nere.
laqueum nodosque nocentes
ore suo rupit: pendentia corpora carpsit,
abrasitque cruces percussaque viscera nimbis
vulsit et incoctas admisso sole medullas.
Quell’aggirarsi fra le croci non potrebbe aver colpito l’immaginazione di Dante, ed avergli suggerito l’idea di associare anche l’empia opera della famosa strega alla passione di Cristo?
Ma a bene intendere la prima radice di questo episodio ed il pensiero che mi guida nel ricostruirlo, il lettore deve rammentare tutto l'interesse che gli Scribi, i Farisei ed i Dottori della vecchia legge, sepolcri imbiancati di patriottismo e di virtù, avevano di perdere il Messia, di staccarlo dall’affetto delle turbe c di procurarne in qualunque modo la morte.
Allora non si troverà certo inverisimile che costoro, per incarnare l’infernale disegno, esaurito ogni umano espediente, ricorressero, o almeno potessero ricorrere, a qualche divinazione di negromante e ad opera di negra magia per avere alleato il Demonio; nel che, senza punto perdere della loro imputabilità, venivano ad essere strumento della divina giustizia. Queste pratiche infernali non dovevano essere state mai rare fra gli Ebrei, giacché la legge altamente le condannava e le proibiva espressamente:
«Non farete incisioni sulla vostra carne a causa di un morto; non fare incisioni e segni sopra di voi» e «Non andate dietro i maghi e non interrogate gli indovini, perché egli vi corromperebbero».
«Né siavi tra voi chi per purificare il figliuolo o la figliuola li faccia passare pel foco: o chi interroghi gl’indovini o dia retta ai sogni e agli auguri, né chi faccia uso dei malefizi».
11: «Né chi faccia uso dei sortilegi, né chi consulti i pitonici o gli astrologhi: né cerchi di sapere dai morti la verità» 12: «Imperocché il Signore ha in abbominio tutte queste cose, e a causa di queste scelleraggini egli stermiminerà quelle genti nel tuo ingresso (nella Terra promessa)».
Ma, siccome nitimur in vetitum (special mente i ministri della legge), così è da credere che anche allora le leggi non avessero miglior fortuna delle gride spagnole, per non dire delle leggi nostre.
Infatti abbiamo già detto che facesse lo stesso re Saulle per non avere più bisogno di ripeterlo. Ma se tanto avveniva nei remoti tempi, quanto più gli Ebrei dovevano in queste pratiche essere ingolfati dall'età macedonica in poi, in cui erano venuti in contatto coi gentili, specie coi Greci, e l'elemento ellenico aveva compenetrato tutti i loro costumi!
Poteva adunque facilmente Dante immaginare che quei fanatici di Farisei, nel loro cieco furore (cosi permettendolo Iddio) ricorressero ad una Eritone qualunque, ma più specialmente (come ci viene significato dall’indicativo quella) alla Eritone della Tessaglia tristamente famosa.
Né si obbietti la cronologia. Dalla battaglia di Farsalo alla morte di Gesù corrono ottantuna anni: se dunque la Eritone di Lucano, quando fu consultata da Sesto Pompeo, fosse stata in sui venti, al tempo di cui parliamo sarebbe stata centenaria appena: forse che la negromanzia non si può esercitare a diciotto, a venti anni, come a cento? Io non lo so, perché di certe cose non me ne intendo; questo però ritengo, che Dante, valendosi un po’ della libertà concessa ai poeti, avrà lasciato correre in questa piccola differenza di date, né avrà avuto voglia di sofisticare e di guardarla così pel sottile, come potrebbe fare un critico pedante.
«Ma che pensare — direte voi — di questo Satana, che, pur essendo con Dio in eterna guerra, siccome le sacre e le profane carte insegnano, e tutti i poeti, specialmente cristiani, cantano da Dante a W. Goethe, ha bisogno di essere tratto in questa ora suprema dall’Inferno? Non cera questa l'ora del suo impero?».
Questo è vero, ma è vero altresì che tale trionfo, comeché momentaneo, non poteva avvenire senza permissione d’ Iddio. Non è quindi irragionevole che nunzio di questo divino decreto fosse mandato a Satana quel Vate, che già nei suoi eroici versi aveva celebrata l’apoteosi dell’imperatore Augusto, cioè l'apoteosi dell’uomo: all’apoteosi dell’uomo, dice Vito Fornari, che segna il colmo del regno di Satana, doveva succedere il deicidio, perché la spirituale palingenesi fosse compiuta. Così l’opera di Virgilio si vedrebbe teologicamente associata anche all’ ultima parte della vita terrena di Gesù Cristo. Comunque sia, la strega Eritone, che pur ebbe sempre sul Diavolo tanta signoria, sembra non riesca questa volta colle sole sue forze, sebbene grandissime tanto da poter vuotare l’Averno, ad evocarlo, giacché Dante vuole che essa ricorra per aiuto a Virgilio, e questi (concedendo Iddio a lui quello che non avrebbe conceduto ad una megèra carica di delitti) trae fuori Satana, e così si compie l’eterno consiglio dell’Onnipotente.
