Dati bibliografici
Autore: Giorgio Padoan
Tratto da: Lettere Italiane
Numero: 4
Anno: 1959
Pagine: 432-457
Uno dei punti più problematici della Divina Commedia è certamente quello che riguarda l’affermata conversione di Stazio. Si tratta esclusivamente di una invenzione poetica di Dante o il poeta aveva ripreso la notizia da una leggenda, viva nel Medio Evo e di cui poi si sarebbe perduta ogni traccia?
I critici dinanzi a questo problema così singolare sono costretti a muoversi a tentoni, anche perché nessuno spiraglio sembra offerto dai commentatori trecenteschi. Se i primissimi infatti tacciono su tale questione (senza eccepire alcunché, ma anche senza niente aggiungere che riesca utile alla soluzione della questione), un commentatore già permeato di cultura e di mentalità umanistiche quale Benvenuto da Imola non taceva la propria perplessità e la meraviglia di molti altri: «est primo sciendum quod multi mirantur quare poeta noster christianissimus facit Statium non christianum hic stare, nescientes videre causam», benché egli comprendesse — ed è questa una prima, importantissima spia — «quod poeta potuit coniecturare ex multis indiciis Statium christianum»; ma gli indizi che a Benvenuto sembravano i più probanti risultano essere in realtà estremamente tenui. Lo stesso Benvenuto ne era poco convinto se concludeva: «sed sive fuerit christianus, sive non, non facio vim in hoc...» .
Ancor maggior meraviglia ed ancor più buio, oggi, a sei secoli di distanza.
Ma davvero non è possibile ritrovare almeno una piccola traccia? È quanto si sono chiesti lo Scherillo e il Landi : la loro indagine ha contribuito a fissare alcuni punti, anche se ha lasciato intatto il nocciolo della questione; e si rende dunque necessario riassumere brevemente le loro conclusioni.
Lo Scherillo partiva dall'intima convinzione che fosse «codesta conversione religiosa del poeta della Tebaide [...] il frutto d'una speculazione ermeneutica del poeta della Commedia» : non dunque Dante avrebbe raccolto una leggenda diffusa anche nell'ambiente dotto — del tipo, per intenderci, di quella che vedeva nella IV Egloga virgiliana una profezia —, ma egli avrebbe tratto questa sua personale convinzione dalle opere stesse di Stazio. Avvertiva lo studioso che il testo della Tebaide, anzi gli ultimi libri di quest'opera potevano suggerire a Dante l’idea della conversione del poeta latino: «un indizio ei ne trovò forse nel IX, nello scoraggiamento di Apollo; una magnifica conferma nel XII, nella dipintura dell’ara della Clemenza >, dove tutto il passo appariva ispirato da sentimenti di fervida religiosità .
Lo Scherillo non immaginava certo che questa sua intuizione potesse successivamente essere sorretta da tanti rincalzi. Il Savj-Lopez ricordò allora che nella seconda redazione della Fiorita di Armannino giudice, in una parte dove sono echi evidenti della Tebaide, e proprio nel passo dove si tratta dell’ara della Clemenza, si narrava l’episodio della conversione di molti pagani ad opera di S. Paolo, dinanzi all'altare del Dio ignoto. Il Landi scoprì poi, frutto di una ricerca intelligente e generosa, come questo accostamento dell’ara della Clemenza all’altare del Dio ignoto fosse testimoniato anche in alcuni altri manoscritti contenenti chiose alla Tebaide: in due codici anzi, tra gli scolii che normalmente vanno sotto il nome di Lattanzio Placido, si innestava a questo punto un accenno all'episodio di S. Paolo (Seminario Patavino, n. 41; Ambros. Lat. M 60 sup.). Il Landi si chiedeva pertanto se non apparisse verisimile che una chiosa del genere fosse venuta a conoscenza di Dante .
La scoperta del Landi costituiva, come egli stesso sottolineava, «un'altra testimonianza del fatto notato dal Savj-Lopez, ma più antica ed anche più autorevole e significativa», che poteva essere ricondotta, come alla fonte prima, diretta od indiretta, all’Areopagitica di Ilduino; contraria mente alla convinzione dello Scherillo, il Landi perciò concludeva che Dante doveva aver tratto la notizia del cristianesimo di Stazio da una tradizione di scuola .
Il Parodi, nel vagliare serenamente e con equilibrio il contributo reale di queste indagini (fornendo anzi ulteriori precisazioni per taluni particolari), pur riconoscendo che lo studio del Landi costituiva «una non inutile e non trascurabile novità», non tacque le proprie perplessità:
«Ma gli indizii, per quanto sieno raccolti con cura ed abilità e illustrati con acume e dottrina, non mi paiono per ora sufficienti alla prova che son chiamati a fornire. L'importante scolio trovato dal Landi dice soltanto che l’ara della Clemenza era l’ara stessa del Dio ignoto, e al più si può credere che allo scoliaste balenasse il sospetto che Stazio, inconsciamente, celebrando quella, celebrasse questa. Sarebbe una ripetizione in piccolo di ciò ch'era avvenuto per l’egloga IV di Virgilio: non si pensava già che Virgilio fosse cristiano e sapesse, ma che, a sua insaputa, qualche raggio della verità s'era infiltrato nella sua poesia. Basta questo a ridurre al loro modesto valore anche gli altri indizi raccolti dal Landi...» .
Da allora nessun tentativo è stato più fatto, se non per risolvere, almeno per accennare timidamente ad una possibilità di soluzione dell’arduo problema. Se il commentatore più recente, il Sapegno, afferma a tal proposito che «la conversione cristiana di Stazio è una finzione del poeta, che forse prendeva lo spunto da qualche leggenda corrente nel medioevo» , ciò rappresenta un passo indietro, anche sul poco che era stato acquisito dall'indagine del Landi; mentre noi siamo profondamente convinti — e su questo particolare problema ritorneremo più ampiamente — che non si coglie la vera essenza della poesia dantesca fino a quando non ci si renda definitivamente conto che ad essa è estraneo il concetto di «finzione», nel senso umanistico del termine: vi è invece determinante una serietà morale e religiosa rigorosissima, tanto rigorosa da negare la salvezza a Virgilio (cosa che sarebbe risultata assai più facile e probabilmente anche più gradita a Dante stesso).
Vero è che poco bastava alla fantasia dantesca per determinare una propria intima convinzione, per creare situazioni poetiche e soluzioni morali nuove: alla sua fantasia infatti, come ebbe a dire un grande maestro, il Parodi, «non occorreva per tessere se non un qualsiasi frusto e grossolano canovaccio» .
È dunque impossibile ritrovare questo canovaccio? Anche se i pochi indizi a disposizione dello studioso consigliano il pessimismo, non ci pare giusto che ci si arrenda definitivamente. Vale la pena di provare e riprovare, pur senza pretendere di trovare l’unica vera soluzione, limitandoci a ricercare per quali vie Dante potesse essere pervenuto a tale convinzione: questo è infatti l'utile insegnamento che si può trarre dalle indagini compiute dallo Scherillo e dal Landi.
