Dati bibliografici
Autore: Lorenzo Filomusi Guelfi
Tratto da: Giornale Dantesco
Numero: XVIII
Anno: 1910
Pagine: 124-126
L’avvertimento al lettore,
O voi ch’avete gl’intelletti sani,
mirate la dottrina che s’asconde
sotto il velame delli versi strani,
si riferisce a ciò che precede, vale a dire all’episodio delle Furie, ove s’ascondono e il simbolo delle Furie e quel di Medusa; o si riferisce a ciò che segue, all'episodio del messo celeste? Per alcuni si riferisce a quel che segue; perché, dicono, è costume di Dante far precedere, non seguire, siffatti avvertimenti; e citano Purg., VII, 19 e segg.; IX, 70 e segg.; Parad., I, 1 e segg. ecc. Per altri, l’avvertimento si riferisce a quel che precede, sì perché «il senso della terzina non ha nulla che fare coi versi che seguono,
E già venìa su per le torbid’onde
un fracasso ecc.,
dove quelle congiunzione prescinde dall’avvertimento anzidetto, quasi esso fosse in parentesi, e ripiglia il filo della narrazione indipendente da quello»; sì perché «non è verosimile che il Poeta parli delli versi strani, prima d’aver recato tali versi». Infine, c’è chi riferisce l’avvertimento a tutto il racconto, cioè all’episodio delle Furie e di Medusa, non meno che a quello del messo celeste; i quali episodii sarebbero legati l’uno con l’altro da un’interpretazione allegorica unica, sulla base del simbolo delle mala coscienza, pe le Furi; del dubbio pietrificante, per Medusa; dell’autorità imperiale, per Virgili; della divina illuminazione, per il messo del cielo.
In quanto alla prima opinione, non mi par d’alcun peso l’argomento, che Dante abbia altre volte fatto precedono, non seguire al racconto l’avvertimento: la varietà non è l’ultimo de’ pregi dell’arte dantesca; e d’altra parte, sarebbe pedanteria bell’ e buona voler precisare, quando un novellatore debba far precedere il suo racconto dall’avvertimento al lettore, di ben porre attenzione a ciò che si sta per narrare; quando farlo seguire dall’ammonizione, che la narrazione fatta va ben ponderata. In quanto alla terza opinione, essa tende a conciliare le due opinioni opposte; e questa specie d’eclettismo, in materia di passi controversi, non suole, d’ordinario, risolvere alcuna quistione; ma, oltracciò, essa si fonda sopra interpetrazioni che io non credo accettabili; e cadrebbe, a volerla fondare su quelle che a me sembrano le vere. Ma anche prescindendo da ciò, dovrebbe vedere ognuno, dallo stesso senso letterale de’ due episodii, che quel delle Furie non ha alcun legame con quello del messo celeste: l’uno, con l’aiuto dato da Virgilio a Dante, ben chiudendogli gli occhi, affinché non vegga la testa di Medusa, ha fine; né sarebbe più il caso di tornarci più sopra, ché la minaccia delle Furie è sventata: l’altro si riferisce esclusivamente alla resistenza dei più di mille demoni alla porta del sesto cerchio; e comincia con l’avanzarsi del vento, precursore del messo miracoloso, per finire con l’entrata de’ due poeti nella città di Dite. Né basta: lo stesso luogo dell’avvertimento dice che l’un episodio non si lega con l’altro; poiché potrà essere indifferente far precedere o seguire al racconto un avvertimento di quel genere; ma sarebbe strano collocarlo nel bel mezzo del racconto, perché si riferisse, non già alla parte che precede o a quella che segue, ma tanto all’una, quanto all’altra parte del racconto stesso.
Infine, e ciò vale anche contro la prima opinione, versi strani, cioè straordinari, singolari, per ciò ch’essi contengono, dovrebbero essere così quelli dell’episodio delle Furie, come quelli del messo celeste: se sieno strani quelli del primo episodio, vedremo tra poco: che tali non sieno quelli del secondo, a me pare evidente. In esso non si parla che d’un aiuto miracoloso sceso a Dante dal cielo: or quest’aiuto miracoloso non è il primo, ché già miracolosamente ha Dante passato l’Acheronte; né di questo primo aiuto è maggiore, se, per esso, Dante non cade tramortito, come pur cadde per l’altro: possiam dunque dire che nulla di veramente straordinario o singolare è nell’ episodio del messo celeste. E possiamo anche aggiungere che, se per il primo aiuto miracoloso, il Poeta non trovò necessario richiamar l’attenzione del lettore, tanto meno dovea trovarlo necessario per il secondo.
