Dati bibliografici
Autore: Giovanni Pascoli
Tratto da: La mirabile visione, Abbozzo d’una storia della Divina Commedia
Editore: Zingarelli, Bologna
Anno: 1913
Pagine: 450-461
XXXIII
I regni dell'espiazione e della purgazione sono quali li descrive nel suo volume Virgilio, e quali li vide Enea. Sono dunque necessariamente pagani. E ciò per l'inferno è giustificato dal fatto che esso è popolato da tali per cui Gesù o non scese (e pure questi potevano credere nel Cristo venturo) o scese invano. Perciò la porta è disserrata invano, chè nessuno può uscire, e le tre rovine porgono invano il loro pendìo a risalire: porta e rovine son lì a maggior tormento dei dannati. I viventi possono, per salvarsi, contemplando entrar da quella porta, scendere o risalire per quelle rovine (per la prima agevolmente scendere, per la seconda scendere difficilmente, per la terza non iscendere ma risalire con grande sforzo); ma elle servono a entrare e a far cammino ai viventi; ai morti non servono a uscir dall'inferno o a muoversi dal luogo loro assegnato.
L'inferno è pagano, perchè Gesù redense invano, o venturo o venuto, quelli che vi sono. Ma il purgatorio, come mai? Come mai e perchè mai, se non in questo modo e per questa ragione, che dopo il gran dì esso avrà nella sua cima gli spiriti magni e i parvoli innocenti, e solo, in parte, il Saladino? Ma insomma, inferno e purgatorio sono pagani. Pagani, perchè l'uno è l'Averno e il Tartaro, l'altro l'Elisio e la purgazione per vento, fuoco e acqua. Pagani, perchè pagani sono i fiumi che vi scorrono, lo Acheronte, che si fa Stige e Flegetonte e Cocito, e l'unica fontana che si fa i due fiumi Letei, di cui nell'uno l'uom si tuffa e nell'altro beve. Pagani sono i personaggi dell'inferno e anche quelli del purgatorio, fin dove possono; ci sono nel purgatorio gli angeli, e questi non sono fantasmi pagani; eppure paganamente ventilano le anime; eppure anche la Fortuna, dea pagana, è un angelo. Del resto Catone è pagano, e in certa guisa pagana è Matelda, essendo ella la Musa; in luogo di Musaeus. Lucia e Lia appariscono solo (si noti!) solo nel sonno di Dante. Virgilio e Stazio sono pagani; l'uno, sebbene inconsapevolmente cristiano, l'altro, perchè cristiano copertamente.
I simboli e fantasmi sono pagani, quando anche l'origine ne è biblica. Lucifero si chiama Dite, il serpente dell'invidia infernale si chiama Gerione. Anche la forma che ne dà il Poeta è piuttosto pagana che biblica. Il serpente è tricorpore, come la forma umbrae che è nel vestibolo; (Aen. VI 289) Lucifero è l'Hydra saevior (ib. 576) che è dentro il Tartaro. Servio annota che non si deve tradurre “un'idra più feroce, ma un'altra più feroce dell'idra che è in aditu inferorum„. (ib. 576) E quest'idra più feroce, aggiunge che alcuni fanno tricipite. E pagani sono gli altri mostri o simboli: Giganti, Caco, Centauri, Arpie, cagne o Scille biformi, Minotauro, Flegias, Furie e Gorgon, Cerbero, Pluto, Minos, Caron. Anche i diavoli, che Dante chiama “dal ciel piovuti„, somigliano a Giganti e Titani fulminati; e Lucifero scende folgoreggiando in modo simile a Briareo. (Pur. 12, 25) Anche la selva; poichè in una selva abita la Sibilla che è guida a Enea, come in una selva s'incontra e in una selva dimora, (Inf. 4, 65 sg.) il vate guida a Dante; sì che essi da una selva vanno all'Averno (ib. 13, 118 al.) o all'inferno. E poi, tenent media omnia silvae. (ib. 131) Selva sulla terra, selva nell'Averno, come nel poema di Dante; dove c'è, come la selva oscura, fuori, così la selva di spiriti spessi, dentro.