Va anzitutto ricordato che Dante non è il solo ad attribuire la vera fede a Stazio: anche Giovanni Colonna, contemporaneo di Dante, nel suo Liber de viris illustribus (come ha segnalato il Sabbadini , e noi abbiamo riscontrato sul ms. Marciano Lat. X, 58) pone Stazio, tolosano, tra gli scrittori cristiani. Come il Sabbadini stesso osservò, non vè alcuna traccia che induca a credere che il Colonna abbia conosciuto la Commedia e che esclusivamente da questa abbia tratto la notizia: tale argomento tuttavia, troppo debole, non è sembrato convincente, e a ragione. Ma prima di licenziare troppo sbrigativamente la scoperta del Sabbadini (oggi spesso ignorata), i critici avrebbero dovuto considerare che non vi è nemmeno alcuna prova che il Colonna abbia letto la Commedia, e che comunque resta il fatto incontestabile, e di una certa importanza, che il Colonna avrebbe accettato esplicitamente, senza avanzare alcuna riserva e senza nemmeno avere la necessità propria dell’esegeta della Commedia, la rivelazione di Dante . Accanto a questo va ricordato un altro importante passo segnalato dal Sabbadini, perché, nonostante che vi si nomini Ovidio, è evidentemente collegato a questa leggenda del cristianesimo di Stazio, e proprio nella formulazione che troviamo nella Commedia .
È poi certo che, secondo Dante, Stazio si sarebbe convertito al cristianesimo prima di por termine alla Tebaide : egli fu illuminato da Virgilio, che nella sua famosa IV Egloga annunziava la venuta del Messia. Non solo dunque Dante non conosceva, o non accettava, la leggenda del martirio di Stazio , ma siamo evidentemente ricondotti ad un ambiente dichiaratamente letterario, all’interpretazione cristiana di un testo pagano (la IV Egloga), ad un avvenimento preciso (la venuta del Redentore), ad un’opera particolare (la Tebaide). Di fronte a questi dati, se risulta genericamente esatta la direzione della ricerca dello Scherillo e del Landi, riesce però ancor meno persuasiva la soluzione proposta. Di fronte al maestro che, pur pagano, aveva profetato la venuta di Cristo, di fronte a quel testo che ancora dopo secoli Stazio ricorda con venerazione, risulterebbe un poco meschina, e troppo contorta, l’idea di descrivere l’ara dedicata ad un Dio sconoscinto. Ci troviamo invece di fronte ad un nome preciso, ad un avvenimento reale, il più grande di tutti: la venuta di Cristo.
Alcuni appunti, da noi raccolti mentre seguivamo altre piste, ci riconducono proprio in questa direzione.
È anzitutto evidente che la questione del cristianesimo di Stazio va inserita nel più vasto problema dei rapporti della letteratura medievale con gli autori classici, e cioè della tendenza dei lettori medievali a cercare anche in quelle «auctoritates» la riprova delle verità indiscusse del cristianesimo: tendenza che si rivelava nelle forme più diverse, dal fiorire delle leggende che volevano cristiani Seneca, Ovidio ed altri, alla necessità, teoricamente affermata da Rabano Mauro, di «convertire al dogma» i poeti gentili, all’interpretazione allegorica dei testi, che rivelava al commentatore e al lettore medievale l’esistenza, anche in quelle opere di «sapienza secolare», delle esigenze più tipicamente moralistiche e cristiane .
Dietro ad ogni poema era possibile scoprire una moralità che ne costituiva anzi il nucleo più importante, poiché era il messaggio stesso del poeta, il quale talvolta poteva essere persino il profeta inconsapevole di verità divine. E non solo l’Eneide, ma tutti i poemi conosciuti, Metamorfosi comprese, e persino i Remedia amoris, erano letti in chiave moralistica.
Ad una interpretazione allegorica morale non poteva certamente sfuggire la Tebaide di Stazio, vale a dire uno dei libri più letti e studiati durante il Medioevo. Anche per la Tebaide infatti poteva dirsi quello che per ogni commentatore era una verità indiscussa e generale: il senso letterale era paragonato al guscio di una noce, mentre la polpa, l'essenziale, rimaneva nascosta dentro, come si afferma appunto nel commento alla Tebaide contenuto nel Paris. Lat. 3012:
«Quam ob rem, “si parva licet componere magnis”, non incommune car mina poetarum nuci comparabilia videntur: in nuce enim duo sunt, testa et nucleus, sic in carminibus poeticis duo, sensus litteralis et misticus. Latet nucleus sub testa, latet sub sensu litterali mistica intelligentia. Ut habeas nucleum, frangenda est testa; ut figure pateant, quatienda est littera. Testa insipida est, nucleus saporem gustandi reddit; similiter non littera, sed figura palato intelligentie sapit. Diligit puer nucem integram ad ludum, sapiens autem et adultus frangit ad gustum; similiter si puer es, habes sensum litteralem integrum nullaque subtili expositione pressum in quo oblecteris; si adultus es, frangenda est littera et nucleus littere eliciendus, cuius gustu reficiaris. His itaque aliisque pluribus modis tam Grecorum quam Latinorum poemata possunt commendabilia probari, quorum summa erat intentio ut nullos aut simplices aut peritos ...t utilitatis immunes relinquerent».
È lo stesso autore di questo passo, «sanctus Fulgencius episcopus», — probabilmente Fulgenzio Planciade, spesso confuso (dagli scolastici, ma anche dall’ Ottimo e dal Boccaccio) con S. Fulgenzio Ruspense — che ci dà l’interpretazione morale della Tebaide: una spiegazione di una importanza estrema, sì che lascia alquanto meravigliati che i dantisti non abbiano fermato la loro attenzione su un testo tanto a portata di mano .
Dietro alla descrizione di fatti storici Stazio avrebbe inteso parlare dell'anima umana («Hec [scil. Thebe] est humana anima, quam divina benignitas creavit ad imaginem et similitudinem suam»), della sua virtù primitiva, della sua decadenza, dei vizi che la corruppero:
«Ad ultimum duellant fratres, id est avaritia et luxuria, et mutuo se perimunt. Neque enim in eodem se simul patiuntur avaritie severitas et luxurie lascivia. Sed his peremtis vitiis in anima insurgit superbia, que bene dicitur Creon quasi cremens omnia».
Ed ecco, dopo il contrasto di questi tre vizi — che ricordano assai da vicino il valore allegorico delle fiere dantesche —, la conclusione, a nostro giudizio interessantissima:
«Uxores vero regum, id est affectiones humane, que prius his regibus succubuerant supplicantur Theseo, id est deo; Theseus quasi “theos suus”. Theseus pugnat cum Creonte, quando humilitate docetur a deo vinci superbia; et vincitur Creon, id est superbia, nesciens humilitati resistere. Reges etiam sepeliuntur, quia in humilitatis adventu omnis occasio elationis suffocatur. Tanto autem vitiorum conflictu Thebe, id est humana anima quassata est quidem, sed divine benignitatis clementia subveniente liberatur».