A chi poi, dopo tutto quello che ho detto apparisse ancora inverosimile e repugnante il concorso, in fatto si diabolico e tenebroso, dell’anima candida di Virgilio, tanto gentile e pietosa, ripeterei che Virgilio era allora, come nell’Ecloga IV, strumento incosciente, e che In quel triste momento, in cui tutti abbandonavano Gesù e tutto a lui si ribellava, ben poteva tacere la pietà anche nel petto di un idolatra, mentre gli si levavano contro due dei suoi Stessi discepoli, l’uno dei quali lo tradiva e l’altro, il Principe degli apostoli, lo rinnegava!
Tuttavia non resta ancor provato che i Farisei e gli altri del Sinedrio ricorressero proprio in questa occasione ai sortilegi, del che nei Vangeli non avvi neppure un cenno, e molto meno che per questo si valessero di una Strega. Io potrei rispondere con Orazio che - pictoribus atque poetis aliquid audendi semper fuit acqua potestas — ma molto più a Dante, che evidentemente mirava a mostrare sempre più stretti i vincoli di quella duplice fonte di sapienza che (anche secondo il Gioberti) scaturisce dal rivo senmitico e dal rivo giapetico, i quali, da Dio partiti, nella Commedia s'incontrano e quasi si confondono in mirabile ed indissolubile armonia, per quanto il rigido razionalismo degli scettici si sforzi di dissociarli. Né si possono chiedere a me prove storiche o pergamene, vanto di ispidi critici, essendo mio unico dovere il raggiungere il maggior grado possibile di probabilità nella giusta interpretazione del pensiero del Poeta. Devo quindi fare a fidanza, per essere inteso (non osando dire approvato), colla genialità artistica del lettore e colla sua intuizione del momento storico e mistico dal Poeta ritratto (V. la nota infine).
Giunto così alla fine di questo mio discorso, sento il bisogno di chiedermi: avrò almeno toccati i limiti di un’accettabile congettura? To non lo so. Di questo però sono certo che Spiegazione veruna di questo Spirto per quanto, ingegnosa, potrà mai assurgere al vanto di dimostrazione. Comunque, io mi consolo pensando che
Forse diretro a me con miglior voci
Si pregherà, perché Cirra risponda.
Se il prof. Pascoli fosse andato fino al fondo di quella mistica via, per la quale, interpretando la Minerva oscura, tanto giustamente si era messo, e sulla quale nei suoi tre volumi talvolta ritorna; se la sua attenzione si fosse fermata più religiosamente c con spirito tutto cristiano ed evangelico su quella sforza di scongiuri e di luoghi fondi e bi, non avrebbe potuto riconoscere col duca Michelangelo Cacetani di Sermoneta nel Messo del Cielo, Enea, figura sempre pagana, per quanto eroica.
Per intendere sincero il pensiero di Dante in questo Canto, là specialmente dove riesce più oscuro, bisogna restare fermi nel convincimento che egli vuole col suo poema farsi novello banditore della dottrina, e religione di Cristo e che da questa, pur restando fedele ad ogni insegnamento della Chiesa, prende le mosse e con questa muove il piede sino alla fine della Commedia. Direi quasi che neppure questo convincimento basti, se l'interprete di Dante non ha la sua stessa coscienza ed il suo stesso fervore religioso. In quali errori infatti non sono incappati il Foscolo ed il Rossetti, per non dire di tanti altri, che in Dante sognarono un riformatore? Io non voglio con questo entrare sull’esame della religiosità del Pascoli (Dio me ne guardi!), ma io miro a stabilire, come canone di critica dantesca, che da questa debba essere bandito, specie in questo Canto, ogni pensiero menomamente laico e profano. Se è gioia ineffabile, come dice il Pascoli, penetrare nella mente di Dante, lo è del pari il sentire cristianamente con lui. Dante non si può sdoppiare; non basta possedere la sua scienza; ci vuole la sua stessa coscienza per comprenderlo intero, e la sua fede, altrimenti si corre pericolo di smarrirsi.