Sgombrato il terreno della prima e della terza opinione, non resta che la seconda, quella, cioè, per la quale l’avvertimento si riferisce a ciò che precede, vale a dire all’ episodio delle Furie, con la relativa invocazione di Medusa. È bene però vedere, se, oltre che per esclusione, e oltre che per gli argomenti addotti dal Fornaciari, — in verità, un po’ deboli, — anche per altri argomenti essa sia preferibile.
Possono dirsi strani i versi che formano l’episodio delle Furie? Sì, certamente; che davvero straordinario, singolare è ciò che Dante racconta in quest’ episodio. Qui non si tratta di vincere la resistenza d’un solo personaggio mitologico, come per ciascuno de’ cerchi superiori; ma di tre: qui non si tratta di Caronte o di Minosse, che subito s'acquetano alle sole parole di Virgilio,
vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole, e più non dimandare;
qui non si tratta di Cerbero, che si doma con una manata di terra; non di Pluto, che cade giù, al solo udire che «vuolsi così nell’alto» ; non di Flegias, a cui non occorre nemmen questo, perché s’accorga d’essersi ingannato, e accolga nella sua barca i due Poeti: qui si tratta d’ un'apparizione così terrificante, d’una così grave minaccia, che Virgilio (l'intelletto) neppur tenta opporle i soliti argomenti: qui bisogna darsi da fare; qui è necessario ch’ ei rechi un pronto, immediato aiuto al suo compagno. Ciò significa che il nemico è più forte di quanti se ne sono incontrati finora: infatti, altro è combattere contro una sola causa di peccato, altro è combattere contro tutt'e tre; vale a dire, altro è resistere a ciascuna delle passioni disordinate, singolarmente prese; altro è resistere all’eresia, che da tutte le cause di peccato può avere origine. E, naturalmente, significa pure che il pericolo è più grave: infatti, nessuno de’ ministri de’ cerchi superiori ha fatto a Dante la minaccia di disarmarlo, di fargli perdere, cioè, quella grazia, per la quale, esclusivamente, egli faceva il suo viaggio ultramondano; né una minaccia simile gli si farà da alcuno dei ministri de’ cerchi inferiori. Non è dunque tutto ciò veramente straordinario, singolare?
E la dottrina, che s’asconde nell’ episodio delle Furie, è veramente da mirare, cioè da ammirare? Senza dubbio. Le Furie simboleggiano le cause di tutti i peccati, ridotte alla sommaria classificazione di san Giovanni, concupiscentia carnis, concupiscentia oculorum e superbia vitae: ora, anche prescindendo dalla profonda riverenza di Dante per gli «scrittor dello Spirito Santo», in generale; e, in ispecie, per colui che fu d’in su la croce eletto al grand’ufficio di figlio di Maria; per l’«aguglia di Cristo», il cui «alto preconio» avea contribuito a volgere a Dio l’amore di Dante; anche prescindendo da tutto questo, certo è mirabile quella triplice classificazione che così sommariamente e pur così pienamente riassume tutte le cause di peccato. Ancòra, se si guardi che le Furie, oltre a essere per Dante l'occasione a dissertare sulle cause di tutti i peccati, son pure i genii del luogo, in quanto simboli di questa special natura del peccato d’ eresia, che esso da tutte le cause di peccato può scaturire; anche questa dottrina è mirabile ; anzi è tanto più mirabile, in quanto che ci dà la ragione di quel trovarsi dell’eresia nel sesto cerchio, come in una zona intermedia, tra i peccati di passione e d’ignoranza, da una parte, e quelli di malizia, dall’altra: il che, bisogna riconoscerlo, non si riescirebbe a spiegare altrimenti. Infine, se sì guardi alla dottrina che s’asconde nel simbolo di Medusa, anche qui troviamo da mirare. Medusa simboleggia l’obduratio, nel senso di subtractio gratiae; e più precisamente, l'ostacolo, che si frappone alla grazia: ma l’ ostacolo non basta per la sottrazione della grazia: «causa subtractionis est non solum ille qui ponit obstaculum, sed etiam Deus qui suo judicio gratiam non apponit»; occorre, insomma, che Dio, nel suo libero giudizio, nella sua sapienza, neghi al peccatore la grazia di ravvedersi; ch’ei non voglia usargli misericordia, rammollendone il cuore: «Moysi enim dicit: Miserebor cujus misereor; et misericordiam praestabo cujus miserebor». In breve, la dottrina dell’ obduratio si riconnette con quella della predestinazione: quale dottrina più mirabile di questa?
O predestinazion, quanto remota
è la radice tua da quegli aspetti
che la prima cagion non veggion tota!