È naturale che le dichiarazioni che fa dell'inferno e del purgatorio Virgilio, siano pagane; e pagane sono: l'una tratta da Aristotile, l'altra da Plato. E queste due distinzioni teoriche sono fedelmente ritratte nei simboli.
Virgilio non parla nè degli ignavi del vestibolo, nè dei sospesi nel limbo, nè dei sepolti nell'arche. Dei primi, quando i due viatori li vedono, dice: non ti curar di loro. Essi vissero senza infamia e senza lode; non meritano, perciò, menzione alcuna. Non furono mai vivi; ed ora non sono nè vivi, poichè invocando la seconda morte, (Inf. 7, 117) mostrano di esser morti della morte prima; nè morti, poichè essi hanno una vita, sebben cieca e bassa; tanto che desiderano ma non possono sperare, di morire. (Inf. 3, 46) Di essi è simbolo la selva oscura.
Si legga infatti questo passo di Dante: “Siccome dice Aristotile, nel secondo dell'Anima, vivere è l'essere delli viventi; e perciocchè vivere è per molti modi, siccome nelle piante vegetare, e negli animali vegetare sentire e muovere, negli uomini vegetare, sentire, muovere e ragionare, ovvero intendere; e le cose si deono denominare dalla più nobile parte; manifesto è, che vivere nelli animali è sentire, animali dico bruti, vivere nell'uomo è ragione usare. Dunque se vivere è l'essere dell'uomo, e così da quello uso partire è partire da essere, e così è essere morto2. (Co. 4, 7) Morto dunque è l'uomo, sebben vivo, che non usi ragionare; dunque tanto morto si può dire chi, senza ragionare ovvero intendere, vegeti e senta e muova, quanto chi vegeti soltanto. Così, come Dante continua: “Siccome dice il Filosofo nel secondo dell'Anima, le potenzie dell'anima stanno sopra sè, come la figura dello quadrangolo sta sopra lo triangolo; e lo pentagono sta sopra lo quadrangolo; così la sensitiva sta sopra la vegetativa, e la intellettiva sta sopra la vegetativa. Dunque, come levando l'ultimo canto del pentagono, rimane quadrangolo; così levando l'ultima potenzia dell'anima, cioè la ragione, non rimane più uomo, ma cosa con anima sensitiva solamente, cioè animale bruto”. (Co. ib.) Del che consegue, che se si leva anche l'anima sensitiva, non rimane più animale bruto, ma pianta. Or ci sono siffatti uomini, che hanno, a giudizio di Dante, sola l'anima vegetativa, o, a dir meglio, operano, o piuttosto non operano, come se avessero solo il triangolo primitivo? Ci sono. Egli dice che “arbori„ possono chiamarsi “coloro che non hanno vita di scienza e d'arte„. (Co. 2, 1) Sopra tutto, dobbiamo ricordare la teorica centrale del poema sacro. Ogni anima ha una virtù che le è speciale, d'intendere prime notizie e di amare primi appetibili. (Pur. 18, 49) Questa virtù è detta prima voglia, (ib. 59) o amor naturale: (ib. 17, 93) amore senz'errore, voglia senza merito di biasimo o di lode. È essa o esso come il seme del volere: la voglia o l'amore mette le frondi verdi, e così mostra la vita; e così è allo stato di “pianta”, (ib. 18, 54) ma è “volere”, propriamente detto, sol quando fiorisce e tiene i fiori o allega, e perciò fruttifica. (Par. 27, 124, 148) Per quanto la necessità della metafora, conduca il Poeta a conservare l'imagine della pianta, sì che ella si conserva pianta pur fiorendo e fruttificando, s'intende che con quel primo stato di pianta verdeggiante o di seme appena nato o non nato, egli indica l'uomo che ha sola la potenza vegetativa dell'anima, come un parvolo, che, quindi, non può meritare nè lode nè biasimo. Il fiorire di questa potenza corrisponde al varcar la soglia, ove siede la virtù consigliatrice o prudenza. Il che s'ottiene col battesimo, il quale fa sì che anche un bambino appena nato meriti. E il fruttificare è l'operare; e come la pianta non fruttifica se non ha prima fiorito, così l'uomo non può operare meritoriamente, se non ebbe il battesimo. Ci sono poi le piante che non tengono i fiori, cioè che furono battezzati