Dati bibliografici
Autore: Lorenzo Filomusi Guelfi
Tratto da: Giornale Dantesco
Numero: XVIII
Anno: 1910
Pagine: 118-119
Il nome di città di Dite comprende tutt'e quattro gli ultimi «cerchi dell’Inferno; o designa il solo sesto cerchio? Degl’interpetri, i più accolgono senza esitare la prima ipotesi; altri evitano scaltramente di discuterne; e solo qualcuno («un chiosatore moderno», scrive il Poletto, senza dirne il nome) sostiene la seconda delle due ipotesi accennate, Senza dubbio, questo «chiosatore moderno» ha ragione.
Innanzi tutto, la città di Dite non può esser altra cosa dalla città del fuoco del v. 22 del Canto X, né dalla città roggia del v. 73 del Canto XI dell'Inferno. Ora, potrebbe aver Dante chiamati città del fuoco e città roggia tutt'e quattro i cerchi del basso Inferno, nell’ ultimo de’ quali, per tacer d’altro, la pena è appunto l’opposto del fuoco e del rosso, cioè il gelo? È vero che nel citato v. 72 del ‘Canto XI Dante scrive, a proposito degl’incontinenti,
perché non entro della città roggia
son ei puniti?;
il che parrebbe avvalorare l'opinione de’ più, sembrando che in quel verso la città roggia si contrapponga a tutto l'Inferno superiore, cioè a tutt'e cinque i primi cerchi; ma ciò sembra non è; ché quell’entro può benissimo, anzi deve interpetrarsi per di là; o meglio, tenuto conto della forma dell’Inferno dantesco, per sotto; né più né meno del dentro che troviamo nel v. 16 dello stesso Canto XI:
Figliuol mio, dentro da cotesti sassi,
incominciommi a dir, son tre cerchietti;
data la quale interpetrazione, la città di Dite o città roggia, ossia il sesto cerchio, chiude i cerchi inferiori, in quanto sovrasta ad: essi; allo stesso modo che li chiudono i sassi o l’alta ripa dello stesso sesto cerchio, presso ai quali era il grande avello d’Anastasio.
In secondo luogo, l’ottavo cerchio ha un proprio nome, Malebolge; un proprio nome ha forse il nono, Cocito, come parrebbe: potersi desumere dal non aver mai Dante chiamato l’ultimo cerchio in altro modo, se non ricordando il nome di questo fiume, che formando un lago gelato, abbraccia tutto quel cerchio; e proprii nomi han certamente le quattro zone concentriche dello stesso nono cerchio, Caina, Antenora, Tolomea, Giudecca. Sicché, se città di Dite si chiamasse tutto il basso Inferno, certo l'ottavo cerchio e le quattro zone del nono, e probabilmente anche lo stesso nono: cerchio avrebbero due nomi: sarebbe, insomma, un lusso di nomi, veramente un po’ troppo e vano.
Inoltre, l’idea del nome di città di Dite venne certamente a Dante, più assai che da Ovidio e da Virgilio, dalla civitas Babylonis di sant'Agostino, che è l’antitesi della civitas Dei: ma questa è o l'eterna beatitudine, o la vita temporale secondo la fede; dunque la città di Babilonia è o l'eterna dannazione, o la vita temporale contro la fede. Se, nel crear la frase città di Dite, Dante avesse: tenuta presente la prima di queste due interpetrazioni, cioè l'eterna: dannazione, egli avrebbe dovuto chiamare città di Dite tutto l’Inferno, non la sola parte inferiore di esso; poiché certo non poteva escludere dall’eterna dannazione i cerchi superiori; opponendovisi, per tacer d’altro, i vv. 70-90 del Canto XI dell’Inferno. Bisogna dunque ritener per fermo ch’ei tenesse presente la seconda interpetrazione della città di Babilonia, cioè la vita contro la fede; data la quale interpetrazione, ognun vede come ben convenga al cerchio degli eretici il nome di città di Dite. E tanto più bisogna ritenerlo, in quanto che lo stesso sant’Agostino dichiara — nel Proemio — d’avere scritta la sua grand’opera contro gli errori e le bestemmie degli avversarii della fede cristiana, ch’erano allora i Gentili.
Infine, come riferire a tutto il basso Inferno il v. 69 del Canto VIII,
co’ gravi cittadin, col grande stuolo?
Passi il grande stuolo; sebbene mal si comprenderebbe a che servisse la forma di cono rovesciato, data all’ Inferno, se ne' cerchi inferiori avesse a stiparsi più grande stuolo di dannati, che non ne cerchi superiori; ma interpetrare i gravi cittadini per dannati «gravi di colpa e di pena», come interpetrano lo Scartazzini, il Casini, il Torraca, il Vandelli ecc.; questo, in verità, non è interpetrare, è rifare. Qualcuno intese per i cittadini i diavoli; per: lo stuolo, i dannati. Benissimo: proprio gravi quei demonii della quinta bolgia, quei Malebranche che Dante stesso paragona a guatteri, a cani ed a gatte; che han nomi così bizzarri; che si lasciano menar per il naso da un dannato; che s’azzuffano tra loro; che cacciano la lingua, e di cui uno suona perfino una così diversa cennamella! Invece, conviene perfettamente agli eretici l'epiteto di gravi — basti dire che c’è tra essi un Farinata —; e il grande stuolo si spiega appieno, col gran numero d’eresie che pullularono nel Medio Evo. Che se Dante si fa mostrare soltanto gli Epicurei, ciò non è certo senza un riposto significato morale.