Dati bibliografici
Autore: Carla Rossi
Tratto da: Rassegna europea di letteratura italiana
Numero: XXXV
Anno: 2010
Pagine: 37-49
Nella lirica arcaica, è topica l’idea della fascinatio delle «scure iridi», ϰυανέοισιν ύπό βλεϕάροις, dello sguardo seducente e languido delle Ninfe associate a Eros e ad Afrodite nel corteggio di Dioniso in Anacreonte (PMG 357, 2) e di quello più dissolvente di Sonno e Morte di Astimeloisa in Alcmane (PMFG 3, 61 ss.). Sottesa alla fascinazione è la minaccia insita nello sguardo femminile. Ed è una figura femminile dotata di eccezionali facoltà quella che incarna la possibilità di pietrificazione per l’uomo: Medusa, suscitatrice di catastrofi, gorgo che trascina, pietrifica e priva della capacità di agire. Medusa, una delle tre Gorgoni (che nell’iconografia classica, come altre triadi falliche preolimpiche, sono rappresentate attraverso una ripetizione di simboli fallici), le mostruose figlie di Forco e di Ceto, ha all’inizio della narrazione del suo mito tratti distintamente femminili. Gli autori classici4 la descrivono bellissima, tanto che di lei s’invaghì il dio del Mare Nettuno, il quale, sotto le sembianze di un uccello, la possedette in un tempio consacrato ad Atena, profanandone la sacralità. La dea si vendicò non dell’empio Nettuno, ma della sua giovane vittima, rea di essere eccessivamente attraente, facendo di lei un mostro orrendo e diede ai suoi occhi il tragico potere di pietrificare chiunque l’avesse guardata. In questo modo, nel racconto mitologico è implicito il rapporto tra pericolosità dello sguardo che pietrifica (con evidenti richiami sessuali) e natura femminile: l’orrore del femminile nell’immaginazione maschile, tanto che in francese moderno sopravvive il verbo méduser per ammaliare, affascinare. La figura di Medusa è la condensazione di una complessa vicenda mentale. La fantasia fece di lei l’oggetto della pulsione voyeuristica che si focalizzò sul corpo della donna e particolarmente sul suo genitale. Manifestazione del regime scopico del desiderio, Medusa è, usando le parole di Max Milner:
l’exemple par excellence de ce voir sexuel, constitué par […] deux courants, l’un libidinal et ayant pour fin la jouissance, l’autre agressif ou destructeur, qui peut se retourner sur le sujet et lui renvoyer son intentionnalité mortifère.
Così viene spiegato il tabù di guardarla, e particolarmente di osservarla in viso. L’associazione tra Medusa e le divinità materne, compiuta in studi antropologici e archeologici nel periodo attorno al 1920 trovò una corrispondenza fondamentale nell’appropriazione e rielaborazione del mito da parte della psicoanalisi e in particolare negli studi freudiani (specialmente in La testa di Medusa, edito postumo nel 1940, ma al quale Freud lavorò nel 1922) e in quelli di Sandor Ferenczi (Zur Symbolik des Medusenhaupts, 1923). Particolarmente interessante, ai fini della presente riflessione, è l’analisi dell’etimologia dei nomi Medusa e Gorgone. Il primo nome era conosciuto in sanscrito come Medha. La radice «med», che si ritrova, ad esempio, nel latino ‘meditari’, significa misura. Così, anche a causa della fissità del suo sguardo, Medusa è la riflessiva, la saggia. Il termine Gorgone dal lat. Gòrgonem a sua volta dal greco Gorgòs, è stato fatto risalire al sanscrito garg che indica il rumore, l’urlo selvaggio: nel mito, l’urlo è quello delle due Gorgoni che, affrante dal dolore, incapaci di articolare con il linguaggio la sofferenza, alla vista della sorella uccisa, emettono grugniti animaleschi, nettamente alieni dal logos, dal discorso codificato. In egual modo, nella letteratura, il linguaggio codificato sembra inadeguato a descrivere la Gorgone: «di modo che il non-detto, il silenzio si rendono cifra dell’effetto destabilizzante messo in atto dal personaggio».