invano; e queste sono gli uomini che non operarono nè ben nè male; come ci sono quelle che dànno frutti avvelenati, e queste son gli uomini che operarono male e furono anche questi invano battezzati, se ebbero battesimo. Ma s'intende, ripeto, che vere piante sono gli uomini, che non dànno frutto, o che, magari, non isbullettarono da terra, o misero fuori appena un germoglio. È vero che il vivere delle piante è fiorire e fruttare; ma altro è paragonare l'uomo a una pianta, in quanto nasce, cresce, dà buone promesse o non le dà, le attiene o non le attiene; e altro è paragonare l'uomo in quanto vegeta, sente, si muove e ragiona alla medesima pianta; nel qual caso, il suo fiorire e fruttare non lo inalzerebbe punto dalla sua condizion di pianta a quella d'animale bruto e d'essere ragionevole. Nel modo primo, la pianta sterile che ha appena le foglie o appena appena il germoglio, o non fiorisce o fiorisce cambiando poi le susine in bozzacchioni, significherà ciò che, nel secondo modo, la pianta che tuttavia cresca e fiorisca e dia a suo tempo le sue ghiande o le sue zucche. Con tutto ciò, può venire un po' di confusione; e Dante mostra di sentire il pericolo di questa, quando nell'interpretare la favola d'Orfeo, non sa fare grande distinzione tra gli arbori e le pietre: i primi sono gli uomini che “non hanno vita di scienza e d'arte”; le seconde, quelli che “non hanno vita ragionevole di scienza alcuna”. Il fatto è, sembra pensare, che, paragonandosi, come si fa, l'uomo alla pianta senz'intenzione di deprimerlo, ma col fine di mostrarne evidentemente le varie stagioni e vicende; per significare l'uomo che non ha nemmen la vita del bruto, bisognerebbe ricorrere al paragone con la pietra; ma anche questo è imperfetto paragone, perchè la pietra non ha quel primo intelletto e affetto.
Insomma, o pianta sterile in paragone della fruttifera, o pianta, sia quanto voglia feconda in paragone degli animali irragionevoli e ragionevoli, ma sempre pianta è l'uomo che non mostra se non l'anima vegetativa, e non merita nè lode nè biasimo. Perciò selva oscura è il simbolo di questa sorta d'uomini; nè solo di quelli che fioriti per mezzo del battesimo, non tennero i fiori; che sono gli ignavi del vestibolo, punti da mosconi e vespe, come piante, come le piante della dolorosa selva che sono beccate dagli uccellacci Arpie; ma di quelli ancora che ebbero appena tempo di germogliar da terra, e non ottennero dal battesimo la mirabile fioritura virtuale; che sono i parvoli innocenti; e di quelli che fiorirono de' più bei fiori e fruttarono i più bei frutti, ma, mirabilmente, per non aver avuto battesimo, questi fiori non li misero, questi frutti non li diedero, al modo stesso che, essendo in luogo luminoso e
alto, vivono nelle tenebre; che sono gli spiriti magni. Nè ignavi, nè parvoli innocenti, nè spiriti magni furono mai vivi, sebbene respirassero e mangiassero e bevessero, e fossero pure Aristotile e Plato: vissero della vita vegetativa soltanto, perchè l'operazione loro o fu nulla o fu annullata. Così gl'ignavi sono vivi e morti, nel tempo stesso, e nè vivi nè morti, come chi, nel mondo, vivesse sempre nella selva oscura, in cui raggia la luna e non si vede, in cui è quasi morte e pur non se n'esce se non morendo; così i sospesi dal limbo formano una selva di spiriti spessi, e hanno un lume che non è lume. Nè vita nè morte: uno stato di sonno, come si può chiamare il vegetare, senza sentire e muoversi e ragionare. Molto simili a questi sono gli eresiarche “che l'anima col corpo morta fanno”. Essi sono messi dal Poeta in sepolcri, i cui coperchi caleranno nel giorno del giudizio. Ora i coperchi sono sospesi. Dopo, il “cimitero„ non lascerà uscir più una voce, un segno di vita. Essi sono i morti nel regno de' morti. Non contano: sono come non ci fossero. E pure vivono e soffrono. Anch'essi nè vivi nè morti.
