Dati bibliografici
Autore: Giovanni Pascoli
Tratto da: Sotto il velame. Saggio di un’interpretazione generale del poema sacro
Editore: Zanichelli, Bologna
Anno: 1912
Pagine: 204-217; 260; 390-391
[…] La fortezza dei due viatori dell'oltremondo ha qui campo di manifestarsi come non altrove. C'è una città dalle mura di ferro rovente. Sulla porta più di mille caduti dal cielo, pieni di stizza e di sdegno. La porta si chiude sul loro petto. Qui è l'arduo veramente: quello contro cui vale la passione dell'ira, quando è col suo ordine. Ricordate l'altra porta? Quella è spalancata. Gl'ignavi che corrono nel vestibolo, quand'erano in vita, esitarono e sostarono avanti una porta aperta. La difficultas, tratta dal peccato originale, fu in loro così assoluta che trovarono impossibile la più facile opera. La menoma particella della passion dell'ira, cioè di fortezza, della quale essa ira è cote, sarebbe bastata. Ma avanti la porta chiusa e assicurata e difesa dai mille diavoli, ci vuol invece il massimo di fortezza o d'ira.
Virgilio a ciò si dispone e ciò promette. E dice a Dante: «Perch'io m'adiri, non sbigottire!» Ma non si vede che s'adiri, esso; non si vede che si prepari, esso, a usare quest'ira. Chè dice subito :
già di qua da lei discende l'erta,
passando per li cerchi senza scorta
tal che per lui ne fia la terra aperta.
Dunque aspetta altri, e tuttavia, pur fermandosi ad ascoltare se s'appressa colui che deve aprir la terra, tuttavia dice, con interrotte parole :
Pure a noi converrà vincer la punga
…se non… tal ne s'offerse...
Oh! quanto tarda a me ch'altri qui giunga!
Dante allora dubita che a quelli del limbo sia concesso passare oltre quelle mura e quella porta, e scendere nell'inferno della malizia o dell'ingiustizia. E Virgilio risponde, che la cosa è rara, ma possibile; ch'esso andò altra volta sino al più basso; nel «cerchio di Giuda» . E soggiunge: che la palude cinge Dite ,
u’ non potemo entrare omai senz’ira.
Senz’ira, di chi? di Virgilio? Ma egli aspetta un altro. Eppure, a rassicurar Dante, dice che esso fece già il cammino sino al «più basso loco e il più oscuro». E tuttavia non dice che egli può farsi strada; dice che «sa» il cammino. E tuttavia non dice che l'altra volta facesse un viaggio simile a questo che ora fa con Dante; dice che l'altra volta fu «congiurato» da una maga, per trarre dall'inferno uno spirito. Con quel «vero è» Virgilio sembra subito preparare il suo ascoltatore alla differenza che c'è tra quel caso e questo. Quella volta non ci fu resistenza da parte dei diavoli, e da parte sua non ebbe luogo ira. Questa volta, sì, occorrerà ira, e sarà una battaglia, ed esso vincerà con l'ira, cioè con la fortezza. Ma la fortezza sarà d'un altro che egli aspetta.
La sua invero non basta: è una fortezza puramente umana. Aristotele , riportato nella Somma , numera cinque modi di fortezza non vera. Lasciando i due ultimi, forte alcun può sembrare piuttosto che essere, se si volge a ciò che è difficile come se difficile non sia. Virgilio in vero si rivolge sulle prime ai diavoli, come se altro con loro non occorresse se non ciò che gli bastò con Minos, con Pluto, con Flegias, e gli basterà poi coi Centauri e Gerione e Anteo .
E il savio mio maestro fece segno
di voler lor parlar segretamente.
Ma i diavoli vogliono trattener lui e rimandar Dante: e poi si richiudono. Che fa e dice e pensa Virgilio? Per tre guise succede che alcuno sembri forte e non sia: per ignoranza, quand'egli non percepisce la grandezza del pericolo; per avere egli buona speranza di vincere il pericolo, quand'egli abbia sperimentato d'esserne sovente scampato; per una cotale scienza e arte, come accade nei guerrieri, che, per la perizia delle armi e l'esercizio, non stimano gravi i pericoli della guerra, credendo di potersi difendere contro loro mediante loro arte. E così Virgilio dice che vincerà la prova, contro ogni difensione dei diavoli, mentre il fatto mostra che da sè non avrebbe vinto; e d'altra parte non prevede il pericolo del Gorgon che, senza il suo subito accorgimento, avrebbe, sì, tolto il passo a Dante. E conforta Dante ad aver buona speranza; ed esso medesimo ricorda d'aver fatto quella strada e accenna a un'arte, che è appunto la magica :
vero è ch'altra fiata quaggiù fui
congiurato da quella Eriton cruda,
che richiamava l'ombre a' corpi sui.