La Medusa è presente, nei testi letterari, attraverso un manque: attraverso l’assenza, il non-esprimibile e il non-classificabile, soprattutto in epoca tardo-medievale, come nell’episodio dantesco dell’Inferno IX (51-57: Volgiti indietro, e tien lo viso chiuso: che se il Gorgon si mostra, e tu il vedessi, nulla sarebbe del tornar mai suso), dove lo sguardo gorgonico cui solo si allude, è strumento di un femminile mendace e fatale, in un’epoca in cui il fascino della seduzione coincide con la sensualità del peccato.
Già nel mondo ellenistico, la Gorgone non si presenta nella sua interezza, ma solo come testa e maschera: una figura fantasmatica costruita «dans ses absences et par son manque». Così, in letteratura, spesso, le rappresentazioni di Medusa sono per allusione (in Esiodo, la bisaccia in cui Perseo ripone la testa recisa, invece della testa stessa) o della parte per il tutto (in Eschilo, i serpenti invece del viso).
Nella Commedia, Medusa è un’immagine-apparenza, solo invocata (ed evocata) dalle Furie. Se essa si manifestasse, impedirebbe l’indagine di Dante all’interno dello spessore semantico del linguaggio; trasformerebbe la sua scrittura in semplice eidolon, un feticcio di se stesso, come era avvenuto nelle Petrose. Dante conosce la pericolosità della seduzione dello sguardo di Medusa (tema della prima delle Petrose): una fascinatio che va intesa nell’accezione etimologica del verbo sedurre, ossia condurre fuori dalla retta via, distogliere dal sommo Bene. Guardare negli occhi la Gorgone provoca una trasfigurazione, incrociare il suo sguardo implica il rinunciare a se stessi, abbandonandosi lascivamente alla pietrificazione della passione e del linguaggio. Medusa-donna-Petra aveva infatti sviato il Poeta, simboleggiando il richiamo delle passioni terrene, in una scrittura che è ripetizione, pietrificazione del tema amoroso trobadorico e stilnovistico, che impediva di ascrivere un significato evangelico-simbolico alla forma grafica della Lettera non giustificata dallo Spirito. La sua figura assente, ossia la capacità di non percepirla è invero una grazia, concessa da Dio al Poeta, il quale indica qui un nuovo modello di visione che consenta di trascendere il desiderio meduseo, la paralisi dello spirito, trasformandolo in un sentimento di caritas cristiana. Il nucleo del canto è costituito da significati simbolici, non ancora interpretati, in modo univoco, neppure dai commentatori più eminenti. L’insegnamento morale cui Dante esplicitamente allude ha dato luogo alle esegesi più disparate. Tra le opinioni degli antichi commentatori vi sono quelle di Jacopo della Lana, che vide simboleggiata in Medusa l’eresia, che «fa diventare l’uomo pietra, perché lo eretico vuole più credere alle sensualitadi che alla Sacra Scrittura» e di uno dei figli del Poeta, Pietro, per il quale Medusa è una raffigurazione allegorica del terrore. Le Furie, simbolo dei rimorsi, invocando Medusa, cercano, secondo Pietro di Dante, di paralizzare col terrore l’animo e la mente del Poeta, per impedirgli l’accesso al basso Inferno. Boccaccio considerò Medusa emblema dell’ostinazione. Fra i moderni, lo Scartazzini1 ha visto nelle Erinni il simbolo della mala coscienza e in Medusa quello del dubbio, che ha la virtù di rendere l’uomo insensibile come pietra. Una chiosa differente è fornita dallo Steiner:
Le Furie, i rimorsi, condurrebbero Dante a guardare la testa della Medusa, cioè a impietrarsi nello stato della disperazione: Virgilio, la ragione corretta dalla fede, vuole che Dante guardi le Erinni, cioè che ascolti la voce del rimorso, ma non guardi la Gorgone, cioè non vuole che cada per questo nella indifferenza del disperato, che poi ricade nuovamente, secondo la sentenza di San Paolo, nella vita sensuale, senza riscattarsi mai più.
Più di recente, la Medusa dantesca è stata interpretata da M. N. Mansfield come tropo della cecità intellettuale e del peccato di disperazione.