Come si vede, siamo ancora nell'ambito di una interpretazione morale del poema, non necessariamente cristiana. Non è facile cercare di ricostruire se e come dall’interpretazione allegorica in chiave moralistica si poteva passare ad una interpretazione cristiana; ma è certo che proprio qui si trova il punto di partenza della leggenda accreditata da Dante, come l’analoga leggenda di Virgilio profeta trovava la propria base nell’interpretazione cristiana della IV Egloga. Ora, nel passo ricordato, non solo il concetto di Dio-umiltà è tipicamente cristiano, ma due affermazioni appaiono ancor più interessanti, anche perché si prestavano ad ulteriori importanti svolgimenti: «Theseo, id est deo; Theseus quasi “theos suus”»; «Thebe, id est humana anima quassata est quidem, sed divine benignitatis clementia subveniente liberatur». Questo è dunque il parallelo steso dal commentatore: secondo il senso letterale, Tebe è liberata per l’arrivo di Teseo; secondo il senso allegorico, l’anima umana è resa libera per la venuta della bontà divina, che cancella il peccato. Cristo non è nominato, ma per un lettore medievale questo era già abbastanza per suggerire implicitamente l’idea della venuta del Redentore. Ed è estremamente significativo che l'etimologia di Teseo venga successivamente, in altri scrittori, meglio precisata (se pure nello scritto attribuito a S. Fulgenzio non si tratta di una banalizzazione del copista), con un accostamento ancor più immediato: già in Bernardo Silvestre troviamo: «dicitur Theseus divinus et bonus: “theos” enim deus, “eu” bonus», etimologia che (salvi naturalmente errori di copisti, banalizzazioni ecc.) diverrà un vero e proprio topos, accettato ancora dai primi umanisti italiani, e principalmente da Coluccio Salutati .
È verisimile pensare che Teseo, cioè un eroe pagano, possa allegoricamente essere interpretato come «figura» di Cristo? Chiunque abbia una minima conoscenza dell’allegorismo medievale sa che questo non solo è possibile, ma, già sulla base di questi primi dati, probabilissimo.
La Patristica si era servita di moltissime «figure» simboliche ed allusive per rappresentare Cristo (o per spiegare il senso allegorico di passi scritturali, dove, a giudizio del commentatore, si accennava al Redentore), figure le più diverse e talvolta anche contrastanti tra loro (pietra, serpente ecc.); e, tra i personaggi biblici, in Sansone frequentemente si voleva vedere allegoricamente raffigurato Gesù. Eppure nessuno pensava di porre in dubbio la personalità storica di Sansone (la cui vita, si noti, era stata tutt'altro che priva di vizi): occorre tener sempre presente — ché è questo un punto essenziale dell’allegorismo medievale — che lettera ed allegoria hanno ciascuna una propria realtà autonoma, e che pertanto la lettera può narrare un fatto storicamente avvenuto e l’allegoria accennare ad un'azione ventura, senza che tra loro sia alcun nesso logico o storico. In uno dei Sermones dubii attribuiti a S. Agostino è scritto:
«Quid erat Samson? Si dicam: Christum significabat, verum mihi dicere videor [...]. In eo enim quod virtutes et mirabilia operatus est Samson, caput Ecclesiae Christum significavit; in eo autem quod prudenter fecit, illorum qui in Ecclesia juste vivunt imaginem gessit: ubi forte praeventus est et incaute egit, eos qui in Ecclesia peccatores sunt figuravit. Meretrix quam Samson in conjugium sumit, Ecclesia est, quae ante agnitionem unius Dei cum idolis fornicata fuit, quam postea sibi Christus adiunzxit...» .
Tale accostamento ebbe vita floridissima e lunga. Tra le testimonianze più significative citiamo ancora, sottolineando che si tratta di un testo che ebbe una diffusione quasi incredibile, un passo tratto dalle Omelie di S. Gregorio:
«…Quod bene in libro Iudicum Samson illius [scil. Christi] facta significant (Iudic., XVI, I, 2, 3) [...]. Quem, fratres charissimi, hoc in facto, quem nisi Redemptorem nostrum Samson ille significat?» .
È ben vero che con Sansone siamo sempre nell’ambito della Scrittura; ma va detto che Sansone era spessissimo avvicinato ad Ercole , e che talvolta persino lo stesso Ercole era prescelto a raffigurare Cristo. Marcel Simon, nel suo studio Hercule et le Christianisme , indica appunto alcuni di questi interessantissimi accostamenti: se Ercole e Sansone sono accostati nel titolo di un manoscritto del sec. V, ora alla Biblioteca di Lorsch («De duodecim virtutibus Herculis et de Samsone fortissimo») , ancor più importante è il fatto che in un manoscritto della Landesbibliothek di Dresda una canzone attribuita a Dante nomina Ercole, mentre allude chiaramente a Cristo . Si tratta peraltro di un accostamento tutt'altro che raro: segnaliamo che anche nel Paris. Lat. 13191 (sec. XIII ex.), contenente chiose anonime all'Eneide e una Mythologia fabularum, vi si accenna esplicitamente: «Unde cum [scil. Hercules] plura fecit, Christi virtutes ei adsignantur...» (c. 120 v).
Non è tutto. Nel ms. 5069 della Bibliothèque de l’Arsenale (sec. XIV ex.), contenente l’Ovidio di Chrestien de Troyes, le miniature presentano accostamenti particolarmente interessanti tra miti pagani e racconto biblico: tra questi troviamo che Teseo il quale abbandona Arianna per Fedra prefigura la scelta che fece Gesù tra la Chiesa e la Sinagoga .
Non è inverosimile allora pensare che qualche chiosa nota a Dante, se non Dante stesso, abbia messo in relazione — per la verità senza grande sforzo di fantasia — la venuta di Teseo, duca di Atene, liberatore di Tebe, con la venuta di Cristo, liberatore del genere umano: l’uno aveva ricondotto la pace e la giustizia e aveva ridato ai caduti, con la sepoltura, la pace eterna, altrimenti negata, l’altro, Colui che era la Pace e la Giustizia, aveva riaperto all'umanità le porte del cielo. Né va dimenticato che Atene meritamente poteva servire ad indicare il regno di Dio (che Dante stesso nel Convivio, III, XIV, 15 chiama appunto le «Attene celestiali»), mentre Tebe è sempre ricordata, anche da Dante, come la città caduta per i propri peccati in preda ad un sanguinoso destino, quasi come quell’«aiuola che ci fa tanto feroci».
Di fronte a tale interpretazione allegorica Stazio sarebbe apparso cristiano: ché evidentemente non siamo più nell’ambito di una interpretazione semplicemente moralistica. Eppure nella Tebaide Cristo non era mai esplicitamente nominato, eppure si ricordavano gli antichi dei! Ben si comprende il dubbio di Virgilio:
«Or quando tu cantasti le crude armi
de la doppia tristizia di Iocasta
— disse il cantor de’ buccolici carmi —,
per quello che Cliò teco lì tasta,
non par che ti facesse ancor fedele
la fede…»
(Purg., XXII, 55-60).