Al triangolo si aggiunga un canto: divien quadrangolo. L'uomo, con la potenza sensitiva sopra la vegetativa, da arbore o selva diviene “animale bruto”. (Co. 4, 7) Sebbene abbia anche la potenza vegetativa, tuttavia si dice di lui che è una “cosa con anima sensitiva solamente„. Quella è sottintesa, come nel quadrangolo è sottinteso il triangolo; anzi l'anima loro, a parlar meglio, non è triangolo, è quadrangolo, cioè sensitiva. Questa condizione è raffigurata dal poeta con paragoni ad animali bruti, e con simboli di animali bruti che abbiano una natura sola, cioè il solo appetito sensitivo. I peccatori, invero, d'incontinenza, sono paragonati a gru, stornelli e colombe, i carnali; (Inf. 5, 46 etc.) a cani che urlano, i golosi; (ib. 6, 19) a cani che abbaiano, gli avari; (Inf. 7, 43) a ranocchi o botte gorgoglianti nel limo, i tristi; (ib. 125) a cani, quelli come Filippo Argenti. (ib. 8, 42) In genere, tutti guaiscono. (ib. 5, 2) I simboli sono Cerbero che è un cane, (ib. 6, 14) un vermo, (ib. 22) una fiera insomma “diversa”; (ib. 13) ed ha tre gole, che, senza affermare una natura trina del cane o del vermo, significano forse, o senza forse, la triplice incontinenza di concupiscibile. Pluto è un maledetto lupo. (ib. 7, 8) Flegias, come tale che grida, Discite iustitiam, fa riscontro a Minos, che giudica, e come barcaiolo dello Stige, a Caron barcaiolo dell'Acheronte. Flegias grida, non ha voce che per gridare, e forte; sempre, come una volta (ib. 619), magna voce; (ib. 8, 18, 19, 80 sg.) Caron grida; (ib. 3, 84); Minos ringhia, (ib. 5, 4) e grida. (ib. 21) Di Minos è ricordata la coda, (ib. 11) la quale costituisce, credo, la parvenza di demonio. Demonio è anche Caron: è caudato, credo, anch'esso; e così Flegias. Hanno tutti e tre, e per la coda e per la voce, della bestia; e sono bestie di una natura sola. E sono simboli del peccato, di chi visse come avesse la sola anima sensitiva, di chi sommise la ragione al talento, che è l'appetito sensitivo. E sono i punitori del peccato: peccato pena a sè stesso.
Al quadrangolo aggiungiamo un altro canto: sarà pentagono. L'uomo è vero uomo, se ha, sopra le due anime vegetativa e sensitiva, l'anima razionale. Se questa è corrotta, ecco l'uomo, il vero uomo, peccatore. Ora è superfluo dire che nell'anima razionale sono due potenze, volontà e intelletto. Dante fa tale distinzione, per es. in questo terzetto: (Inf. 31, 55)
l'argomento della mente
s'aggiunge al mal volere ed alla possa;
e in quest'altro: (Pur. 5, 112)
Giunse quel mal voler che pur mal chiede
con l'intelletto, e mosse il fumo e il vento
per la virtù che sua natura diede.
Bene: Dante significò con due nature aggiunte alla prima nei simboli suoi, queste due parti della ragione nel peccato. S'induce, in modo indubitabile, dal fatto che a Caco, centauro a parer suo, che non sta e va cogli altri centauri per aver commesso frode oltre che violenza, egli aggiunge un drago sopra la groppa: uomo dunque è Caco, e cavallo e serpente. (Inf. 25, 23) Ora la frode è detta proprio male dell'uomo e perciò più punita della violenza. Perchè proprio male dell'uomo? Perchè eseguita con ciò che è proprio bene dell'uomo, ossia con la ragione. Ma la ragione è volontà e intelletto; e invero sì intelletto e sì volontà mancano negli animali bruti. Ora la frode, se ha da differire dalla violenza, differirà non per la volontà e l'intelletto che in essa siano e nella violenza manchino, ma per l'una di esse: per la volontà, chè l'intelletto è più specialmente proprio dell'uomo, essendoci nei bruti una parvenza, almeno, di volontà. E così l'uomo che commette il male con la volontà ma senza intelletto, non è bestia, chè le bestie volontà non hanno, ma a bestia assomiglia assai: è theroeides, bestiale, come dice Dante interpretando con somma esattezza l'espressione greca; sebbene, per abusione, si possa anche dir bestia e fiera. Questo peccato, in cui entra oltre il quadrangolo, oltre, cioè, l'anima sensitiva, anche la volontà, è rappresentato dal Poeta con simboli bicorpori o biformi o bimembri, che dir si voglia: il Minotauro, chiamato bestia, sebben sia anche uomo; i Centauri, chiamati fiere, sebbene siano anche uomini, le Arpie mezze donne e mezze uccelli, le cagne che corrispondono alle Scille biformi di Virgilio. Ciò, ripeto, è indubitamente confermato dalla figura del centauro Caco che, per aver rubato, oltre le due nature, d'uomo e di bestia, ha anche la natura serpentina che figura l'intelletto.
