Dati bibliografici
Autore: Pietro Cagni
Tratto da: Le forme e la storia. Lecturae Dantis. Dante oggi e letture dell'Inferno
Numero: IX
Anno: 2016
Pagine: 229-249
È bene precisare sin dall’inizio che un’inchiesta sull’identità del messaggero celeste di Inferno IX non risponde a un interesse meramente nominalistico. I problemi posti al lettore da questa pagina della Commedia si radicano, infatti, nella più ampia questione del funzionamento dell’allegoria nel poema dantesco: è il poeta stesso, attraverso il ben noto appello ai lettori (Inf., IX, 61-63), a collegare l’episodio alla dialettica tra senso e sovrasenso presente nell’opera. Siamo convinti, pertanto, che sia necessario considerare i modi di significazione della Commedia per poter rispondere esaurientemente all’enigma di una misteriosa identità.
Pur svolgendo un ruolo centrale nell’economia di un episodio rilevante, quale è quello ambientato all’ingresso della città di Dite, il messo «da ciel», a prima vista, sfugge a una precisa identificazione. In apparenza, il lettore non può giovarsi di alcuna chiave ermeneutica per una corretta interpretazione di questa figura, presentata dal poema solo di scorcio. Tuttavia, come vedremo alla fine della nostra indagine, l’impostazione dantesca appare anche in questo caso del tutto organica e altamente significativa.
Il messo celeste è contraddistinto da un’irriducibile duplicità: nella sua figura coesistono in perfetta armonia elementi pagani e tratti cristiani. Tale duplicità ha condotto gli esegeti a formulare due ipotesi principali, di segno diametralmente opposto: come è noto, sono stati ravvisati nel messo ora i tratti del dio pagano Mercurio, ora i lineamenti celesti di un angelo. Non sono le sole interpretazioni: il messo è stato altresì identificato con Ercole, Enea, Cesare, Mosè, Aronne, san Pietro, Cristo, Enrico VII . Tuttavia, non è questo il luogo in cui vagliare le motivazioni e i limiti di ciascuna di queste pretese agnizioni, spesso frutto di letture esoteriche e “deformi” della Commedia . Converrà, quindi, restringere il campo alle due tesi tradizionali, sulle quali si è sostanzialmente modulato il dibattito nel corso della secolare esegesi dantesca; l’impostazione del problema, del resto, è rimasta pressoché invariata dal Trecento ad oggi.
La proposta che chiama in causa il dio pagano Mercurio risale a Pietro Alighieri, ed è stata accolta e sviluppata dai commentatori a lui contemporanei, in particolare da Benvenuto da Imola. La terminologia che accomuna le pagine di Pietro Alighieri, Benvenuto da Imola e degli altri esegeti sulla loro scia è assai significativa, poiché rende palese l’orizzonte ermeneutico entro cui il testo dantesco viene letto: spicca, in primo luogo, la reiterazione del verbo «fingere», segnale dello statuto puramente fittizio assegnato alla littera del poema. Per Pietro e per Benvenuto, il senso letterale della Commedia è costituito, infatti, da figmenta poetica: sotto «versus rithimici […] multum extranei», osserva Pietro, è racchiusa una verità di natura etica, il cui discernimento è compito dei lettori “sani”, cioè non digiuni di filosofia. Tale esegesi svuota la littera del poema di ogni autonomia e consistenza e cristallizza il sovrasenso del viaggio ultraterreno, a cui è attribuito un significato filosofico-morale: Pietro afferma esplicitamente che il viaggio narrato nel poema è compiuto “per speculationem particularium vitiorum” , o ancora, “per investigationem contemplativam” . L’episodio delle porte di Dite, con lo scacco subito da Virgilio, sarebbe, così, un exemplum dei limiti della Ragione, incapace di guidare l’uomo fino in fondo nella conoscenza del male, in particolare di quello compiuto per malizia e per frode. Il quadro è quello astratto e disincarnato di una pugna spiritualis. Pietro ritiene assai appropriato l’espediente narrativo escogitato dal poeta che, «poetice loquendo», non affida l’ingresso nella città infernale alle sole forze di Virgilio-Ragione, ma fa intervenire il dio Mercurio, incarnazione di prudenza ed eloquenza . Tradizionalmente, infatti, Mercurio era considerato il protettore delle merci e dei mercanti, ma anche delle frodi e dei ladri, in quanto «fraudes et malitia saepe negotiando concurrunt» . Pietro accumula numerose fonti a dimostrazione del legame tra il commercio e la frode (citando, a questo scopo, passi della Bibbia e dell’esegesi scritturale). Ricorda inoltre, alla luce dell’Eneide, della Tebaide e dell’opera esegetica di Fulgenzio, che Mercurio era stato inviato da Giove, come messaggero divino, nel regno infernale. Infine, per rispondere all’obiezione secondo cui un esponente dell’Olimpo pagano sarebbe stato un indegno araldo del vero Dio, Pietro ricorre strategicamente all’auctoritas di sant’Agostino, che in una pagina del De civitate Dei aveva fornito l’etimologia di Mercurio: «portitorem sermonis Dei. Et ideo dicitur Mercurius quasi sermo medius currens» .
L’equazione che assimila Mercurio alla eloquentia sermonis diventa la chiave con cui viene interpretato ogni aspetto della misteriosa figura. Così Benvenuto da Imola:
Et declarat impetum Mercurii per comparationem pulcram et propriam venti, quia talis est Mercurius, idest eloquens contra adversarios, qualis est ventus contra ignem adversum […]. Hic autor ostendit terrorem quem faciebat Mercurius per loca per quae transibat; et breviter dicit, quod vidit animas fugientes a facie Mercurii, sicut ranae fugiunt a facie serpentis. Per hoc autem figurat autor quod rei fugiunt a facie oratoris et advocati eloquentis, et se abscondunt. […] Mercurius fingitur habere alas ad pedes, quia nihil volatilius, nihil velocius eloquentia sermonis .