Se si potesse oggi ancor accogliere l’interpretazione proposta dal conte Giovanni Marchetti e da altri fervidi patrioti e sognatori della prima metà del secolo XIX, i quali alla Divine Commedia e ai suoi simboli attribuivano un significato esclusivamente e grettamente politico, si potrebbe ritenere che Dante nella turrita città di Dite avesse voluto indicare la sua Firenze, e nei tracotanti Demoni la stizza dei Neri, impotenti davanti all’ Imperatore, i quali osavano contrastare il passo ad Errico VII: solo in questa interpretazione potrebbe entrare l’eroica figura di Enea che, come fondatore dell’ Impero di Roma, ne viene a restaurare la giustizia e a farne rispettare le leggi contro le fazioni ribelli. Ma chi oserà oggi, in tanta luce di scienza dantesca, tornare a restringere l’intendimento del Poeta in così angusti confini? Chi non comprende invece il mistero altamente morale e religioso, che si chiude in questo ingresso della città di Dite specialmente pel ricordo della discesa di Cristo, della quale il viaggio di Dante è simbolo e commemorazione? Ma, se così è, come lo stesso Pascoli sembra ammettere, come potremo vedere Enea nella figura del Messo celeste?
Si pretende che Enea qui stia a rappresentare la pietà, la forza e la giustizia contro la violenza, la frode e l'ingiustizia dei demoni, perché Virgilio dà a questo eroe tali virtù e Dante nel Convivio glie le conferma. Ma il Convivio è discorso puramente razionale e filosofico, mentre il mistico viaggio ha significato essenzialmente teologico ed è voluto ed assistito dalla divina grazia, la Donna gentile. I demonî non possono essere confusi e vinti se non da chi della grazia è rivestito, e questa era rifulsa in tanti eroi della Chiesa, che al tempo di Dante non occorreva più ricorrere alle virtù puramente umane, per quanto grandi, di un eroe idolatra: in tale caso sarebbe bastato il solo Virgilio. Se fu ad Enea concesso una volta il privilegio di un infernale discesa per la fondazione dell’umano impero di Roma, quando non si ammendava per pregar difetto,
Perché il priego da Dio era disgiunto
non è più necessario ora, nell’età della grazia, ricorrere a lui per far trionfare la giustizia.
Quello che il prof. Pascoli dice dell’ira santa, della verghetta, del discendere l’erta, del rimuovere l’aer grasso e dello strepito, per cui fuggono i dannati, come le rane, innanzi alla mimica biscia, può accordarsi, anche meglio che con Enea, con altri, assistiti dallo Spirito santo.
Non dico però con un angelo, né coll’arcangelo san Michele, che già colla sua spada aveva fulminati i demoni: il suo fulgore celestiale sarebbe bastato a diradare le tenebre, e a farlo riconoscere per una celeste intelligenza. Questa ipotesi poi resta esclusa dalla espressione: fè sembiante d'uomo. La figura dell’angiolo, che per la prima volta appare al Poeta nel Purgatorio, è tutta immersa in un fulgore di luce: posta in sembianza umana avrebbe perduto assai di dignità e di bellezza. Né di minor valore è l’argomento che lo stesso duca di Sermoneta trae dall’esplicito ammonimento di Virgilio «Omai vedrai di siffatti ufficiali», con cui ci avverte che gli angeli cominciano solo in Purgatorio ad apparire.
Venuto però così al punto di rimuovere il velo, che a me sembra celi ancora la figura del Messo, io resto in una certa perplessità, perché, mentre non posso scorgervi Enea né la figura luminosa di un angelo, confesso che io non so ancòra se debba riconoscervi la maestosa e minacciosa figura di Mosé. Questi fu già preceduto dalle procelle; passò il Mar Rosso colle piante asciutte, vi travolse l’esercito tracotante degli Egiziani; si cacciò innanzi le turbe degli Ebrei idolatri e strinse la verga operatrice di tanti portenti per aprirsi la via alla terra promessa (simbolicamente il Paradiso cercato da Dante).
Ma, se questi argomenti sono si stringenti da poterci quasi determinare ad accogliere quale Messo celeste la grande figura di Mosé, ragioni ancora maggiori mi sembrano concorrere a favore della figura di san Pietro. Questi camminò sul lago di Tiberiade, e Beatrice su nel Paradiso glie ne dà vanto:
... O luce eterna del gran viro,
a cui nostro Signor lasciò le chiavi,
ch’ei portò giù, di questo gaudio miro,
tenta costui dei punti lievi e gravi,
come ti piace, intorno della fede,
per la qual tu su per lo mare andavi.
Dunque per Dante è un notevole carattere di san Pietro e del divino favore che lo privilegiava, questo suo passeggiare sulle acque.