Tricorpori e tricipiti e triformi sono, come Caco, i simboli dei peccati in cui oltre l'anima sensitiva entra la corruzione o il disordine dell'anima intellettiva nella sua interezza, di volere e mente. Ciò è perfettissimamente lucido per le apparenti eccezioni, che son tre: i diavoli, le furie, i giganti. Ebbene dei diavoli ha cura, quell'attentissimo artefice del pensiero, che è Dante, di dire che hanno mal volere, intelletto e la virtù lor naturale, corrispondente a ciò che è nell'uomo l'appetito sensitivo, proximus motui corporis nostri. Dei giganti il Poeta dice che oltre la possa e il mal volere, è in loro anche l'intelletto, che manca, per esempio, in Capaneo, violento com'essi, ma in cotal guisa bestiale e matta, contro Dio. Del resto tricorpore è Gerione, tricipite è Dite. E le furie? Le furie son tre, e sono unificate dall'unico Gorgon che mostrano per far di smalto i peccatori: il Gorgon che è l'accecamento e indurimento che consegue per lo più al peccato di malizia, sì che è ben difficile che uno se ne penta e risalga e si salvi.
Così la teorica dell'amore nel purgatorio ha la sua corrispondenza nei simboli. La macchia che si monda o la piaga che si ricuce nelle sette cornici, non è dell'anima intellettiva, sì della sensitiva. Il volere in quell'anime è volto a Dio, l'intelletto è rischiarato dalla luce del bene. Macchiata o ferita od offuscata è l'anima sensitiva in cui ha sede l'amore. L'amore erra per troppo o poco vigore o per mal obbietto, dando origine a sette peccati: quattro e tre. Ora nei quattro l'errore è semplice, consiste cioè in un piegare o soverchio o manchevole verso il bene: nei tre, l'errore è composto, per così dire, o duplice, a meglio dire. Il superbo spera eccellenza e perciò e con ciò ama la soppressione del vicino; l'invido teme di perdere il suo bene o i suoi beni, e perciò e con ciò ama il male d'altrui; l'iroso s'attrista per un'ingiuria ricevuta, e perciò e con ciò ama di renderla tal quale. Ora questi sette peccati chiamandosi capitali, Dante li rappresenta come capi; e poichè i primi quattro capi hanno un elemento solo, così “un sol corno avean per fronte”, e le altre teste avendone due, “eran cornute come bue”. (Pur. 32, 145).
L'inordinazione nella volontà e nell'intelletto, nella ragione, per dirla con una parola sola, non ha luogo nel monte santo di Dio; dove le anime salgono e pregano volte a Dio. Quindi nella citata figurazione i peccati si considerano per quel solo inizio loro che solo di loro si purga per le sette cornici: inizio che ha la sua sede nell'appetito sensitivo e non nella ragione. In vero chi mai è ragionevole peccando? Però nello antipurgatorio, di là della porta ove è l'angelo a cui si grida, Misericordia!, là, sì, si deve ancora scontare la malizia, di cui è fonte la “cupidità” che si liqua in mal volere. Nel fatto, là, c'è un serpe, il serpe, il peccato proprio dell'uomo, l'avversario, il diavolo. Ma gli astori celestiali mettono subito in fuga la biscia. (Pur. 8, 95).