È su questa falsariga che Benvenuto respinge con risolutezza l’equazione messo-angelo. L’esegeta solleva contro la “tesi angelica” anche un’altra obiezione, che avrà lunga eco e giungerà immutata sino al Novecento. Egli ritiene impossibile la presenza di un angelo nella prima cantica del poema, rifacendosi alle parole che Virgilio rivolgerà al suo discepolo all’arrivo del «celestial nocchiero» nel secondo canto del Purgatorio, le quali confermerebbero che il pellegrino «non erat solitus videre angelos per totum tempus quo stetit in inferno» .
Per questo commentatore, in ogni caso, è decisivo il valore allegorico che Mercurio riveste, secondo un codice ben definito:
poetice loquendo est nuncius et interpres Deorum, qui mittitur a superis ad inferos ad executionem omnis divinae volutatis, sicut patet apud Homerum, Virgilium, Statium, Martianum, et alios multos .
Privo di autonoma consistenza, il messo celeste trova giustificazione solo in quanto indice allegorico, in tutto riassorbito dalla delineazione di un perfezionamento interiore. In una prospettiva di questo genere, le stesse fonti classiche perdono la loro vitalità e si limitano a fornire materiali per una scena morale: non a caso, la loro individuazione è puntualmente accompagnata dal recupero e dalla valorizzazione dell’esegesi fulgenziana. Già pochi decenni dopo la sua pubblicazione, dunque, la Commedia veniva trattata come opera allegorico-didattica; e non per caso esplicitamente accostata al De nuptiis Philologiae et Mercurii di Marziano Capella.
Giovanni Boccaccio e Francesco da Buti proposero un’altra interpretazione del messo: per primi essi scorsero nel liberatore di Inferno IX i tratti di un angelo cristiano, inviato da Dio a soccorso del pellegrino. Per i due commentatori deve trattarsi di un angelo, in quanto gli angeli sono per eccellenza le entità mediatrici tra l’umano e il divino. La vittoria sulle forze demoniache rappresenta, questa volta, il dono gratuito con cui Dio salva l’uomo, liberandolo dal dominio del male e del peccato. Emblematiche le parole di Francesco da Buti:
l’autore in questo suo poema intende dimostrare il modo, come l’uomo cacciato per lo peccato dalla grazia di Dio possa ritornare; e perchè il primo grado è vincere li vizi e li peccati, insegna questo nella prima cantica, nella qual dimostra che ai vizi, perchè procedono da incontinenzia et intemperanzia, resiste troppo bene la ragione con la grazia gratis data, come appare nel processo di libro. Imperò che l’autore finge che in tutti i luoghi a rispondere a tutti i vizi sia bastanza Virgilio, che significa la ragione […]. Ora che è giunto alla città, ove si puniscono più gravi e gravissimi peccati; cioè peccati di malizia, e di bestialità che si contengono sotto la superbia e sotto la invidia, vuole mostrare l’autore che con maggior difficultà li convenga combattere: imperò che qui non basta la ragione con la grazia gratis data, anzi si richiede spezial grazia data da Dio che si chiama grazia gratum faciens .
Questa prospettiva spinge il commentatore a riconoscere dei legami tra il poema e la Sacra Scrittura: nelle terzine che preparano l’avvento dell’angelo, Dante ha tratteggiato il violento sconvolgimento della natura perché, in molte pagine della Bibbia, vento e terremoto sono i segni che preannunciano la manifestazione di Dio. Il poeta intende «accordarsi con li Teologi, che dicono che quando l’angelo viene, prima dà spavento e poi sicurtà; e lo demonio fa il contrario; e lo suon grande ancora, perché dice la Santa Scrittura Et factus est repente de Coelo sonus, tamquam advenientis spiritus vehementis» . In gioco è la Grazia divina che, secondo una suggestiva espressione di Boccaccio, riesce a «commuovere» il regno infernale, consentendo al pellegrino il compimento del suo viaggio ultraterreno .
Tale proposta ha conosciuto una grande fortuna ed è oggi, forse, quella più accreditata. Da un lato, essa attesta lo sforzo di aderire maggiormente al dettato dantesco, restituendogli una dimensione marcatamente religiosa; dall’altro, presenta il medesimo equivoco intorno ai modi di significazione della Commedia che abbiamo rilevato in precedenza. Se per Boccaccio e per Buti il messo celeste non è più simbolo dell’eloquentia ma dell’aiuto di Dio che giunge in soccorso all’anima, liberandola gratuitamente dal soverchiante potere del peccato, il loro paradigma ermeneutico non si discosta in maniera sostanziale da quello di Pietro Alighieri e Benvenuto da Imola. All’interno della Commedia, infatti, vengono individuati due livelli di significato, e la lettera resta una finzione che nasconde, sotto un velo poetico, il “vero” sovrasenso. L’«accordo» che Francesco da Buti riconosce tra la Commedia e la Sacra Scrittura si limita al piano dell’espressione: le analogie riguardano l’imagery, e producono una certa affinità di atmosfera, di tonalità espressiva, non un legame strutturale.
Nessuna delle due ipotesi è in grado di prevalere sull’altra. La scelta tra Mercurio e l’angelo dipende unicamente dalla sensibilità (per non dire dall’arbitrio) dei commentatori, e non da una oggettiva valutazione di tutti i dati testuali: in un caso, infatti, viene sottolineato il solo retroterra classico, nell’altro la sola patina scritturale e teologica. Il fatto è che l’esegesi trecentesca proietta sull’episodio in questione una griglia ermeneutica rigida, a cui sfugge la novità del sistema di significazione del «poema sacro». Tuttavia, l’intuizione del carattere religioso e sacrale del messo resta, a nostro avviso, assai preziosa: essa andrà approfondita, e valutata alla luce della «onnipresente pretesa di verità» rivendicata dalla Commedia .