Un'altra nota assai rilevante del carattere di san Pietro è il suo sdegno, che Dante gli mantiene fin su nella serenità del Paradiso, e del quale in terra ebbe aspramente a rimproverarlo anche il mite Gesù, quando il focoso Discepolo trascese a tagliare l'orecchio a Malco. Bene dunque può convenire a san Pietro quel che del Messo celeste è detto: «Ahi quanto mi parea pien di disdegno»! che è appunto la santa ira cercata dal Pascoli contro i demoni, primi autori di tutto il male del mondo, ma più specialmente della Chiesa, alle cure di Pietro affidata; onde questi, il cui principale ufficio è di custodire le porte della salute, aperta con una verghetta la simbolica porta, che contro lui non poteva prevalere, passa innanzi ai due poeti, assorto nel doloroso pensiero delle procellose vicende della Chiesa di Cristo,
com’uom, cui altra cura stringa e morda,
che quella di colui, che gli è davante,
mentre fra sé pare che vada dicendo:
O navicella mia com’ mal se’ carca!
Doveva infatti allora parere a Dante che sul clero l’Invido pigliasse impero sempre maggiore, destando in esso l'istinto d’ogni cupidigia, la lupa che questi aveva già tratto dall'Inferno a danno dell’uomo. Eccovi dunque l’ira, senza la quale, secondo l’ammonimento di Virgilio i Poeti non sarebbero potuti penetrare nella città di Dite. La verghetta poi mostra la facilità, con cui si può confondere la tracotanza dei demonî da chi è rivestito di Spirito santo, assai meglio che colle chiavi, le quali includono in sé l’idea di un certo sforzo, quale si conviene a chi si vuol meritare colla penitenza la grazia di entrare in Paradiso; e del significato simbolico della parola verga abbiamo già accennato in nota a pag. 118. E lo Spirito santo anche qui comparisce appunto come
Un fracasso d’un suon pien di spavento,
per cui tremavan ambedue le sponde,
non altrimenti fatto che d’un vento,
impetuoso per gli avversi ardori;
tale quale lo troviamo descritto nella sua discesa negli Atti degli Apostoli, e quale si addicea ad uno spirito celeste, a san Pietro, ripieno del Paracleto e ministro della divina giustizia. Che, se l’immagine della mitica biscia, a cui l’Apostolo verrebbe paragonato, sembrasse poco dicevole a raffigurare un Santo, io vi potrei rammentare che Dante, per certa medioevale durezza, non si fa scrupolo di paragonare le sante anime del Purgatorio, chiedenti i suffragi, ai giocatori e agli scrocconi di una bisca.
Se poi sembrasse poco opportuno che san Pietro qui rammenti la mitologica sconfitta del Cerbero, nessuno vorrà negare che questa reminiscenza anche sulle labbra di san Pietro, giova a raccogliere in una filosofica sintesi, fuori del tempo e dello spazio, la notizia delle precedenti discese di Ercole, di Teseo, di Piritoo, di Orfeo, di Ulisse, di Enea e di altri, discese che simboleggiano l’eterna lotta contro il male e contro la morte, e preannunziano in certo modo fra i pagani la discesa all’ inferno del Messia. E così dovettero intendere questi miti sant'Agostino, alcuni Alessandrini, Dante cd altri, che vi videro una preparazione alle cristiane dottrine, non escluso forse, come già dicemmo, lo stesso W. Goethe.
Ma ultimo e più grave argomento a riconoscere san Pietro nella figura del celeste Messo a me sembra l’espressione stessa del Messia, quando costituì il suo prediletto discepolo Principe della Chiesa, dicendogli: «Tu es Petrus et super hanc petram edificabo Ecclesiam meam et portae Inferi non praevalebunta duersus eam». Eccoci appunto all’avverarsi di questa predizione e di questo precetto; contro il quale pare si levi, per smentirlo, la superbia del demonio Pluto, che grida sfacciatamente:
Pape Satàn, pape Satàn, aleppe.
parole, che significherebbero:
La porta dell’Inferno, la porta dell'Inferno prevalse.
quasi per vanto che G. Cristo non sia penetrato dentro la città di Dite. Ma, a rintuzzare la tracotanza dei demonî ed a confermare la sentenza del divino Maestro, accorre il Principe degli Apostoli che apre la via dell’Apostolo novello.
Con quest'ordine di idee, che sono quelle di un fervente cristiano, come era Dante, mi pare sia più facile sollevare almeno un lembo del velo che avvolge tanto lo Spirito del cerchio di Giuda, quanto il Messo celeste, ed a cui accenna il Poeta dicendoci:
O voi, che avete gl’intelletti sani,
mirate la dottrina che si asconde
sotto il velame delli versi strani.
Macerata, giugno 1907