Quindi, conclude Virgilio, se tu Stazio ti sei convertito al cristianesimo, ciò è avvenuto «poscia», dopo la composizione della Tebaide. Ma l’impressione di Virgilio è errata. Risponde Stazio:
«E pria ch'io conducessi i Greci a’ fiumi
di Tebe poetando, ebb'io battesmo;
ma per paura chiuso cristian fu’ mi,
lungamente mostrando paganesmo»
(ibid., 88-91),
alludendo ad un passo della Tebaide (VII, 424), che così è spiegato nel commento attribuito a S. Fulgenzio:
«Hi septem reges septem artes liberales sunt [...]. Thebas petunt, sed in via sitiunt. Quid mirum si sitiunt qui fonte fidei carent? secularis scientie potus sitim non minuit, sed auget»;
ed è questo il primo accenno che riconduca implicitamente a riconoscere la professione di fede cristiana nel poeta latino.
L’ultima parte della Tebaide fu dunque scritta da un cristiano, ancorché «chiuso»: di ciò l’opera doveva ben portare qualche segno, anche se del tutto allusivo, per la paura dell'autore. Ed è proprio nell'ultima parte della Tebaide che appare la figura di Teseo, vale a dire di quel Redentore la cui venuta era stata annunziata da Virgilio.
A maggiormente rafforzarci in questa nostra convinzione, perché dimostra la diffusione anche in Italia, anche ai tempi di Dante, dell’interpretazione allegorica di Teseo da noi segnalata, viene un passo di uno dei primi esegeti di Dante, il cui commento è ancora inedito , benché il suo contributo sia preziosissimo, Guido da Pisa. Guido così spiega il significato allegorico del mito di Teseo e del Minotauro:
«Allegorice autem istam fabulam sic accipimus: iste enim Laberintus mundum significat quia plenus est omni fallacia et errore. Nam mundum intrantes nesciunt exire de illo, sicut nec de Laberinto tributari pueri Athenarum. Dicitur autem Laberintus a “labor-ris” et “intus ”, quia homo intrando illum labitur intus, ut dicetur infra, sic mundum intrantes per diversa peccata labuntur. Per Minotaurum vero qui intrantes pueros devorabat, dyabolum intellige qui animas devorat, et sibi incorporat. Per Theseum autem, ducem scilicet Athenarum, accipe Christum, et per nominis interpretationem ei officii dignitatem. Interpretatur enim Theseus bona positio, ab “eu” quod est bonum, et “thesis”, quod est positio; inde Theseus bona positio. Et Christus et bona fecit iuxta illud: “bene omnia fecit”, et in bonum signum positus est, iuxta illud quod dixit Symeon ad Mariam, matrem eius: “Ecce hic positus est in ruinam et in resurrectionem multorum in Israel”; sicut Theseus fuit ruina Minotauri, quem interfecit, et resurrectio id est liberatio Athenarum que a tributo per ipsum liberate sunt. Dux autem Theseus dicitur Athenarum, et bene Christum ducem eternitatis significat. Interpretantur enim Athene eterne sive immortales ab “athanatos”, quod est immortalitas, vel eternitas. Iste igitur dux (id est Christus) Minotaurum (id est Diabolum) occidit proiciendo in os eius picem et pilos, id est carnem et sanguinem in sua potestate ponendo, et sic genus humanum ab eius dominio liberavit, sicut liberavit Theseus populum Athenarum. Sed nota quod Theseus consilio et auxilio Adriagnes hoc fecit, et Christus consilio et auxilio Spiritus Sancti dyabolum occidit et populum liberavit. Nam Adriagnes dicitur ab “andor”, quod est virtus, et Christus quicquid faciebat in virtute Spiritus Sancti faciebat. Unde Christus ait in Evangelio: “Porro si in spiritum dei eicio demonia etc.”. Filo autem de Laberinto exivit Theseus, et Christus subtilitate sue prudentie, dum a morte capitur, cepit mortem. Unde canit Ecclesia: “Qui mortem nostram moriendo destruxit”. Vel per Laberintum possumus accipere Limbum in quem Christus die sue passionis descendit, Diabolum ligavit, ianuas inferni confregit, patres sanctos inde eduxit, et sic inde victor gloriosus ascendit» .
Si osservi con quanta varietà di accostamenti sia sviluppato il parallelo Teseo-Cristo, i quali certamente, dato il carattere del commento di Guido e le letture che presuppone, derivano in gran parte da fonti preesistenti; e si tenga a mente particolarmente la spiegazione allegorica del Limbo, estremamente importante per quanto verremo ora dicendo. Guido da Pisa, che già in altra occasione segnalammo per le utili testimonianze che il suo commento dantesco offre di una cultura in parte ancora ignara degli ideali umanisti e pertanto (almeno in questo senso) più vicina allo spirito di Dante , ci rivela ancora una volta — al di là di evidenti banalizzazioni e del gretto moralismo che domina gran parte della sua esegesi — una traccia preziosa.
Del resto va notato come anche l’arte figurativa italiana tendesse a rappresentare il demonio come qualcosa che era anzitutto contro l'ordine della natura, poiché all’umano univa indissolubilmente il bestiale: proprio per questo lo stesso Centauro, unione di due nature contrastanti, stava spesso a rappresentare il demonio. E i Centauri, Cerbero (come vedremo), il Minotauro soprattutto, erano tutti demoni — dalla forma definitivamente snaturata — vinti da Teseo. Nota il Castelli che nell’arte figurativa «il demone viene rappresentato come la inconsistenza di una natura umana e bestiale, ma in quanto la bestia non è che un aspetto dell'essere umano, cioè un corporeo senza intelligenza, ma con passione, e passione per la distruzione. La bestia che atterra: l’impeto del toro accecato, la ferocia come atto che tende a smembrare, disfare, far sì che qualche cosa non sia più» . Viene in mente la rapacità distruttrice delle Arpie, la rabbia violenta del Minotauro : incarnazioni demoniache (come intese l’uomo medievale), che dall’Inferno erano uscite per apparire tra gli uomini, secondo la testimonianza di storici (o stimati tali) e di poeti.
Attraverso l’interpretazione allegorica del mito di Teseo dunque la Tebaide poteva apparire un poema cristiano. Ma Dante fu a conoscenza di questa interpretazione della Tebaide? Inutile cercare ciò che il poeta non ci ha detto. A questa domanda vorremmo piuttosto sostituire un’altra formulazione, che potrebbe permettere di aggirare l'ostacolo: erano estranee al mondo culturale di Dante queste figurazioni allegoriche, per cui un eroe pagano poteva essere prescelto a raffigurare Gesù? E, in caso affermativo, è possibile trovare nella Commedia un'eco di questa interpretazione allegorica di Teseo ?
Anzitutto è certo che Dante — lo dichiara egli stesso più volte esplicitamente nel Convivio — era profondamente convinto che ogni poema celasse una allegoria morale, e (per nostra fortuna) egli si sofferma talvolta a citare qualche esempio.