Nei secoli successivi, le due interpretazioni tradizionali sono state ribadite più volte. Ma l’indagine intertestuale ha accresciuto la conoscenza delle fonti, classiche e scritturali, alla base del testo dantesco . E soprattutto, è stato auspicato e tentato, da più parti, il superamento della rigida (e, in fin dei conti, improduttiva) contrapposizione fra tesi antitetiche. Studiosi particolarmente sensibili al “sincretismo” dantesco, infatti, hanno elaborato letture miranti a integrare dimensione classica e dimensione cristiana . In questa prospettiva, leggere “sanamente” l’episodio in parola, secondo l’invito del poeta, significherebbe distinguere e al tempo stesso ricollegare i diversi livelli intertestuali; in particolare, riguardo alla rappresentazione del messo .
Mettere a fuoco la “coabitazione” dell’eredità classica e cristiana nel poema è una direttrice senz’altro opportuna ; e contribuisce a dare ragione della duplice caratterizzazione del messo celeste. Ma può condurre il lettore della Commedia a fraintendimenti di non poca gravità. Sintomatica, in questa prospettiva, la recente valorizzazione delle proposte di un commentatore tardo rinascimentale, Bernardino Daniello.
Nella seconda metà del XVI secolo, l’esegeta lucchese aveva tentato di risolvere l’enigma del messo celeste fondendo le due principali e contrapposte ipotesi in campo. A suo giudizio, infatti, il messo è un angelo cristiano ed è allo stesso tempo il dio pagano Mercurio:
Era pien di sdegno l’Angelo per veder coloro insuperbire, i quali per la loro superbia erano stati scacciati dal cielo, nel centro della terra, ove ancora non haveano lasciata la superbia loro. Ne è dubbio, che il Poeta in questo luogo hà voluto imitar Virgilio, si come quasi in tutti suol fare, quando egli nel quarto libro finge, che Mercurio scenda in terra mandato da Giove ad Enea, per rimuoverlo dall’amor di Didone, e essortarlo à venir in Italia; ma il nostro Poeta come Cristiano fà, che l’Angelo tegna la persona di Mercurio, mandato da Dio con la verga, ch’è l’auttorità ad aprir la porta della città di Dite .
Si tratta di una tesi innovativa e certamente ardita, poiché implica la simultanea presenza di due fisionomie (diverse e tra loro indipendenti) all’interno della medesima figura. Tale compresenza può sussistere, peraltro, solo all’interno di un sistema allegorico in cui il livello letterale funziona come semplice fictio poetica.
Nel secolo scorso, questa soluzione è stata di fatto riproposta da Nicola Zingarelli, Paul Renucci, Silvio Pasquazi e Stephen Bemrose, i quali, tuttavia, non hanno riconosciuto Bernardino Daniello come loro diretto precursore. È stata invece Susanna Barsella a riprendere esplicitamente e con forza la proposta del commentatore cinquecentesco, portando inoltre alla luce le categorie ermeneutiche che agivano sottotraccia nelle sue argomentazioni, e cioè l’integumentum e l’inventio . L’arcangelo Michele e il semidio Mercurio sono accomunati da molteplici elementi (la funzione di psicagogo, il legame con l’eloquenza e, soprattutto, la mediazione tra Dio e l’uomo), che avrebbero suggerito a Dante la contaminatio tra le due fisionomie. Questa interpretazione postula il carattere artificioso della scrittura dantesca: la doppia natura del personaggio appare un “artificio retorico necessario” , esito di un progetto autoriale finalizzato a un’epica cristiana, in tutto degna degli illustri precedenti classici. Dante, come già suggeriva il commentatore cinquecentesco, avrebbe voluto imitare la grande poesia pagana di Virgilio e Stazio. In questa prospettiva, Dante è «poeta», cioè creatore di narrationes fabulosae, con totale dominio sull’opera, frutto di ingenium e ars. A supporto, militerebbe, secondo Barsella, il noto passo di Inferno VII sulla Fortuna . Ci sembra, però, che i due luoghi della prima cantica in questo modo messi a confronto abbiano implicazioni profondamente diverse. La spiegazione offerta da Virgilio sulla Fortuna, «general ministra e duce» (Inf., VII, 78) della Provvidenza, è un esempio paradigmatico dell’interpretazione dantesca del mito. Attraverso le parole della guida, infatti, Dante afferma che i pagani intuirono l’esistenza di un’entità superiore a cui è assegnato il governo dei beni mondani: essi, però, la definirono erroneamente una dea, la dea Fortuna, mentre si tratta di un’Intelligenza angelica: «con l’altre prime creature lieta / volve sua spera e beata si gode» (vv. 95-96).
Il riferimento a Inferno VII non comprova l’ipotesi di un “angelo-Mercurio”. Se il messo fosse un angelo e contemporaneamente una divinità pagana, ebbene questo ibrido dipenderebbe soltanto dalla creatività autoriale, non inerendo alle realtà suscitate dal Deus artifex. L’ipotesi che nel messo si annidi una divinità pagana trasformata dall’autore in intelligenza angelica (un Mercurio “cristianizzato”, secondo il consueto processo di moralisatio), teorizza infatti una radicale frattura tra la forma e il contenuto. Non a caso Barsella, per giustificare tale frattura, recupera il “principio di disgiunzione” che Erwin Panofsky elaborò nei suoi studi sull’arte del XII e XIII secolo . Interpretato come pura fictio poetica, però, il messo diviene emblema della «falsità» che pervade i versi danteschi: con l’appello che precede il suo arrivo, Dante avrebbe indicato al lettore una radicale opposizione tra il velame e la dottrina, tra l’integumentum e la veritas, tra la forma (pagana) e il significato (cristiano). In tal modo, verrebbe assegnata a Dante una lettura del mito che, almeno all’altezza della Commedia, non sembra appropriata, poiché ne conserva soltanto l’aspetto esteriore e ne fa mera “veste” di nuovi contenuti; quando la rappresentazione del messo rivendica, al contrario, coerenza e armonia.