Non mi par dubbio che il Poeta delinei negli atti e nelle parole di Virgilio questa sorta di fortezza apparente; con questo, che non tanto egli la giudica apparente e non vera, quanto inferiore e non somma. Che egli conosce una nobiltà (che è la perfezione della virtù conveniente alle singole età), la nobiltà, «divina cosa» cui quelli che hanno «sono quasi Dei». Invero «come uomini sono vilissimi e bestiali, così uomini sono nobilissimi e divini. E ciò prova Aristotele nel settimo dell'Etica per lo testo di Omero...» Il passo d'Aristotele è quello donde il Poeta ricavò la triplice disposizione che il ciel non vuole: malizia, incontinenza e bestialità, intesa a modo suo più forse che del filosofo. Egli lesse dunque: «Alla bestialità converrà dire che s'opponga la virtù sovrumana, eroica in certo modo e divina; come Omero ha indotto Priamo a dir di Ettore, perchè era assai forte (buono). E non pareva essere figlio d'uomo mortale, sì di un Dio».
E qui ci vuole uno la cui fortezza sia eroica, e che possa chiamarsi nobilissimo e divino: il che dà alla fortezza o nobiltà di Virgilio il carattere di minore e non di falsa. Ci vuole uno che abbia veramente esperimentato il pericolo. E con questo, bisogna che si trovi nella condizione di Virgilio, per poter scendere e sia quindi «del primo grado» anch'esso, poichè quelli, sebben di rado, fanno quel cammino del basso inferno. Inoltre deve essere tale che, essendo pur esso che vince la punga, Virgilio possa ragionevolmente aver detto: «Pur a noi converrà vincere».
Ed ecco viene l'aspettato: il suo eroe. Pare un vento impetuoso. Tutti quei clamorosi e rissosi colpevoli contro fortezza, perchè audaci, perchè, diremmo noi, spacconi, fuggono a lui, calmo e sicuro, davanti e fanno groppo di sè «Al passo» egli passa Stige «con le piante asciutte». Egli è, a questi segni, il veramente forte.
E qui la riprova ch'egli è del limbo. Ecco. L'offende l'aer grasso. Mena innanzi spesso l'una mano. Parea stanco solo di quell'angoscia. Ebbene? Ricordiamo: quelli del limbo sono «sol di tanto offesi» che desiderano l'alto sole senza sperarlo , e sono in luogo tristo «di tenebre solo» . Dell'angoscie infernali essi non conoscono che l'aer grasso.
È del limbo dunque. Or chi può essere tra gli spiriti magni del limbo questo supremamente forte? questo di cui Dante dice :
Ben m'accorsi ch'egli era del ciel messo?
questo per cui Dante si volge al maestro, per dirgli alcunchè?
E quei fe' segno
ch'io stessi cheto ed inchinassi ad esso.