Per meglio chiarire il principio generale dell’allegorismo Dante riferisce una interpretazione in chiave moralistica delle Metamorfosi ovidiane:
«L'altro [scil. senso] si chiama allegorico, e questo è quello che si nasconde sotto ’l manto di queste favole, ed è una veritade ascosa sotto bella menzogna: sì come quando dice Ovidio che Orfeo facea con la cetera mansuete le fiere, e li arbori e le pietre a sé muovere; che vuol dire che lo savio uomo con lo strumento de la sua voce faria mansuescere e umiliare li crudeli cuori, e faria muovere a la sua volontade coloro che non hanno vita di scienza e d’arte: e coloro che non hanno vita ragionevole alcuna sono quasi come pietre » (Conv., II I, 3).
Naturalmente non solo le Metamorfosi sono soggette a tale interpretazione, ché, sempre secondo quanto Dante ci dice espressamente, anche l’Eneide ha un significato morale. Il poema virgiliano rappresenta, secondo Dante, le età dell’uomo, con i loro caratteri distintivi: interpretazione questa piuttosto importante ai fini del nostro discorso, perché ci riconduce, come alla fonte prima ed indiretta, proprio a Fulgenzio, che tale convinzione espresse nel suo De continentia Vergiliana. L'interpretazione fulgenziana venne successivamente ripresa e meglio puntualizzata da un altro commentatore, che abbiamo già avuto occasione di menzionare, Bernardo Silvestre : egli sottolineò maggiormente gli spunti mistici già presenti nell’esegesi di Fulgenzio e mise ancor più in rilievo come le vicissitudini di Enea rappresentassero la storia dell'anima, la quale, benché travagliata dai vizi, mediante l'acquisizione della sapienza e l’esperienza, perviene alla virtù, cioè alla conoscenza di Dio: «nil enim aliud querit rationalis spiritus nisi per creaturarum agnitionem creatorem agnoscat» . Ma su questo particolare problema, come dicemmo, dovremo ritornare in altra sede; basti qui osservare come questa interpretazione sia tutt'altro che estranea a Dante. Per como dità degli studiosi riportiamo qui anche questo passo dantesco:
«E così infrenato mostra Virgilio, lo maggiore nostro poeta, che fosse Enea, ne la parte de lo Eneida ove questa etade si figura; la quale parte comprende lo quarto, lo quinto e lo sesto libro de lo Eneida. E quanto raffrenare fu quello, quando, avendo ricevuto da Dido tanto di piacere quanto di sotto nel settimo trattato si dicerà, e usando con essa tanto di dilettazione, elli si partio, per seguire onesta e laudabile vita e fruttuosa, come nel quarto de l’Encida scritto è!...» (Conv., IV, XXVI, 8; e cfr. ancora 9-15; IV, XXIV, 4-10).
Ancora più importante — eccezionale, anzi, per la nostra tesi — è la curiosissima interpretazione allegorica di Catone e Marzia, personaggi della Farsalia, per la quale siamo ancor più chiaramente ricondotti ad una «lettura » allegorico-mistica del poema di Lucano molto vicina a quell’interpretazione della Tebaide sulla quale abbiamo soffermato l’attenzione degli studiosi, e che rivela, se non forse una paternità comune, certamente un medesimo modulo interpretativo, un comune ambiente culturale:
«E che queste due cose convegnano a questa etade, ne figura quello grande poeta Lucano nel secondo della sua Farsalia, quando dice che Marzia tomò a Catone e richiese lui e pregollo che la dovesse riprendere guasta: per la quale Marzia s’intende la nobile anima. E potemo così ritrarre la figura a veritade. Marzia fu vergine, e in quello stato si significa l'adolescenza; poi si maritò a Catone, e in quello stato si significa la gioventute; fece allora figli, per li quali si significano le vertudi che di sopra si dicono a li giovani convenire; e partissi da Catone, e maritossi ad Ortensio, per che si significa che si partì la gioventute e venne la senettute; fece figli di questo anche, per che si significano le vertudi che di sopra si dicono convenire a la senettute. Morì Ortensio; per che si significa lo termine de la senettute; e vedova fatta — per lo quale si significa lo senio — tornò Marzia dal principio del suo vedovaggio a Catone, per che si significa la nobile anima dal principio del senio tornare a Dio. E quale uomo terreno più degno fu di significare Iddio, che Catone? Certo nullo. E che dice Marzia a Catone? [...]. E dice Marzia: “Dammi li patti de li antichi letti, dammi lo nome solo del maritaggio”; che è a dire che la nobile anima dice a Dio: “Dammi, Signor mio, omai lo riposo di te; dammi, almeno, che io in questa tanta vita sia chiamata tua” [...]. Per queste due cagioni si muove la nobile anima; e vuole partire d’esta vita sposa di Dio, e vuole mostrare che graziosa fosse a Dio la sua creazione» (Conv., IV, XXVIII, 13-19).
Ovidio, Virgilio, Lucano e Stazio sono i quattro poeti latini che costituivano la base stessa dell’insegnamento della grammatica, ché le loro opere principali erano i testi fondamentali, e talvolta esclusivi, nelle scuole del tempo. Metamorfosi, Eneide, Farsalia e Tebaide occupano tutte e quattro insieme nella cultura dantesca al tempo del Convivio un posto di primissimo piano, anzi (viene spontaneo di osservare, con il Renucci) quasi esclusivo, rispetto naturalmente ai testi classici: anche nel De Vulgari Eloquentia (II, VI, 7) sono citati questi quattro poeti tutti insieme, mentre gli altri (Livio, Plinio, Frontino, Orosio «et multos alios») sono posti in secondo piano. È lecito allora avanzare l'ipotesi che Dante abbia appreso in una delle scuole che frequentò, o da un maestro che ebbe occasione di avvicinare, quando più insistente divenne in lui il desiderio di studiare i poeti latini , la parte principale ed essenziale di queste allegorie (cui aggiunse forse qualche considerazione personale): esse sembrano derivare tutte da un medesimo modulo interpretativo, che prende le mosse da Fulgenzio e dai fulgenziani, secondo però ulteriori, suggestive indicazioni, le quali forse possono esser ricondotte alla scuola francese, e dagli scolari (spesso divenuti a loro volta professori al loro paese d'origine) diffuse in tutta Europa: è in tal senso indicativo che un manoscritto contenente il commento all’Eneide del Silvestre lasci pensare, piuttosto che ad una comune trascrizione, ad appunti presi durante le lezioni .
Apparirebbe allora piuttosto strano che Dante, mentre studiava insieme le opere maggiori dei quattro poeti latini, avesse appreso le interpretazioni allegoriche dell’Eneide, delle Metamorfosi, della Farsalia, e non della Tebaide: quando invece, come abbiamo visto, anche per il poema di Stazio esisteva un commento assai vicino a quelli che Dante certamente aveva conosciuto per gli altri tre poeti latini, quando l’interpretazione del passo citato della Farsalia rivela un metodo interpretativo parallelo a quello seguito da Fulgenzio e dal Silvestre per l’Eneide, e, in parte almeno, anche a quello seguito da Fulgenzio per la Tebaide.