Il mito, nella Commedia, non va sempre ridotto a substratum letterario: basti ricordare che certi episodi mitici (alcuni dei quali richiamati all’interno del medesimo episodio di Dite) erano riconosciuti da Dante come eventi storici, antecedenti del viaggio provvidenziale narrato nel poema . A prescindere dal problema dell’intrinseca “verità” della narrazione dantesca (su cui non si può che sospendere il giudizio, come suggerisce lucidamente Mineo ), occorre mettere a fuoco le modalità attraverso cui il poeta, anche in questa pagina della Commedia, ha legittimamente e coerentemente ampliato i modi di significazione della poesia, rivendicando una stratificazione di senso analoga a quella della Scritture. Il «velame» della Commedia non va necessariamente inteso come un involucro menzognero: come vedremo, gli studiosi che non si sono lasciati condizionare dal principio della lettera come pura finzione hanno offerto una spiegazione più confacente alla straordinaria novità dell’episodio in questione.
Erich Auerbach ha dedicato alcune famose pagine all’episodio di Inferno IX, e in particolare ai versi che preparano l’apparizione del messaggero celeste . Come è noto, Auerbach non si è soffermato distesamente sull’identità del personaggio in questione: questo problema, infatti, non era pertinente al suo sondaggio, dedicato alla rinascita dello «stile sublime» nella Commedia, e incardinato sul confronto tra l’avvento del messo e l’arrivo di Poseidone nel tredicesimo libro dell’Iliade. Lo studioso, tuttavia, ha dedicato all’enigma del messo una pregnante, pur se concisa, annotazione. Essa si è rivelata assai preziosa; favorendo, negli ultimi decenni del Novecento, l’elaborazione di un’ulteriore linea interpretativa, in grado di svincolarsi non arbitrariamente dalla tradizionale alternativa tra l’angelo cristiano e il dio Mercurio.
In primo luogo, Auerbach riconosce il tratto fondamentale del messo nella sua funzione cristologica, considerando secondario il fatto che la sua identità non sia chiarita dal poeta: il messo è «una figura di Cristo, in ogni caso, e simboleggia la discesa all’inferno di Cristo» . Lo studioso, poi, indica tre fonti, una letteraria e due scritturali. In poche righe, dunque, Auerbach offre un lucido quadro dei modelli su cui la figura del messo è incardinata. E indica, forse per la prima volta, il pattern narrativo che ha dato forma all’episodio in parola: il descensus Christi ad Inferos.
Sebbene un racconto della discesa di Cristo agli Inferi non sia presente nel Nuovo Testamento, la credenza che Cristo, dopo la Passione, sia sceso nel regno infernale e abbia lottato contro le potenze diaboliche, al fine di liberare le anime dei giusti, è ben radicata sin dai primi secoli del cristianesimo: un esplicito riferimento si legge nell’Epistola agli Efesini di san Paolo (Eph., 4, 7-10) e nella relativa tradizione esegetica (Mario Vittorino e sant’Ambrogio). Non stupisce, dunque, la successiva inclusione del descensus Christi nel Credo degli Apostoli. In età medievale, poi, il racconto della discesa di Cristo all’Inferno conobbe una straordinaria diffusione: la più ampia e articolata narrazione dell’episodio era offerta dalla seconda parte dell’Evangelium Nicodemi (conosciuto anche con i titoli di Evangelium Nazaraeorum o di Gesta Pilati), un apocrifo del V secolo a cui fu accordata grande autorità e che presto raggiunse «uno statuto quasi canonico», come ha rilevato Amilcare Iannucci. La sua affidabilità venne difesa risolutamente da Vincenzo di Beauvais, per il quale questo scritto riporta una “puram veritatem”, ed è rimasto escluso dal canone scritturale sol perché di autore ignoto. L’eccezionale popolarità dell’Evangelium Nicodemi è dimostrata dall’ampio numero di manoscritti, dai molti volgarizzamenti, dalle parafrasi e dalle epitomi contenute in alcune delle opere più lette nel Duecento (il già citato Speculum maius di Vincenzo di Beauvais, ad esempio, e la Legenda aurea di Iacopo da Varazze); senza dire della numerose rappresentazioni figurative .
L’episodio del messo celeste è radicato nel paradigma della lotta fra Cristo e Satana narrata nel Vangelo di Nicodemo: l’impianto drammatico della narrazione dantesca, il vivo senso di un conflitto tra potenza divina e schiere infernali (con la vittoria finale sui ribelli e l’apertura delle porte della civitas diaboli) testimoniano quanto profondamente il descensus Christi ad Inferos agisca nel testo dantesco come fonte stilistica, tematica e narrativa.
Amilcare Iannucci ha messo a fuoco il rapporto tra Inferno IX e il paradigma della discesa di Cristo agli Inferi, segnalando le precise riprese testuali del modello e riconoscendo al testo dantesco uno statuto tipologico e figurale . Il messaggero, per lo studioso, possiede una funzione salvifico-messianica: il suo avvento “ricalca” l’azione redentrice di Cristo. Più precisamente, il messo ha il compito di realizzare all’interno della vicenda del pellegrino la salvezza compiuta dal Salvatore disceso agli Inferi dopo la Passione: come Cristo, egli spalanca le porte del regno infernale, liberando Dante e Virgilio dalla morsa del male. Per Iannucci non sussistono dubbi: siamo di fronte a una figura di Cristo (come il dettaglio delle «piante asciutte» contribuisce a sottolineare), che rivendica tutto lo spessore e la consistenza dei signa divini.