Nel limbo, sopra il verde smalto, vide Dante molti spiriti magni. Di questi prima Elettra madre di Dardano e dei Dardanidi; prima Elettra con molti compagni ,
tra' quai conobbe ed Ettore ed Enea,
Di nessun altro egli dice, d'averlo conosciuto; sì, veduto. Conobbe soli questi due e Cesare. È impossibile non ricordare a questo punto che a provare che il popolo Romano ha diritto all'impero, perchè è il nobilissimo dei popoli, e che è tale perchè il suo padre fu il nobilissimo degli eroi; prima di recare le prove della sua nobiltà ereditaria e di parlare, a ciò, anche dell'avola vetustissima, Elettra; Dante, a dimostrare la nobiltà propria di Enea, dice : «S'ha da ascoltare lo stesso (Virgilio) nel sesto. Quivi, parlando di Miseno morto, che era stato ministro d'Ettore in guerra e, dopo la morte d'Ettore, s'era dato come ministro a Enea, dice esso Miseno non inferiora sequutum, facendo comparazione di Enea a Ettore cui sopra tutti Omero glorifica...» In quel terzetto è tutto questo pensiero. Ed egli pone primi tra gli spiriti magni i fondatori dell'impero, dall'avia vetustissima a Cesare; e dice d'aver conosciuto Ettore ed Enea, nonchè Cesare, perchè sono gli eroi dell'Eneide, e l'Eneide egli la sa tutta quanta. E l'Eneide è come il Vangelo profano del suo poema; e il suo eroe è messo insieme a San Paolo, quale esempio d'uomo che corruttibile ancora andasse ad immortale secolo . Questo Dante crede sulla parola di Virgilio: Tu dici. Or dunque poichè questo messo è del limbo, e perchè Dante s'accorge bene di lui e si rivolge subito a Virgilio per dirgli qualche cosa riguardo, certo, a questo suo essersi accorto di lui, noi possiamo facilmente indurci a credere che sia appunto Enea. Enea ha fatto quel cammino nelle condizioni proprie di Dante, ossia di corruttibile ancora; e non in quelle di Virgilio puro spirito; perciò ha intera esperienza. Inoltre nessuno meglio di lui può attraversare con le piante asciutte la palude dei due vizi collaterali alla fortezza. Dante in vero lui, sulla fede di Virgilio, dichiara sopra tutti fornito, oltre che del freno che si chiama temperanza, anche dello sprone che si chiama fortezza ; di quella che egli altrove dice «arme e freno a moderare l'audacia e la timidità nostra» ; di quello spronare per il quale «Enea sostenne solo con Sibilla a entrare nello inferno, contro tanti pericoli». Ciò spiega, come egli passi la palude dell'infirmitas e come i finti audaci si abbichino qua e là, come rane, fuggendo da lui. Ma c'è di più: egli apre la porta. La porta chiusa è quella della malizia che ha per fine l'ingiuria, ossia della ingiustizia. Ebbene come la palude dei vizi contrari a fortezza, è passata al passo con le piante asciutte da un supremamente forte, così la porta chiusa dei peccati contrari a giustizia, deve essere disserrata da un supremamente giusto. E questi è Enea. Dante cita le parole di Ilioneo : «Re nostro era Enea, di cui nessun altro fu più giusto...» E Virgilio dice a lui, sul primo mostrarsi :
Poeta fui, e cantai di quel giusto
figliuol d'Anchise...
Enea è il giusto, per eccellenza: pensa Dante.
Ed è invero il padre dell'alma Roma e di suo impero ; dell'impero che è la perfezione della vita attiva o civile, quando Cesare siede nella sella. E la giustizia è la virtù che assomma le altre, con il cui uso si ottiene la beatitudine buona, se non ottima. E così Virgilio s'annunzia come il poeta dell'eroe giusto e padre dell'impero; quasi dicesse il poeta dell'attività o civiltà umana. E così Dante esce in quei ricordi così intempestivi, come sembrano, del successor di Piero e del papale ammanto. Al cantor della vita attiva Dante, a voler dir lo vero, con la modestia del discepolo, col rispetto all'infelice, soggiunge: la qual vita attiva o civile è preparazione all'altra, alla contemplativa o spirituale. Nè a caso è ricordato con Enea, Paolo: il primo scese agl'inferi, l'altro salì ai cieli; l'uno per la giustizia, che assomma le virtù cardinali, l'altro per la fede, che assomma le virtù sante; l'uno per il cammino del mondo, l'altro per quello di Deo. Ma basti per ora. Tuttavia chiediamo a Dante un altro perchè. Perchè quelli «del primo grado», quelli che senza speme vivono in desìo, fanno, di rado bensì, ma qual che volta fanno, il cammino per il quale va Virgilio? Si muovono, cioè, per l'inferno, al contrario degli altri dannati, che sono confinati nel luogo della lor pena? Discendono per li cerchi dell'incontinenza ed entrano dalla porta della malizia e giungono infino all'ultimo dei tre cerchietti? Hanno, cioè, il passo per tutti i cerchi del peccato attuale? Risponde, per ora, il poeta: Perchè essi non si vestirono le tre virtù teologali, ma
senza vizio
conobber l'altre e seguir tutte quante.
Ebbero, cioè, le virtù contrarie alle tre disposizioni.