Nel Convivio anzi Dante cita alcuni versi della Tebaide a dimostrare le virtù proprie all'adolescenza (III, VIII, 10; e soprattutto IV, XXV, 6-10) , giovandosi evidentemente di una interpretazione morale analoga a quella che egli usa per la Farsalia, e massimamente per l’Eneide, per la quale, ripetiamo, risulta con certezza che si deve risalire — tramite intermediari ancora ignoti — al Silvestre e a Fulgenzio.
Certamente si può obiettare (e noi per primi ci siamo posti questa domanda) se sia lecito attribuire tanta importanza ad un commento, quale quello testimoniato dal Paris. Lat. 3012, per il quale non è rimasta alcuna traccia che ne testimoni la diffusione o l’influenza su altri commentatori.
Ma questa obiezione cade se si pensa quante opere, quanti commenti, quanti manoscritti sono andati perduti, quanti altri sono ancor oggi ignorati. Ancora pochi anni fa non si conosceva del commento del Silvestre che un solo manoscritto: eppure, mentre sono venute alla luce due nuove testimonianze della tradizione manoscritta, ora sappiamo che Coluccio Salutati (e in tempi tutt'altro che favorevoli a quel tipo di esegesi) conobbe, senza possibilità di dubbio, quel testo! E nessun codice, che si sappia, ci ha conservato quell’interpretazione della Farsalia che pure Dante ricorda. Il nome di Fulgenzio aveva grande autorità, particolarmente nell'ambiente delle scuole, e un commento a lui attribuito non poteva dunque essere di alcuna risonanza.
Sulla base di quanto siamo venuti osservando ci pare pertanto possibile affermare che non solo l’allegorismo — anzi proprio il tipo di allegorismo che abbiamo visto riguardo alla Tebaide — non è estraneo al mondo culturale di Dante, ma che tali interpretazioni sono intimamene connesse con la sua personalità di erudito e di poeta. La figurazione allegorica Catone-Dio, che abbiamo notata essere esplicitamente dichiarata nel Convivio, è infine per la nostra tesi preziosa .
La seconda parte dell'indagine proposta richiede un’analisi di altro tipo, e forse più impegnativa.
Il canto IX dell'Inferno è stato uno dei più tormentati dalla critica, eppure è ancor oggi il più denso di incognite; esso, tra l’altro, rinserra in sé il problema fondamentale dell'uso che Dante fa della mitologia.
Diremo francamente che è nostra profonda convinzione che niente sia più inesatto che ritenere Dante un pre-umanista. Dante vive tutto tuffato proprio in quel mondo e in quelle convinzioni che l’umanesimo ha defini tivamente abbandonato. Stazio cristiano, Virgilio inconscio profeta, la realtà demoniaca di tanta parte della mitologia pagana: ecco, tanto per citare esempi che non si prestano ad essere messi in discussione, alcune convinzioni fondamentali di Dante che l'umanesimo non accettò, e non poteva accettare, e che noi, eredi della mentalità umanistica, facciamo fatica a capire.
Quale senso ha il ricordo della sconfitta di Cerbero nelle parole del Messo? È forse un ricordo mitologico, del quale Dante poeta si sarebbe servito per sfoggiare erudizione, come farà il Boccaccio in alcune sue opere giovanili? È solamente il ricordo di una sconfitta realmente avvenuta, o l’accenno rinvia ad altro, particolarmente in un regno nel quale il nome di Cristo non è mai pronunciato, e dove la stessa struttura è un continuo richiamo alla mitologia classica , dove Capaneo impreca a Giove e Virgilio dice che egli ha Dio in disdegno?
«O voi ch’avete li intelletti sani,
mirate la dottrina che s’asconde
sotto il velame de li versi strani»
(Inf., IX, 61-3):
nessuna dichiarazione del poeta forse è più esplicita di questa, nessuna è rimasta tanto inascoltata. Dinanzi alla città dietro le cui mura si cela anzittutto il peccato dell’eresia, cioè il peccato che più apertamente viola la religione cattolica, nel ricordare la sconfitta di Cerbero per rintuzzare l’oltracotanza dei demoni, in realtà il Messo allude a ben altra discesa in Inferno, la discesa di Colui che un’altra porta chiusa aveva spalancato, e per sempre. Cristo, rotti i serrami della porta dell'Inferno e vinto il male stesso, come trionfatore trasse gli spiriti meritevoli del Limbo: quella fu una data fondamentale nella storia dell'umanità e nella storia dell'Inferno. Quel giorno il regno infernale conobbe un Possente, ne fu materialmente squassato, i demoni sgomenti furono vinti:
«Te, o beate nate Virginis,
cano, Solymitane.
…
Et descendisti sub Tartara,
animarum ubi plurima
mors tenebat agmina.
Horruit te senex tunc
Orcus antiquus,
et voracissimus canis
recessit a limine»,
come ricorda, in un'interessantissima unione di cristianesimo e mitologia classica, un inno di Sinesio .
Nel parlare velato ed allusivo del Messo, dietro la menzione del fatto mitologico, è da vedere il ricordo della vittoria di Cristo : è per quella vittoria che Dante può assolvere alla sua missione, è nel pensiero di quella vittoria che Virgilio allega la propria sicura certezza nell’arrivo del Messo. Non è a caso che il ricordo della discesa di Cristo ritorna proprio in questa parte del poema, proprio in questo episodio:
«Questa lor tracotanza non è nova,
che già l’usaro a men secreta porta,
la qual sanza serrame ancor si trova»
(Inf., VIII, 124-26).
Ed è ancora ricordata poco dopo (XII, 37-41), quando i poeti discendono la ruina, presso la quale è il Minotauro, per venire al cerchio ove sono guardiani i «maladetti» Centauri: l'uno e gli altri, demoni infernali vinti da Teseo, colui che, pur essendo il figlio del re, andò da Atene a Creta per liberare il proprio popolo dalla schiavitù del grave tributo al Minotauro . E abbiamo trovato in Guido da Pisa:
«Vel per Laberintum possumus accipere Limbum in quem Christus die sue passionis descendit, Diabolum ligavit, ianuas inferni confregit, patres sanctos inde eduxit, et sic inde victor gloriosus ascendit».
Il rimprovero minaccioso del Messo contiene poi una indicazione precisa. Ai «cacciati del ciel», ad onta di quella loro tracotanza già usata contro Cristo, il Messo ricorda la sconfitta di Cerbero:
«Cerbero vostro, se ben vi ricorda,
ne porta ancor pelato il mento e ’l gozzo»
(Inf., IX, 98-99).
Tutti i commentatori, sulla scorta di alcuni passi dei classici latini, e soprattutto di Seneca, chiosano ricordando la nota impresa di Ercole: l’allusione risulterebbe infatti chiara e priva di alcuna problematica. Ma davvero si allude ad Ercole? La domanda risulta tanto più legittima in quanto Ercole non è nominato né in questo né in canti a questo vicini, e nessun altro passo dantesco soccorre.