Occorre a questo punto approfondire, e chiedersi in che termini esattamente Inferno IX possa contenere una figura del descensus Christi ad Inferos. Va affrontata un’obiezione che si oppone, in linea di principio, alla lettura proposta da Auerbach e Iannucci. In forza dell’inversione temporale tra i due termini (prefigurazione e adempimento) congiunti dalla tensione figurale, è stato, infatti, ritenuto teoricamente inammissibile il riconoscimento di una dinamica tipologica all’interno della Commedia . A differenza di quanto accade nell’Antico Testamento, i fatti narrati dal «poema sacro» si collocano, evidentemente, dopo l’avvenimento di Cristo: tale rovesciamento, per Mineo, contraddice la definizione stessa di tipologia, e ne impedisce qualsiasi applicazione all’interno del sistema allegorico dell’opera dantesca. Il livello allegorico-tipologico della Commedia «non prefigura, e non potrebbe essere diversamente, fatti destinati a realizzarsi con l’incarnazione» né, come il Nuovo Testamento, allude «ad eventi che dovranno realizzarsi nel corso della storia dell’umanità cristiana» . Posta in questi termini, la tesi di Mineo è senz’altro inconfutabile. Tuttavia, è possibile (ed è forse necessario) acquisire una diversa prospettiva sulla tipologia nella Commedia, valorizzando le ricerche svolte da Friedrich Ohly in merito all’arte e all’iconografia medievale : lo studioso tedesco ha, infatti, dimostrato l’ampiezza e l’articolazione della categoria di tipologia nel Medioevo. Per Ohly, il fondamento della concezione tipologica è da ricercare nelle parole pronunciate da Cristo nel Sermone della montagna: «Nolite putare quoniam veni solvere legem et prophetas: non veni solvere, sed adimplere» (Mt., 5, 17). Viene qui espresso l’«attestato fondamentale che stabilisce il diritto della considerazione tipologica della storia» . Secondo l’esplicito riferimento di Cristo alla legge e ai profeti ebraici lo sguardo tipologico si rivolse innanzitutto all’interpretazione delle Sacre Scritture: Antico e Nuovo Testamento furono collocati, così, «in un rapporto di tensione creatrice, nel quale l’Antico cresce nel Nuovo compiendosi» .
Da queste prime affermazioni è possibile ricavare i due poli di ogni relazione tipologica: da una parte l’“annuncio”, dall’altra il “compimento”. La definizione del concetto di “compimento” richiede, però, un’ulteriore messa a fuoco. L’adimpletio, infatti, è definita da Ohly come un «rispecchiamento potenziato»: non equivale, cioè, all’effettiva realizzazione di una precedente dichiarazione (come accade nella profezia, in cui “a parole” viene predetto un avvenimento futuro che ha poi effettivamente luogo), ma corrisponde a un “ritorno”, al «rispecchiamento» di «un avvenimento del tempo antico […] in un avvenimento del tempo nuovo». Nella relazione tipologica che lega le Sacre Scritture, l’antitipo del Nuovo Testamento porta peraltro a compimento il tipo presente nell’Antico, superandolo. Per questo motivo, il «rispecchiamento» della tipologia è «potenziato»: esso definisce, di fatto, una gerarchia tra gli avvenimenti, nella quale il successivo compie quanto era prefigurato nel precedente .
Il compimento delle prefigurazioni veterotestamentarie realizzato dall’avvenimento di Cristo è completo e definitivo, e non richiede un’ulteriore adimpletio. Ora, un legame in cui non si verifichi un «rispecchiamento potenziato» non è di natura tipologica . Lo studioso, però, non arresta a questo punto la sua trattazione e passa a considerare una dinamica diversa, la cui descrizione costringe ad allentare le maglie di una definizione della tipologia forse eccessivamente circoscritta:
La spiegazione del Nuovo Testamento in ordine alla storia della salvezza non si limita a contemplare retrospettivamente il ritorno potenziato del Vecchio nel Nuovo, ma anticipa il futuro, il quale è impiantato nel Nuovo. Poiché Cristo, oltre il momento della sua epifania, continua a vivere nel corpus Christi mysticum della Chiesa, c’è un’interpretazione del Nuovo Testamento che guarda al futuro di Cristo nella Chiesa .
Secondo Ohly, l’interpretazione tipologica, una volta fissatasi come forma mentis, superò i confini dell’esegesi scritturale che, fino ad allora, aveva interpretato il Vecchio Testamento come figura del Nuovo e quest’ultimo come compimento del primo. Si affermò una nuova consapevolezza del tempo e dei legami tra le epoche: la tipologia biblica «contrassegna la liturgia, il sacramento, la forma e la storia della Chiesa» .
Nella liturgia e nei sacramenti, dunque, il rapporto tra prima e dopo si ripropone in termini mutati: qui il dopo ritrova il prima come punto forte, come pienezza di cui il dopo è riverbero. Con la terminologia di Charity potremmo parlare anche di «postfigurazione» . Ciò che conta è che anche in questa nuova relazione si verifica il “ritorno”, il “rispecchiamento”, che appartiene alla relazione tipologica propriamente detta. Se resta una fondamentale differenza tra la tipologia scritturale e la tipologia che lega le Scritture al presente della Chiesa, essa è da ricercare nella particolarissima natura di tale “ritorno”: le liturgie celebrate dalla ecclesia, i riti e i sacramenti, non realizzano, infatti, un “aumento” o un “potenziamento” dell’antitipo, bensì ospitano una sua rinnovata presenza; Cristo continua a vivere nel Suo corpo mistico, manifestandosi nella Chiesa attraverso la liturgia e i sacramenti, che realizzano un «compiersi continuo che, nell’età della Chiesa, prosegue nelle membra di Cristo» . A nostro avviso, le liturgie sacramentali corrispondono in buona parte alla definizione fornita dallo stesso studioso di “tipologia semibiblica”, in cui «un polo della relazione di significatività tipologica non si trova più nella Bibbia ma nella storia extrabiblica». I sacramenti, come approfondiremo più avanti, possono anzi essere definiti come il luogo in cui la dinamica tipologica o figurale raggiunge il suo culmine, fino a compiere un vero e proprio salto di qualità. Se il sacramento ha una radice nella tipologia, il typus non è propriamente sacramentale: i signa tipologici, infatti, non possiedono l’“operatività” e l’“efficacia” dei signa sacramentali.