Ora dal limbo scende, come vento impetuoso, alcuno, «passando per li cerchi senza scorta»; per li cerchi dell'incontinenza di concupiscibile. Come non è questi il modello che Dante pone, di temperanza, anche dove quel personaggio non ha attinenza così grande con l'argomento del libro, che è il Convivio? Dove dice: «Quanto raffrenare (cioè l'uso del freno che dicesi temperanza) fu quello, quando avendo ricevuto da Dido tanto di piacere, quanto di sotto nel settimo trattato si dirà, e usando con essa tanto di dilettazione, elli si partì, per seguire onesta e laudabile via e fruttuosa, come nel quarto dell'Eneide è scritto!» E poi lo pone a modello di fortezza, dicendo: «Quanto spronar fu quello, quando esso Enea sostenne solo con Sibilla a entrare nello Inferno... contro a tanti pericoli, come nel sesto della detta storia si dimostra!». In quel «senza scorta» chi non vede sottinteso il pensiero «nemmeno con Sibilla questa volta, ma solo affatto?» Se era modello di fortezza entrando solo con Sibilla, chi non vede che il poeta qui lo presenta solo affatto, senza scorta, senza la sua scorta, perchè ne vuol fare l'esempio della fortezza assoluta? Chi non vede? I ciechi, o quelli che chiudono gli occhi, per non vedere la fiammolina della lucerna ch'altri accenda. Ma ognuno deve vedere, col ricordo dell'Acheronte, col ricordo dell'alto sonno che è un alto passo e somiglia al passo della selva la quale è una riviera; col ricordo che passar l'Acheronte è morir la morte da esso fiume significata; deve vedere che passar lo Stige, passarlo al passo, con le piante asciutte, vale aver morta la morte significata da esso fiume: la morte dei vizi collaterali alla fortezza. E qui abbiamo una gradazione innegabile. Virgilio e Dante lo passano sulla barca di Flegias: il Messo, a piedi, al modo che e Virgilio e Dante passano il fiumicello del limbo come terra dura . Quel fiumicello significa appunto scienza o ignoranza, secondo chi lo passa o no. È ignoranza per gl'ignoranti che non lo possono passare; è scienza per chi sa, a cui è terra dura. Così Acheronte e Stige sono morte e vita: morte, lo Stige per esempio, ai non forti, vita ai forti. E i non forti non possono andar oltre, e i forti sì. Ora poichè quelli del limbo sono corporalmente morti e Dante è corporalmente vivo, si dovrebbe attendere il solito divario tra il vivo e i morti. Ma no. Dante fa la questione se quelli del limbo possano o no scendere nell'inferno basso, passare per i cerchi, scendere dalle rovine, entrar dalle porte che gli avversari chiudono, passare i fiumi che solo a certe condizioni si passano; ed ha risposta, che sì, possono. Dunque quelli del limbo sono eccettuati, e, fuori che per il primo passo, per quello d'Acheronte, essi scendono ed entrano e passano alle condizioni de' corporalmente vivi. E ho detto il perchè: perchè ebbero le virtù opposte alle tre disposizioni, cioè la vita opposta a quelle tre morti. Mancò loro solo la vita opposta alla morte dell'Acheronte. Ma questa morte comprende tutte le altre morti: la mancanza di battesimo involve tutto il peccato, tutta la tenebra, tutta la morte. E così? Così Catone dirà di Marzia che «di là del mal fiume dimora»; misticamente dimora, mentre, localmente, dimora di qua, di qua dell'Acheronte, non di là. Chè quelli del limbo sono morti della seconda morte, della morte totale, perchè non adorarono debitamente Dio: morti della vulneratio; e sono nel tempo stesso vivi delle altre morti, vivi delle tre disposizioni, vivi delle quattro ferite, perchè ebbero le quattro virtù.
La nobiltà o virtù o fortezza eroica o divina del Messo vale ad aprire la porta di Dite, cioè la porta dell'ingiustizia: vale per la giustizia. Ora l'Enea del Convivio è il tipo della temperanza e della fortezza; ma si noti ch'egli è tale «nella parte dell'Eneida ove questa età si figura, la quale parte comprende il quarto e 'l quinto e 'l sesto libro dell'Eneida» . Dante avrebbe trattato di lui nel seguito del Convivio, perchè egli promette di parlarne «nel settimo Trattato». Il Convivio restò interrotto; ma il poeta ne parla invece nel Monarchia e nel Poema sacro. E ne parla per dire ch'egli è il nobilissimo padre del popolo Romano e ch'egli è «il giusto figliuol d'Anchise», che
fu dell'alma Roma e di suo impero
nell'empireo ciel per padre eletto.