L'impresa di Ercole così può essere riassunta: Piritoo e Teseo, discesi all’Averno per rapire Proserpina, furono sconfitti, e Teseo per punizione venne trattenuto come prigioniero. Ercole, reso edotto di ciò da Piritoo, discese a sua volta e liberò Teseo; e, dato con la mazza sulle teste di Cerbero e legatolo con una triplice catena, trasse il cane infernale fuori d'Averno.
Appare patentissimo che, se Dante avesse conosciuto il mito in questa formulazione (o se, pur conoscendolo, ad esso si fosse riferito), sarebbe caduto in una gravissima contraddizione.
Di che infatti si dolgono le Erinni con tanta rabbia, sì da ricordare proprio quell'episodio come la prima radice dei mali dell’Inferno (con un riferimento, anche in questo preciso, alla discesa di Cristo)?
«Mal non vengiammo in Teseo l’assalto!»
(Inf., IX, 54).
E si noti che le Furie sarebbero state proprio esse le guardiane di Teseo, durante la prigionia nell’Averno!
Questo significa chiaramente che, secondo Dante, l’assalto di Teseo riuscì, e rimase invendicato ; ché anzi da quell’assalto venne un'umiliazione alle forze diaboliche, tale da rendere possibili ulteriori affronti. Da un punto di vista grammaticale e logico non vi può esser adito a dubbi. Il Buti, giudizioso come sempre, sottolineava:
«non si vendicarono della vendetta di Teseo: ché se si fossero vendicate, Dante non avrebbe ora ardimento di scendervi» .
È però interessante osservare che quasi tutti i commentatori trecenteschi poco dopo, narrando il mito di Ercole secondo la tradizione più vicina ai testi classici, ma che essi derivavano soprattutto da quella Historia Scolastica del Comestore che Dante pare non conoscesse, cadevano, senza accorgersi, nella contraddizione segnalata. Eppure lo stesso Boccaccio, che chioserà le parole del Messo narrando l'impresa di Ercole, qui osservava:
«E dicono sé aver mal fatto a non vengiarlo [scil. l'assalto di Teseo], percioché, se vengiato l'avessono, non si sarebbe poi alcun messo ad andare in inferno per alcun lor danno» .
Abbiamo preferito mettere innanzi i due commentatori trecenteschi più attenti alla lettera; ma a questi possiamo aggiungere anche Jacopo Alighieri:
«... rimproverandosi per lui l’assalto che fece Teseo a’ vizij infernali, sì come per..., favoleggiando si contiene, del qual non fecer vendetta, sì che aliri non si fosse più messo in simigliante cammino» ;
e Benvenuto da Imola:
«idest: male fecimus quod non vindicamus in Theseo insultum quem fecit contra nos» .
Come spiegare allora questa chiara affermazione di Dante? Una spia preziosissima è nella chiosa di Jacopo:
«il sopradetto messo celestiale contro a loro così ne ragiona, rammentando quello che per Teseo alcuna volta fu fatto loro, specialmente al demonio Cerbero» .
Jacopo Alighieri dice quindi chiaramente che non Ercole, ma Teseo stesso avrebbe tratto Cerbero d’Inferno: secondo questa versione non solo non vi è contraddizione in Dante, ma anzi si capisce la risposta del Messo, precisa e pertinente proprio al rammarico delle Furie.
Che Dante potesse conoscere un’altra versione del mito, nella quale fosse attribuita a Teseo la vittoria, non stupisce minimamente: è ben nota infatti la estrema confusione con la quale, prima della revisione umanistica, erano trattati i miti.
Il mito della discesa all’Averno di Teseo non fa eccezione. Solo in Seneca infatti (particolarmente nell’Hercules furens e nella Phaedra) si trovano chiari accenni all'impresa di Ercole, anche se — ma il problema, come è noto, investe tutta la mitologia classica — alcuni spunti paiono avallare altri particolari ed offrire adito ad altre versioni: e nell’Hercules furens, vv. 818-9, si precisa che anche Teseo, liberato da Ercole, collaborò alla cattura di Cerbero. Negli altri poeti classici sono solo alcune allusioni, precise (chiarissime anzi) per chi però conoscesse già il mito: se nella Tebaide (VIII, 95) si accenna agli «Herculeos raptus», se nelle Metamorfosi (VII, 410 ss.) i versi che raccontano il ratto di Cerbero ad opera del «Tirynthius heros» sono peraltro innestati nel passo che tratta di Teseo, nell’Eneide, benché si riconosca che Teseo è un semidio («Dis quamquam geniti atque invicti viribus essent», VI, 394), si dice che nel Tartaro «sedet aeternumque sedebit Infelix Theseus» (VI, 617-8): ma sappiamo benissimo a quanti e quali fraintendimenti andassero soggetti, anche da parte dei commentatori, cioè dei maestri di grammatica, questi passi , mentre per i miti le chiose si rifacevano assai più ai mitografi che al testo. E non sarebbe del resto questa l’unica volta che Dante mostra di conoscere un'interpretazione singolare dei miti classici (si pensi, per fare un esempio, alle Sirene di Ulisse).
Molti scrittori, tra i quali lo stesso Nicola Trevet , vale a dire uno dei contemporanei di Dante più colti riguardo alla letteratura classica (e al quale si deve anzi il primo commento alle tragedie di Seneca), non fanno alcun accenno alla prigionia di Teseo. Ancora in pieno pre-umanesimo Francesco da Buti testimonia l’esistenza di più versioni:
«Peritoo [...] presa la compagnia di Teseo andò nell'Inferno a togliere Proserpina; ma non la poterono avere, onde Teseo e Peritoo se ne vennono, secondo alcuna fizione. Secondo un’altra, vi fu Teseo rattenuto, poi Peritoo vi menò Ercole che ne ‘l cavò...» .
Per Pietro Alighieri è proprio Ercole che corre pericolo di essere trattenuto prigioniero (secondo quanto poteva ricavare dalla Farsalia, I, 575-6):
«Unde scribitur Herculem ad instantiam Eurysthei fuisse et descendisse in Inferno, habendo secum Theseum et Pirithoum suos socios. Juno vero ipsum Herculem ejus privignum ibi voluit detineri, et fecit Medusam sibi apparere ut lapis efficeretur. Sed ab ea evasit...» .
Per Graziolo (e non è il solo) Teseo discende all’Averno addirittura accompagnato da Proserpina:
«Cum Theseus filius ducis Atheniensium simul cum Proserpina filia Cereris ad inferos accessissent, contra demones fecerunt insultum...» .
E, facendo un passo innanzi nel tempo, persino nelle chiose all’Elegia di Madonna Fiammetta, che pure rispecchiano un ambiente colto e tutto permeato di cultura boccaccesca, troviamo:
«Cerbaro il quale stava nella porta della entrata dello inferno con tre teste; e quando Ercule andò all'inferno per compagnia di Teseo el quale andò per torre Proserpina, secundo che pone Seneca in prima tragedia, alla ritornata per forza menò ligato el detto Cerbero cane infernale» .