Ritorniamo, finalmente, a Inferno IX. Opportunamente, e con piena legittimità, l’episodio dantesco è stato riconosciuto come figura del descensus Christi ad Inferos: l’“antitipo” biblico (Cristo vittorioso su Satana e i suoi accoliti, secondo l’Evangelium Nicodemi) ritorna, rinnovato, in un “tipo” extra-biblico, il messo celeste, appunto, che sconfigge, come Cristo, l’opposizione diabolica e apre le porte della città infernale, consentendo la prosecuzione del pellegrinaggio di Dante nel mondo ultraterreno. L’episodio possiede il valore specifico di “tipologia semibiblica”.
Quanto al problema della “duplice” rappresentazione del messo celeste, va notato come l’interpretazione figurale dell’episodio spinga a considerare in termini mutati anche quella coesistenza di tratti pagani e cristiani che ha causato la netta biforcazione del dibattito sin dal Trecento. Tale compresenza, infatti, lungi dall’essere un mero dispositivo retorico, realizza con forza la potenzialità espressiva propria della tipologia, in quanto «rende evidente e percepibile la consequenzialità provvidenziale del corso delle epoche» . Il pensiero tipologico, infatti, presuppone «una visione d’insieme sui tempi» che li inscrive integralmente nell’orizzonte salvifico: persino i personaggi mitologici e profani, allora, possono essere percepiti come appartenenti alla storia della salvezza. Se la raffigurazione del messo mostra un legame con il mondo antico, ciò è dovuto al compimento che egli realizza, includendo anche un polo anteriore a Cristo.
Il messo è sulla filiera che muove da Mercurio e culmina in Cristo, non esaurendosi però nel primo avvento di Cristo, ma raggiungendo le sue ulteriori manifestazioni nella storia; esso racchiude in un’unica figura il preannuncio pagano, il compimento cristiano e il suo successivo rinnovarsi. Mostra, così, di essere profondamente incardinato nella relazione tipologica. Per spiegare come ciò sia possibile occorre riconoscere, in questa pagina del poema dantesco, lo svolgersi di una vera e propria liturgia o, meglio, dell’officium che rinnova il descensus Christi ad Inferos.
Sarà utile soffermarsi su una quaestio della Summa Theologiae che, a quanto ci risulta, non è stata ancora valorizzata da nessun lettore di Inferno IX. Eppure, essa è di grande utilità per la messa a fuoco della genesi di questo canto. La scena delle porte di Dite, infatti, sembra colmare gli spazi aperti dall’argomentazione di Tommaso a difesa della verità e del valore salvifico del descensus Christi ad Inferos. Affiora, ancora una volta, la cura con cui Dante ha radicato gli snodi più importanti della Commedia in una fonte (scritturale, esegetica o teologica) dotata di indiscussa autorità, allontanando da sé e dal «sacrato poema» ogni accusa di inventio poetica. Rispondendo a chi nega la necessità e l’opportunità della discesa di Cristo agli Inferi, san Tommaso afferma:
sicut fuit conveniens eum mori ut nos liberaret a morte, ita conveniens fuit eum descendere ad Inferos ut nos a descensu ad Inferos liberaret .
In tal modo, san Tommaso delinea il profondo legame che unisce la Passione di Cristo alla sua discesa agli Inferi: tramite il descensus Christi, la salvezza procurata agli uomini dalla sua morte in croce viene estesa alle anime dei giusti che si trovavano nel regno dei morti. La discesa di Cristo agli Inferi è, per l’Aquinate, un’«applicazione» della Passione : essa estende l’effectum del suo sacrificio ai morti, mentre l’Eucarestia compie la salvezza a beneficio dei vivi:
passio Christi fuit quaedam causa universalis humanae salutis, tam vivorum quam mortuorum. Causa autem universalis applicatur ad singulares effectus per aliquid speciale. Unde, sicut virtus passionis Christi applicatur viventibus per sacramenta configurantia nos passioni Christi, ita etiam applicata est mortuis per descensum Christi ad Inferos .
Il parallelo istituito da Tommaso pone, a nostro avviso, un problema non secondario: l’Aquinate, infatti, mette in relazione un atto sacramentale (l’Eucarestia che, «per sacramenta configurantia», attraverso l’officium di un sacerdote, rende la Passione di Cristo continuamente operante nella storia) con un atto salvifico vero e proprio (la discesa agli Inferi, il cui agente è Cristo stesso), tracciando così un’analogia imperfetta. Il “tassello mancante” è una liturgia sacramentale che rinnovi il descensus ad Inferos così come l’Eucarestia rinnova la Passione.