L’impressione, però, è che ancora sfugga qualcosa all’interpretazione della scena: l’ambiguità del personaggio Medusa è manifesta nell’uso del termine Gorgone al maschile, proprio del volgare trecentesco e dato probabilmente dal rapporto per sineddoche col capo di Medusa. Come ebbe modo di notare J. Chance, il corpus testuale classico delimitava Medusa all’area infernale, il che non poteva non turbare i teologi medievali: il parallelismo tra Medusa e i demoni trova un’enigmatica traduzione nel termine Demogorgone, che compare per la prima volta nel commento di Bernardo da Utrecht all’Ecloga Theoduli: la divinità sia maschile che femminile, nata dalla confusione tra i termini demiurgo, demone e gorgone. «Origine a artefice del proibito, il “demiurgo gorgonico” presiede alla formazione di un linguaggio della differenza, di tutto ciò che si scopre essere irriducibile al logocentrismo patristico». Dante, pertanto, riprende un topos della letteratura classica, che poneva la Gorgone a custodia del regno dei morti.
Siamo tra le mura turrite e arroventate di Dite (Canto ix, 52-63), poco prima dell’intervento di un Messo celeste, inviato a disperdere le forze diaboliche e a spalancare le porte del basso Inferno. All’improvviso, sull’alto delle mura compaiono mostri con sembianze di donna e chiome formate da un intrico di serpenti: sono le tre Furie, personificazioni della violenza impetuosa e indiscriminata delle passioni nei rapporti umani. Si chiamano Aletto, ‘collera’, Tisifone, ‘vendetta’, Megera, ‘odio’, e manifestano la loro ira per la presenza dei due poeti, dilaniandosi con le unghie, percuotendosi e gridando in maniera agghiacciante. Ma da sole sono impotenti a punire il vivo che, come Teseo, ha osato violare la dimora della Morte; per questo invocano a gran voce Medusa, affinché impietrisca il pellegrino e fermi il suo cammino di conoscenza e purificazione:
«Vegna Medusa: sì ‘l farem di smalto»,
dicevan tutte riguardando in giuso;
«mal non vengiammo in Tesëo l’assalto».
«Volgiti ‘n dietro e tien lo viso chiuso;
ché se ‘l Gorgón si mostra e tu ‘l vedessi,
nulla sarebbe di tornar mai suso».
Così disse ‘l maestro; ed elli stessi
mi volse, e non si tenne a le mie mani,
che con le sue ancor non mi chiudessi.
O voi ch’avete li ‘ntelletti sani,
mirate la dottrina che s’asconde
sotto ‘l velame de li versi strani.
I versi 61-63 invitano esplicitamente il lettore a ricercare una spiegazione simbolica. Analogamente a quanto già affermato nel Convivio, II, i-ii, si ripete l’esortazione a ricercare un progetto nascosto che faccia emergere il senso profondo del testo.
Non è casuale che lo stesso Virgilio collochi Medusa nel vestibolo dell’Erebo (Eneide vi, 364):
Nel primo entrar del doloroso regno
stanno il Pianto, l’Angoscia, e le voraci
Cure, e i pallidi Morbi e ‘l duro Affanno
con la debil Vecchiezza. Evvi la Téma,
evvi la Fame: una ch’è freno al bene,
l’altra stimolo al male: orrendi tutti
e spaventosi aspetti. Avvi il Disagio,
la Povertà, la Morte, e, de la Morte
parente, il Sonno. Avvi de’ cor non sani
le non sincere Gioie. Avvi la Guerra,
de le genti omicida, e de le Furie
i ferrati covili, il Furor folle,
l’empia Discordia, che di serpi ha ‘l crine,
e di sangue mai sempre il volto intriso.
Nel mezzo erge le braccia annose al cielo
un olmo opaco e grande, ove si dice
che s’annidano i Sogni, e ch’ogni fronda
v’ha la sua vana imago e ‘l suo fantasma.
Molte, oltre a ciò, vi son di varie fere
mostruose apparenze. In su le porte
i biformi Centauri, e le biformi
due Scille: Briareo di cento doppi;
la Chimera di tre, che con tre bocche
il fuoco avventa: il gran serpe di Lerna
con sette teste; e con tre corpi umani
Erilo e Gerione; e con Medusa
le Górgoni sorelle; e l’empie Arpie,
che son vergini insieme, augelli e cagne.
Qui preso Enea da súbita paura
strinse la spada, e la sua punta volse
incontro a l’ombre; e se non ch’ombre e vite
vòte de’ corpi e nude forme e lievi
conoscer ne le fe’ la saggia guida,
avrebbe impeto fatto, e vanamente
in vane cose ardir mostro e valore.