La confusione era dunque enorme. Ma il più importante è che la versione la quale attribuiva la vittoria su Cerbero a Teseo, e che abbiamo già vista testimoniata da Jacopo Alighieri, trova altre conferme della sua esistenza: non ci troviamo cioè di fronte ad una banalizzazione del figlio di Dante, il quale, ignorando il mito, avrebbe cercato di ricostruirlo sulle parole stesse del padre. Una ulteriore spia è nel Boccaccio (il quale ricorda due versioni del mito: secondo la prima Teseo sarebbe rimasto prigioniero nell’Averno, mentre nella seconda, e solo in questa, è menzionato l'intervento liberatore di Ercole), particolarmente interessante perché egli si richiama esplicitamente ad altre fonti («Alcuni dicono...»):
«... fu Cerbero da Ercole preso per la barba, e da lui gli fu tutta strappata; e oltre a ciò, incatenato, ne fu menato quassù nel mondo da Teseo liberato da Ercule» ;
e in altra parte del commento alla Divina Commedia (1, 123):
«...Seneca tragedo, in tragedia Herculis furentis, dove dice Cerbero infernal cane essere stato tratto d'inferno da Ercule e da Teseo...».
Ma sono ancora i primissimi commentatori, i più lontani dalla cultura umanistica, ad offrire le tracce più utili. Ecco la testimonianza di Jacopo della Lana:
«Teseo [...] e Proserpina, figliuola di Cerere, e Optito [Piritoo?] si funno incantati e andonno allo inferno, e volendo entrar dentro dalla cittade di Dite, li demoni li lo volseno vietare. Questi non aspettavano grazia né poder d'altri, si miseno a farla alle mani con loro; alla fine questi tre vinseno la pugna. Vero è che nella messeda Cerbero demonio fu molto aruffato e fulli schiantata tutta la barba ch’ancora dall'un de’ lati l'avea mozza e schiantata. Or lo detto messo a più dolor di loro li ricordò tal zimbello» .
Ancor più esplicito l’Ottimo, la cui testimonianza è doppiamente importante, e perché si tratta di un contemporaneo di Dante e perché pare ormai assai probabile che lo si debba identificare nel Lancia (vale a dire in uno studioso notevole per cultura classica) :
«Piritoo [...] andò ad Ercule. Allora Ercule discese in Inferno colla mazza ferrata per diliberare ‘Teseo e fu da Caron menato per nave. Cerbero vedendo che Caron conducea uomo in came, morse Caron fortemente; la qual cosa vedendo Ercule, tirò Cerbero per la coda e ferillo sì fortemente della mazza che li fece gittare per la bocca la venenosa schiuma, e diliberò Teseo dello Inferno [...]. O vero, che Piritoo andò solo per rapire Proserpina, e fu ritenuto, e incontanente legato; la qual cosa udito Teseo suo amicissimo, andò in Inferno, e prese per la barba Cerbero e divisegliela, e liberò il suo amico di pena» .
Sulla scorta dei passi citati e soprattutto del preciso accenno della Commedia appare pertanto assai verisimile che Dante non conoscesse quella particolare versione del mito che voleva Teseo vinto dalle forze infernali, o, conoscendola, non l’accettasse. Egli doveva piuttosto pensare alle discese di Teseo e di Ercole come avvenute indipendentemente l’una dall’altra, oppure (ma è meno probabile) che i tre, Teseo, Piritoo ed Ercole, fossero discesi assieme (come lasciava credere Tebaide, VIII, 53-6), e che tra essi Teseo avesse assunto la parte principale come vincitore dei demoni .
Forse qualche altro utile ragguaglio si sarebbe potuto trarre dalla lettura di quelle Storie d'Ercule che Dante cita nel Convivio (III, II, 7): ma purtroppo non ci è accaduto di rintracciarle.
Il contesto della Commedia, sia dal punto di vista sintattico che dal punto di vista logico, non dà adito a dubbi, ed inoltre — va ricordato — non contiene alcun accenno esplicito od implicito ad Ercole, mentre invece si richiama esplicitamente alla discesa vittoriosa di Teseo: esso trova riscontro nell'esistenza di più versioni del mito, una delle quali ricorda appunto la vittoria dell'eroe ateniese su Cerbero. Pare dunque accertato che proprio a Teseo va riferito l’accenno mitologico del Messo, dietro al quale — lo abbiamo visto — è una chiara allusione alla vittoria di Cristo, che, sconfitte le forze infernali, aveva liberato dalle pene quanti avevano creduto in lui: come Teseo, vinti i demoni, aveva liberato Piritoo, «suo amicissimo».
E non è forse casuale che proprio in questo passo dell'Inferno siano chiari echi della Tebaide; una ripresa dalla descrizione della discesa all’Averno di Mercurio anzi ci pare particolarmente precisa :
«...Infernaque nubila vultu
discutit»
(Teb., II, 56-57);
«Dal volto rimovea quell’aere grasso,
menando la sinistra innanzi spesso»
(Inf., IX, 82-83).
Forse è proprio per la suggestione dell’accostamento Teseo-Cristo che Dante potrebbe aver respinto deliberatamente l’altra versione (se la cono sceva), che in tal caso egli avrebbe giudicato (come del resto egli fa anche per altre convinzioni) erroneamente accettata da alcuni dei poeti latini: nel verso che ci dice la rabbia delle Furie — che secondo quella versione sarebbero state le carceriere di "Teseo — sarebbe allora anche una implicita polemica contro chi aveva ritenuto che Teseo potesse essere sconfitto dalle forze infernali. Ma di ciò non è possibile parlare se non al condizionale: i moventi possono sfuggire, i dati di fatto restano.
A noi pare dunque che sia lecito vedere in questo passo della Commedia un'eco di quella tradizione allegoristica che tendeva a vedere figurazioni del Redentore in alcuni eroi pagani, e tra essi Teseo, aiutata per quest'ultimo da una curiosa interpretazione etimologica.
Se questa conclusione è accettabile, non sembra inverosimile che proprio nell’adattamento di questo stesso modulo all’interno dell'interpretazione allegorica della Tebaide, quale veniva suggerita dalla tendenza propria dei lettori medievali e di cui, pur nel grande naufragio di quella cultura, è rimasta importante traccia nella scritto attribuito a S. Fulgenzio, Dante abbia tratto la sua convinzione circa il presunto cristianesimo di Stazio, con ogni probabilità a ciò ispirato da qualche chiosa che questa tradizione raccoglieva o implicitamente suggeriva: la menzione che lo Stazio dantesco fa dell’imperatore Domiziano farebbe presumere appunto la lettura di un accessus , precedente il commento.
E particolarmente, alla luce di quei moduli interpretativi che il poeta fiorentino conosceva ed accettava, la Tebaide stessa offriva a Dante gli indizi dell'avvenuta conversione di Stazio , come Benvenuto da Imola aveva intravisto: ma va sottolineato — contro la conclusione di quel commentatore — che l'episodio dantesco non trae esclusivamente la propria ragion d'essere da necessità d'ordine strutturale, che pertanto avrebbero suggerito una opportuna «finzione» poetica, ma anche da una convinzione profonda e reale; ché «lo studio dei suoi procedimenti ci porta a credere che, senza una qualche giustificazione, almeno leggendaria, egli non si sarebbe indotto ad alterare la storia» .