Ravvisiamo questo “tassello mancante” nel racconto della Commedia, e in particolare nella scena del nono canto dell’Inferno. Il messo celeste ha il compito di officiare la liturgia del descensus Christi ad Inferos, perché essa è la sola liturgia che può avere luogo nel regno dei morti. Il pellegrino compie il suo viaggio nell’eccezionale condizione di vivente, ma ha bisogno che la salvezza di Cristo penetri nel regno dei dannati: per questo il messo irrompe all’Inferno, per officiare la liturgia che rinnova la vittoria di Cristo contro Satana e i diavoli. In questo senso, il messo celeste possiede al più alto grado quel ruolo cristologico riconosciuto da Auerbach e Iannucci. E a ben vedere, nella liturgia di Inferno IX, la “traslazione” sacerdotale non riguarda unicamente il messo: come costui agisce in persona di Cristo, così i diavoli e le Furie sostituiscono Satana.
Emergono, e con grande evidenza, i limiti di una etichetta come “sacra rappresentazione”, spesso attribuita a Inferno IX , e tuttavia inadeguata per la comprensione di questo canto. Va sottolineata la differenza che separa una mera rappresentazione di tipo teatrale e la vera e propria liturgia cristiana, dove il “ministero” compiuto dal sacerdote manifesta il “mistero” della presenza sacramentale. Nel suo studio sulla liturgia cristiana, Giorgio Agamben sintetizza con efficacia la questione:
Da una parte il semel del sacramento efficace, ma irripetibile, il cui soggetto unico è Cristo; dall’altra il quotidie della «liturgia» del vescovo e dei presbiteri all’interno della comunità. Da una parte, il mistero di un’azione sacrificale perfetta, i cui effetti si compiono una volta per tutte […]; dall’altra il ministero di coloro che devono celebrarne il ricordo e rinnovarne la presenza .
Si rifletta, tuttavia, sul carattere peculiare di questa «realtà misterica», che non coincide né con la presenza del Cristo storico in carne e ossa, né con la sua semplice rappresentazione simbolica, come in un teatro. Il mistero liturgico non si limita a rappresentare la passione di Cristo, ma, rappresentandola, ne realizza gli effetti .
I sacramenti, infatti, non consistono in atti puramente esteriori, che sarebbero privi di effetto salvifico: secondo la formula di san Tommaso, i sacramenti effettuano ciò che significano (efficiunt quod figurant) . Il carattere fondamentale della liturgia cristiana consiste proprio in questa identificazione tra “mistero” e “ministero”, e cioè tra gli atti compiuti da Cristo (opus operatum, secondo la terminologia dell’enciclica Mediator Dei et hominum) e la loro ripetizione compiuta dal sacerdote (opus operans o opus operantis) . La scena di Inferno IX, dunque, non andrà intesa come uno spettacolo religioso né come una rappresentazione meramente “simbolica”: la vittoria di Cristo sul regno infernale si manifesta liturgicamente all’interno della vicenda narrata dalla Commedia, rendendosi, così, contemporanea alla situazione presente del pellegrino, segnata dall’urgenza di una salvezza. Il pattern del descensus Christi non agisce nel poema come un modello letterario: esso si ripete nello spazio extra-biblico della Commedia, nella liturgia delle porte di Dite.
Guardiamo ora quale posto la liturgia del nono canto infernale ricopre all’interno della Commedia. Erminia Ardissino, in uno studio recente, ha messo a fuoco l’importanza della dimensione liturgica in tutto il poema dantesco, riconoscendo, nel mondo infernale, la presenza di numerose tessere liturgiche: tutti i casi presi in considerazione da Ardissino, però, equivalgono a «parodie teologiche», che imitano il repertorio linguistico liturgico per vanificarlo, per sottolineare l’impossibile comunione con Dio, l’«infinita distanza di questo mondo demonico dall’ordine divino» . Secondo la studiosa, infatti, due ragioni rendono impossibile la liturgia nel regno infernale. Innanzitutto, l’atto liturgico è per sua natura comunitario, cioè implica l’ecclesia, la comunità dei fedeli in comunione tra loro e con Dio. L’inferno, al contrario, è il luogo della negazione, della ribellione e, per questo, non può essere abitato da alcuna Chiesa: «i dannati sono congregati insieme, come i diavoli, ma non costituiscono popolo», e dove non può radunarsi la Chiesa non può esservi alcuna liturgia. In secondo luogo, l’inferno non conosce l’attesa della redenzione, in quanto il destino delle anime dannate è ormai scritto. L’«assenza dell’attesa della redenzione ultima» disinnesca la possibilità della liturgia, che si rivolge all’uomo aperto alla salvezza. Nell’Inferno, perciò, gli accenni ai sacramenti non possono che essere iscritti in una prospettiva parodica, con negazione e rigetto di una effettiva dimensione liturgica .
Tale inquadramento della problematica liturgica nella prima cantica è, senza dubbio, valido, ma non contempla Inferno VIII e IX. La scena che qui si svolge non è un caso di theological parody, non può essere allineata alle anti-liturgie infernali. È vero: l’irruzione di un essere celeste nel regno dei dannati è un evento eccezionale. Se Inferno IX sceneggia una liturgia, questa non sembra possedere un vero e proprio carattere rituale, rimanendo legata all’esclusiva e irripetibile esperienza del pellegrino. E tuttavia, l’avvento del messo risponde all’urgente attesa che si fa strada nel protagonista, sconfitto dai diavoli e minacciato dalle Furie di essere tramutato in pietra. Dante rischia di perdere la speranza, ma la paura diventa attesa della salvezza di Cristo, che lo raggiunge attraverso l’intervento dell’inviato celeste. Così, all’arrivo del messo, Dante si rivolge a Virgilio, che gli suggerisce di assistere in silenzio e di inchinarsi. Questo gesto (semplice ma, al contempo, altamente significativo, come richiede lo “stile liturgico” individuato da Guardini) segnala la partecipazione del pellegrino all’azione liturgica che sta per svolgersi: soltanto dopo il riconoscimento di Dante il messo si dirige verso la porta di Dite, lasciando intendere che i due momenti si avvicendano secondo una successione non casuale. Inferno IX ospita dunque il solo officium che può avere luogo nella prima cantica: la liturgia del descensus Christi ad Inferos .