Quinci preser la via là ‘ve si varca
il tartareo Acheronte. Un fiume è questo
fangoso e torbo, e fa gorgo e vorago,
che bolle e frange, e col suo negro loto
si devolve in Cocito. È guardiano
e passeggiero a questa riva imposto
Caron demonio spaventoso e sozzo,
a cui lunga dal mento incolta ed irta
pende canuta barba. Ha gli occhi accesi
come di bragia. Ha con un groppo al collo
appeso un lordo ammanto; e con un palo,
che gli fa remo, e con la vela regge
l’affumicato legno, onde tragitta
su l’altra riva ognor la gente morta.
La reazione di Enea di fronte a tale fitta turba di mostri è impulsiva: l’eroe afferra la spada istintivamente. A questo gesto si oppone la ‘dottrina’ della Sibilla, che lo ammonisce tranquillizzandolo sull’inoffensività di quelle che sono solo ombre prive di consistenza.
Se per Virgilio Medusa è semplicemente una delle creature mostruose che atterriscono il vivo disceso agli Inferi, Dante carica la figura della Gorgone d’un significato allegorico legato indissolubilmente alla sua esperienza cristiana e poetica. Il Cristianesimo infatti ebbe il potere di liberare la pietra dalla sua ontologica staticità assegnandole un cor carneum. Cristo viene spesso definito pietra viva nelle omelie. «Lapides vivi qui sunt nisi fideles Dei?», si chiedeva Sant’Agostino. Lo stesso Sant’Agostino annovera la Gorgone tra le invenzioni e menzogne radicate nel pensiero pagano, di quelle «tante fole che si rappresentarono nei teatri» (La città di Dio, 18.13): nel pensiero agostiniano la rappresentazione teatrale indicava la seduzione del falso. Medusa era, dunque, tra le maschere fallaci dell’errore, cifra del peccato. La Gorgone si delinea nella Commedia, secondo l’affascinante analisi di uno dei più raffinati dantisti americani, John Freccero, come un significante privo di contenuto: la Lettera non giustificata dallo Spirito, alla luce dell’equazione agostiniana tra passione amorosa e linguaggio.
Nei versi del Canto IX dell’Inferno sopra citati vi è una sorta di simmetria inversa: così come giuso (53) è contrapposto a suso (57), e il lettore è invitato, attraverso un ossimoro, a mirare la dottrina che s’asconde (62), in egual modo due azioni antitetiche (il coprire contrapposto allo svelare) suggeriscono la presenza di due oggetti antitetici: Medusa vs dottrina. 5 Mentre in Virgilio, la dottrina della Sibilla veniva in soccorso dell’eroe impaurito, nel ix dell’Inferno è la Gorgone stessa ad essere contrapposta alla dottrina.
Perché?
Se è vero che qui è riproposta la primissima metafora della Commedia (la selva) per tramite del mito di Medusa, che fa disperare il pellegrino della possibilità di continuare lungo il suo percorso, e per tramite delle Erinni che vengono a significare, allegoricamente, il rimorso, vi è, però, qualcosa di più: le Erinni ricordano, con afflizione, di non essere riuscite a fronteggiare Teseo, disceso nell’Ade per rapire Proserpina e invocano l’intervento di Medusa (52-55). Virgilio raccomanda dunque al pellegrino di voltarsi e di coprirsi il volto per non guardare, ma non si accontenta di dirglielo e non si fida delle mani che Dante pone sui propri occhi per non vedere, così pone le sue stesse mani su quelle del Poeta come a creare uno schermo davanti ai suoi occhi. Si ode un fragore d’uragano, ma non si tratta di Medusa (che è qui figura in absentia): quando Dante potrà nuovamente vedere (72: «Li occhi mi sciolse e disse: “Or drizza il nerbo”»), avrà di fronte a sé un Angelo. Questo particolare, forse, non è stato sufficientemente valutato dalla critica, neppure da Freccero. Medusa viene evocata attraverso il suo nome, attraverso la Lettera (in molte illustrazioni di questo passo dell’Inferno, infatti, Medusa delega la sua presenza alla capigliatura delle Furie e nell’edizione del 1491 della Commedia, quella del Botticelli, viene raffigurata sullo scudo impugnato da un diavolo «la cui faccia duplica sintomaticamente quella gorgonica, quasi a evidenziare l’ineluttabile letteralismo di Medusa, costretta ad essere replicata per acquisire profondità» ).
Dopo l’invocazione delle Erinni, e dopo la spiegazione data da Virgilio e il gesto compiuto da questi, per evitargli di guardare, il Poeta chiama in causa coloro i quali hanno l’intelletto sano (61), invitandoli a comprendere il significato morale che si nasconde sotto il velo dell’allegoria: la sua esortazione è di andare oltre la Lettera, per comprendere il significato riposto nei versi strani.
Cos’è un intelletto sano, per Dante? È l’Autore stesso, nel Convivio, a fornirne una definizione: «lo nostro intelletto […] sano dire si può, quando per malizia d’animo e di corpo impedito non è ne la sua operazione; che è conoscere quello che le cose sono, sì come vuole Aristotele nel terzo de l’Anima».
Viene da chiedersi se l’intelletto dell’actor Dante, nel momento in cui egli si trova all’inizio del suo viaggio oltremondano, possa dirsi sano. Nel Purgatorio (XXXIII) per bocca di Beatrice, Dante ammette, infatti, che il suo intelletto è ancora fatto di pietra:
Dorme lo ’ngegno tuo, se non estima
per singular cagione esser eccelsa
lei tanto e sì travolta ne la cima.
E se stati non fossero acqua d’Elsa
li pensier vani intorno a la tua mente,
e ’l piacer loro un Piramo a la gelsa,
per tante circostanze solamente
la giustizia di Dio, ne l’interdetto,
conosceresti a l’arbor moralmente.
Ma perch’io veggio te ne lo ‘ntelletto
fatto di pietra e, impetrato, tinto,
sì che t’abbaglia il lume del mio detto,
voglio anco, e se non scritto, almen dipinto,
che ’l te ne porti dentro a te per quello
che si reca il bordon di palma cinto.
Beatrice fa presente a Dante che se egli non avesse l’intelletto impietrito da vani pensieri (74) e oscurato e macchiato (come il sangue di Piramo macchiò il frutto del gelso presso il quale si uccise) dal piacere di quegli stessi pensieri, avrebbe potuto comprendere lo svolgersi della giustizia divina (nel caso specifico, il significato morale dell’albero proibito, che moralmente rappresenta la giustizia di Dio). Invece, i piaceri mondani (e ancor più il piacere che egli trova in essi) hanno incrostato e indurito la sua mente, l’hanno macchiata e ottenebrata, così come le acque dell’Elsa incrostano e macchiano di calcare gli oggetti che vi siano stati immersi.
«Ma, poiché io vedo te divenuto di pietra nell’intelletto», dice Beatrice «e, oltre che pietrificato, anche oscurato (tinto), così che la Luce di verità del mio discorso ti abbaglia, voglio che, se non scritto, almeno dipinto, porti dentro di te il mio detto».
I pensieri mondani fanno sì che Dante tanto all’inizio del viaggio attraverso l’Inferno, quanto ancora nel Purgatorio, non abbia un intelletto sano. La causa dell’impietramento della sua mente è la sensualità delle cose terrene e, più concretamente, la sensualità data dalla pervicace inazione, nell’incapacità di vedere altro se non il proprio (falso) idolo: una donna (dal cuore di pietra, un idolo che non concede alcuna grazia o pietà). «D’altra parte poco prima di questo canto sempre a Beatrice, nel rimproverare a Dante il suo traviamento, viene fatto di riprendere un altro termine […] che, evocando con il verbo «gravar» tutta la pesantezza della pietra, a cui viene paragonato il sentimento che, per essere peccaminoso, sant’Agostino definiva pondus amoris, gli ricorda: “Non ti dovea gravar le penne in giuso, / ad aspettar più colpo o pargoletta/ o altra gravità con sì breve uso” (Purg. xxxi, 58-60) […]. La critica dantesca ha già del resto provveduto a ipotizzare l’identificazione della pargoletta menzionata nell’apostrofe di Beatrice quale responsabile del momentaneo distacco di Dante da lei con la donna appellata in questo stesso modo nelle tre occorrenze delle Rime».