La mancata percezione della dimensione liturgica dell’episodio ha generato, a nostro avviso, l’enigma del messo; enigma che, nei termini in cui è stato posto, resta inevitabilmente privo di soluzione. Proviamo invece a collocarci in un orizzonte liturgico. Perché possa realizzarsi il sacramento (opus operatum) è necessaria la mediazione del ministro (opus operantis). Come afferma Agamben, «il mistero della liturgia coincide integralmente con il mistero dell’operatività», che riposa sul fondamento ontologico del ministero sacerdotale:
Non si tratta qui tanto di una figura di rappresentanza giuridica, quanto, per così dire, di una vicarietà costitutiva, che attiene alla natura ontologica del sacerdozio e lo rende indifferente alle qualità accidentali dell’individuo che esercita il ministero .
Agamben si riallaccia alla riflessione tomista sulla natura «strumentale» del sacerdote. Secondo san Tommaso, l’agente principale dei sacramenti è Cristo, e il sacerdote agisce in sua persona : è «instrumentum animatum», a cui non compete, in ultima analisi, l’efficacia dell’operazione sacramentale. La liturgia è opus Dei, la cui effettualità risulta dall’articolazione di due elementi «distinti e, tuttavia, cospiranti»: l’opus operatum e l’opus operans .
Alla luce di ciò, appare chiaro perché Dante non abbia indicato il nome dell’entità celeste: nella liturgia, infatti, l’identità del sacerdote è un elemento secondario e marginale. Ogni inchiesta volta a enfatizzare il problema dell’identità del messo non potrà, pertanto, che mancare il proprio obiettivo. Rinunciare a “dare un nome” al messo celeste non è una resa o una sconfitta ermeneutica; significa, piuttosto, riconoscere e mettere a fuoco la sua natura sacerdotale. Il messo è il sacerdote della liturgia del descensus: nella sua figura trova espressione quel complesso rapporto che lega, e al contempo separa, il “mistero” e il “ministero” del sacramento. Tale interpretazione lascia intatta la duplice raffigurazione del messo celeste, in cui, come si è visto precedentemente, coesistono tratti pagani ed elementi cristiani: «nell’oggi della rappresentazione liturgica», infatti, il sacerdote «raduna i tempi, l’antico […] e il nuovo […]» , in quanto entrambi appartengono alla storia sacra . In questo caso, per la verità, il tempo antico è quello del paganesimo, che Dante peraltro non esita a includere nella filiera della prefigurazione.
Il messo, insomma, non è un angelo e non è nemmeno Mercurio, ma è un ministro di Dio, un essere «paradossale» il cui significato è integralmente riposto nel suo ministero. E Dante si concentra sulle parole e sui gesti del messo perché da parole e gesti dipende l’efficacia della liturgia. Descrivendo il carattere della liturgia cristiana, Romano Guardini ha individuato alcuni tratti del suo “stile”: la compostezza dell’intonazione, la semplicità e schiettezza dell’espressione, il dominio della ragione sul sentimento . Non senza notare che il tipico «riserbo» del rito può dare l’impressione di «una fredda costruzione concettuale», ma in realtà implica un fervore in forme ben dominate . Annotazioni assai utili per l’intelligenza di Inferno IX. L’atteggiamento sprezzante del messo viene spesso interpretato come espressione della sua estraneità e superiorità rispetto alla realtà infernale in cui è costretto ad agire. E certo, il suo «disdegno» sottolinea, come notano molti commentatori, l’incolmabile distanza che lo separa dai diavoli e la straordinaria potenza divina di cui è portatore. Ma c’è anche l’apparente distacco rispetto ai due pellegrini: l’inviato celeste non si rivolge a Dante o a Virgilio, e mostra come unica preoccupazione quella di portare a termine il compito per cui è stato inviato, per poi lasciare rapidamente il luogo infernale. Ora ciò che a prima vista può apparire freddezza discende in realtà dal fervore dominato proprio della dimensione liturgica. I gesti e le parole del messo appaiono peraltro dotati di grande nitidezza ed evidenza, e possiedono una forte densità “simbolica”: ci riferiamo, in particolare, al tocco della porta della città di Dite attraverso la «verghetta», uno strumento che sarebbe quantomeno improprio per un’azione violenta, ma che potenzia la capacità espressiva del gesto compiuto dal sacerdos e la mette in risalto. La rinuncia all’affermazione di una espressività individuale, con forti note emotive, consente, nella liturgia, una profonda essenzialità, che sottrae al rito ogni elemento arbitrario o superfluo, e per altro verso ne intensifica la chiarezza e l’universalità. Come sottolinea Guardini, si tratta di un elemento caratteristico dello “stile liturgico”:
Nell’ambito della liturgia la forma religiosa di espressione, si tratti di parole o di gesti, di colori e oggetti, è sempre spogliata, fino a una certa misura, della sua particolarità individuale, intensificata, composta, elevata a una significazione universale .
Nel contesto liturgico di Inferno IX, dunque, la stessa particolarità individuale del sacerdote deve passare in secondo piano. Il pellegrino (e, con lui, ogni lettore della Commedia) è chiamato a riconoscere la centralità dei gesti e delle parole del rito, senza soffermarsi invano sull’identità dello “strumento animato”, che ha il solo compito di metterlo in atto. Decisivo non è il nome del messo, ma il mistero della “sostituzione” sacerdotale che ha luogo nella liturgia: di fronte alle porte di Dite, Dante incontra la presenza sacramentale di Cristo, la cui azione salvifica può risuonare nitidamente nell’esperienza del pellegrino attraverso l’officium del ministro.