Riconsideriamo dunque il momento topico dell’azione del ix dell’Inferno: Dante è nell’antinferno, sul punto di dare inizio al suo viaggio oltremondano e ricorda, in forma allegorica, i più gravi ostacoli che l’essere umano incontra nel proprio cammino verso la redenzione. Gli si oppongono genericamente le tentazioni (rappresentate dai diavoli), il rimorso delle azioni compiute in preda alla collera, al desiderio di vendetta, all’odio (le Erinni), ma soprattutto gli si oppongono i vani pensieri che scaturiscono dalla carica erotica, dalla sensualità, in cui è insito il più grande pericolo per l’uomo e per il poeta che, nella condanna a ripetere gli stessi canoni linguistici (pietrificati) è impossibilitato a penetrare la Parola (il Verbo) e a raggiungere il messaggio teologico.
A respingere questi assalti giova solo in parte la ragione (Virgilio): a completare il processo di redenzione e di salvazione è necessario l’intervento della Grazia divina (il Messo sdegnoso inviato dal Cielo che appare in luogo della Medusa, non appena Dante apre nuovamente gli occhi).
Lo sguardo di Medusa, che la ragione vuole evitare, è quello stesso sguardo che ha irretito Dante in un passato prossimo. Il passato sia della Vita Nova, sia, più specificamente, delle Petrose: la lettura di L’amaro lagrimar (Vita Nova, 26) lo testimonia. Quando Beatrice è ormai morta, Dante è attratto dallo sguardo di un’altra donna: «Onde più volte bestemmiava la vanitade degli occhi miei, e dicea loro nel mio pensero: “Or voi solavate fare piangere chi vedea la vostra dolorosa conditione, e ora pare che vogliate dimenticarlo per questa donna che vi mira: che non mira voi, se non in quanto le pesa della gloriosa donna di cui piangere solete. Ma quanto potete, fate: ché io la vi pur rimembrerò molto spesso, maladecti occhi, che mai, se non dopo la morte, non dovrebbero le vostre lagrime avere restate!”». Il Poeta imputa agli occhi di essere il veicolo sensibile di un amore terreno e implicitamente distingue (forse qui per la prima volta) tra lo sguardo sensuale e lo sguardo spirituale (quello che egli deve a Beatrice). Lo sguardo spirituale è, appunto, l’arma che Dio ha concesso a Dante, novello Perseo, per sconfiggere lo sguardo di Medusa, ossia lo sguardo femminile che annichilisce e fa peccare. Rivolgendosi ai propri occhi Dante dice:
La vostra vanità mi fa pensare
e spaventami sì, ch’io temo forte
del viso d’una donna che vi mira.
Voi non dovreste mai, se non per morte,
la vostra donna ch’è morta oblïare.
Così dice ’l meo core, e poi sospira.
In Io son venuto al punto de la rota, il pondus amoris trascina Dante in una caduta erotica, come ha sottolineato A. Battistini, governata da quella sorta di legge sui gravi enunciata a livello etico da sant’Agostino nelle Confessioni (XIII, 9):
Io son venuto al punto de la rota
che l’orizzonte, quando il sol si corca,
ci partorisce il geminato cielo,
e la stella d’amor ci sta remota
per lo raggio lucente che la ‘nforca
sì di traverso che le si fa velo;
e quel pianeta che conforta il gelo
si mostra tutto a noi per lo grand’arco
nel qual ciascun di sette fa poca ombra:
e però non disgombra
un sol penser d’amore, ond’io son carco,
la mente mia, ch’è più dura che petra
in tener forte imagine di petra.
Levasi de la rena d’Etiopia
lo vento peregrin che l’aere turba,
per la spera del sol ch’ora la scalda;
e passa il mare, onde conduce copia
di nebbia tal che, s’altro non la sturba,
questo emisperio chiude tutto e salda;
e poi si solve, e cade in bianca falda
di fredda neve ed in noiosa pioggia,
onde l’aere s’attrista tutto e piagne:
e Amor, che sue ragne
ritira in alto pel vento che poggia
non m’abbandona, sì è bella donna
questa crudel che m’è data per donna.
Fuggito è ogne augel che ’l caldo segue
del paese d’Europa, che non perde
le sette stelle gelide unquemai;
e li altri han posto a le lor voci triegue
per non sonarle infino al tempo verde,
se ciò non fosse per cagion di guai;
e tutti li animali che son gai
di lor natura, son d’amor disciolti,
però che ’l freddo lor spirito ammorta
e ’l mio più d’amor porta;
ché li dolzi pensier’ non mi son tolti
né mi son dati per volta di tempo,
ma donna li mi dà c’ha picciol tempo.
Passato hanno lor termine le fronde
che trasse fuor la vertù d’Ariete
per adornare il mondo, e morta è l’erba;
ramo di foglia verde a noi s’asconde
se non se in lauro, in pino o in abete
o in alcun che sua verdura serba;
e tanto è la stagion forte ed acerba
c’ha morti li fioretti per le piagge,
li quai non poten tollerar la brina:
e la crudele spina
però Amor di cor non la mi tragge;
per ch’io son fermo di portarla sempre
ch’io sarò in vita, s’io vivesse sempre.
Versan le vene le fummifere acque
per li vapor’ che la terra ha nel ventre,
che d’abisso li tira suso in alto;
onde cammino al bel giorno mi piacque
che ora è fatto rivo, e sarà mentre
che durerà del verno il grande assalto;
la terra fa un suol che par di smalto,
e l’acqua morta si converte in vetro
per la freddura che di fuor la serra:
e io de la mia guerra
non son però tornato un passo a retro,
né vo’ tornar; ché, se ’l martiro è dolce,
la morte de’ passare ogni altro dolce.
Canzone, or che sarà di me ne l’altro
dolce tempo novello, quando piove
amore in terra da tutti li cieli,
quando per questi geli
amore è solo in me, e non altrove?
Saranne quello ch’è d’un uom di marmo,
se in pargoletta fia per core un marmo.
Lo sguardo di Medusa è, quindi, lo sguardo che fa peccare: uno sguardo che immobilizza nell’idolatria di una donna di pietra, un feticcio sensuale (71-72). Lo sguardo di Medusa è antitetico a quello di Beatrice, che annuncia una nuova salvezza: è quello dell’antibeatrice per eccellenza, che nel suo ostinato immobilismo riduce anche il poeta (11-13; 51-52), l’intero cosmo e soprattutto la stessa poesia all’immobilità. Lo schema della canzone non è a caso lo stesso di La dispietata mente, che pur mira (abc abc cdeedff). «In fondo anche la Commedia incomincia con una prima persona, dapprima plurale, per esprimere la condizione dell’umanità, poi singolare […] in quel caso però l’accento sul pellegrino sottolinea il privilegio divino della Grazia, il compito di una missione condotta a beneficio universale […]. In Io son venuto invece il protagonista è catafratto al grandioso scenario astronomico in cui sono collocati tutti gli altri esseri perché la sua mente è completamente occupata da un unico ed esclusivo pensiero […] con un assillo che non può non richiamare di nuovo la fissità della pietra, come chi, folgorato dal vitreo sguardo meduseo, non avesse altro pensiero che la propria amata, incombente perfino dal vasto orizzonte dei cieli». Il primo verso della canzone è già premonitore della fissità che sarà oggetto della stessa, permeata della presenza di Saturno, il pianeta che immobilizza le cose nel gelo, agli antipodi di Venere, il «bel pianeta ch’ad amar conforta» (Purg. i, 19).
John Freccero ipotizza che Dante conoscesse una particolare versione del Roman de la Rose, in cui è presente quella che gli specialisti della Rose considerano un’interpolazione, ossia la versione in cui l’immagine di Venere è contrapposta, in una lunga tirata di più di cinquanta versi, a quella di Medusa: «The passage goes on to provide us with an extraordinary parallel to the drama of Canto IX, an ironically optimistic view of the power of Eros, of which Dante’s Medusa seems the dark and reversed counter-image». Freccero nota che in entrambi i poemi Medusa non si manifesta, ma mentre nella Rose esiste esclusivamente come immagine antitetica a quella di Venere, nell’Inferno essa è il simulacro di Venere, depauperato del proprio fascino e visto «or almost seen under the aspect of death».
Eppure, non si può fare a meno di ribattere che, nel ix canto, di Venere non v’è (determinatamente) la benché minima traccia, esattamente come nella prima delle Petrose. Medusa è, anzi, l’antivenere che predispone a thanatos, ad una morta immobilità permanente, non a eros. Il rimprovero di Beatrice, nel Purgatorio (XXXIII 64-78), appare dunque più chiaro attraverso questa canzone, dove lo sguardo della donna-Medusa non consente più alcuna possibilità di fuga e la mente di Dante è più dura che petra (v. 12). Lo sguardo della Gorgone, al pari delle stelle e delle pietre, «emana il suo influsso conturbante fino a formare con loro un sistema solidale imprescindibile nel quale la preziosità della gemma non designa soltanto la durezza, ma anche la bellezza seducente».
Torniamo allora nell’Antinferno: Dante attende, con gli occhi coperti, l’arrivo di Medusa ed ecco che si ode un fragore d’uragano, i dannati si danno alla fuga. Avanza sereno sulla palude stigia senza nemmeno bagnarsi le piante dei piedi un Messo divino. Virgilio esorta Dante ad inginocchiarsi, ma il Messo non degna i due pellegrini di uno sguardo: altre preoccupazioni sembrano dominare il suo animo. Giunto davanti alla porta della città di Dite, la tocca ed essa si apre senza difficoltà. Prima di ripercorrere il cammino per il quale è venuto, il Messo rimprovera i diavoli per l’opposizione ai voleri dell’Onnipotente e ricorda la sorte toccata a Cerbero per aver voluto opporsi ad Ercole che era disceso agli Inferi. Allontanatosi il Messo, i due viandanti penetrano nell’interno della città: davanti a loro si apre una grande pianura cosparsa di tombe, che richiama alla memoria di Dante le necropoli romane di Arles e di Pola. Ma qui i sepolcri, tutti aperti, sono arroventati dalle fiamme. In essi si trovano le anime degli eretici. I due poeti si incamminano lungo un sentiero che corre tra le mura e le tombe infuocate.
La Gorgone non è giunta a pietrificare il pellegrino. Il cammino reso possibile dal Messo del Cielo segna il riscatto di Dante e la liberazione dall’effetto paralizzante della donna-Medusa, «tanto potente», scriveva Battistini a proposito della prima delle Petrose «da contagiare perfino il linguaggio con cui se ne parla».
In parte, già Boccaccio, nelle Esposizioni sopra la Comedia di Dante lo aveva compreso:
E così, come se veduto avessimo il Gorgone, sassei diventiamo, cioè ostinati cultivatori delle terrene cose. Era adunque a questo provocata Medusa, acciò che, veduta, cioè ricevuta nella mente dell’autore [il corsivo è mio], lui avesse fatto sasseo divenire, e per conseguente ricevuto in inferno, cioè intorno agli essercizi terreni, e avesse lasciata stare la buona disposizione nella quale era entrato dietro alla ragione per acquistare i frutti celestiali. […] Delle quali cose possiamo al nostro proposito racogliere sotto il nome di questa Medusa essere, come di sopra è stato detto, chiamata la ostinazione, in quanto essa faceva chi la riguardava divenir sasso, cioè gelido e inflessibile. Medusa significa “oblivione”, la quale non solamente turba l’avvedimento dell’animo, ma ancora mescola in esso caligine e oscurità.
Francesco da Buti, facendo tesoro delle chiose del Boccaccio, aveva poi a dire: «Medusa: cioè oblivione che è una spezie di terrore, perché Medusa è una delle tre sorelle che si chiamarono Gorgones, cioè terrori».
Dante, che già era andato oltre la concezione del rapporto amoroso che era stata propria dei trovatori (lo sguardo di Beatrice infatti non è più la ricompensa tipica dell’amore tobadorico, gli occhi del poeta che fissano lo sguardo di Beatrice non sono più quelli fisici, bensì quelli della mente: il suo guardare Beatrice non è effetto dell’humanitas, ma della caritas, della capacità di riconoscere Dio nell’uomo), si libera, per merito della grazia divina, anche dell’immobilismo poetico al quale la donna-Medusa lo aveva costretto, nella ripetizione degli stessi modelli espressivi e degli stessi stilemi, che altro non sono, poi, che quelli cavalcantiani (basti pensare a Voi che per li occhi mi passaste ’l core) e quelli propri dello Stil Novo. Significativo in questo senso è il fatto che la Medusa non appaia (più) al pellegrino Dante al quale (solo tra i poeti) è concessa la Grazia, annunciata, già all’inizio del viaggio oltremondano dal Messo celeste. Vi è dunque un parallelismo evidente tra il Messo divino e Beatrice e tra Medusa e donna-Petra, simbolo della passione e della sensualità non illuminate dalla Grazia. Dante indica qui un nuovo modello poetico che consenta di trascendere la vaghezza medusea, la paralisi dello spirito e della parola.