La sua vittoria, che fu l'istituzione del perfetto stato di vita civile, come a dire, il trionfo della giustizia, fu cagionata dalle cose che intese negl'inferi. C'è, mi pare, un processo di proporzione evidente tra Enea e il Messo. Enea è portato ad esempio di perfetta temperanza e fortezza, e poi è detto giusto per eccellenza e instauratore della giustizia; il Messo è dimostrato supremamente temperante e forte, per la sua discesa senza scorta dai cerchi della concupiscenza, e poi è detto aprire la porta della ingiustizia. E le prime parole ch'egli dice ai diavoli e tutte le altre suonano questo senso: Perchè vi ribellate alla giustizia di Dio? Chè malizia per eccellenza, cioè ingiustizia, è la opposizione a Dio. E il Messo apre con una verghetta. Apre con essa la porta di Dite. Avanti la porta arcuata che interrompe le mura ferree della casa di Dite (che Dante forse confuse e a ogni modo fuse con la porta e le mura del Tartaro) l'Enea Virgiliano figge il ramo d'oro, che il poeta chiama «venerabile donum fatalis virgae» . O non è quella verghetta? Come si doveva Dante rappresentare quell'Enea ch'egli diceva di non essere, ma di cui imitava ora il viaggio, se non con la verghetta in mano? Ma nell'Eneide la verghetta non serve ad aprire e passare. Eppure nel testo di Virgilio Dante leggeva :
Occupat Aeneas aditum…
… ramumque adverso in limine figit;
e leggeva in Servio: ingreditur, sicut supra diximus. E supra leggeva la medesima espressione per dire proprio: entra. E più sopra leggeva che mediante quella «fatale verga» si faceva traghettare da Caronte. Insomma, o trasformasse o frantendesse, nell'Eneide aveva la ispirazione o il modello di quest'uffizio del ramo d'oro. E non basta. In Servio il Poeta leggeva: «accostarsi alle sacre cerimonie di Proserpina non poteva se non preso il ramo»; e celebrare i misteri di Proserpina Servio dichiara come «andare agl'inferi». Sapeva dunque il Poeta tutta la virtù simbolica del ramo in relazione a Proserpina. E chi non resta qui colpito dallo strale della verità, quando ripensa che in questo episodio è mentovata «la regina dell'eterno pianto», e poco dopo «la donna che qui regge» ? O non è qui Proserpina richiamata dalla «verghetta», dal ramo? Il qual ramo, infine, è detto da Servio simbolo di ciò «che si devono seguire le virtù» . Che più? E anche un'altra particolarità ha il Messo che ha anche l'Enea di Virgilio. Il Messo è noiato «dall'aer grasso», traversando lo Stige. Enea, entrando, come Dante forse interpretava, prima di figgere la verga, o forse, come egli ancora interpretava, prima di battere con essa alla porta, «sparge il corpo d'acqua recente». E Dante leggeva in Servio: «Recenti; semper fluenti, dixit hoc propter paludem Stygiam». Leggeva, o non aveva bisogno di leggere: «spargit aqua; purgat se nam impiatus (al. inquinatus) fuerat aspectu Tartari».
Dante si spiegava un po' grossamente quel lavacro lustrale: come se Enea fosse tinto dall'aria tinta, dall'aer grasso. E così fa che il suo Messo senta quella noia. Or come non è Enea che la risente? E il Messo parla. Non è Enea che ricorda il discorso di Caronte, la prima volta che discese ? «Egli venne a legare il custode del Tartaro...»: chè dice: Cerbero vostro. E in quel medesimo discorso Proserpina è chiamata «la signora». Come non se ne ricordò Dante allor che disse «la signora dello eterno pianto»? E ancor più significativo, e adatto ad Enea, eroe pagano, come la menzione di Cerbero, è quel verso :
Che giova nelle fata dar di cozzo.
Dante aveva presente il Desine fata deum della Sibilla; aveva presente, sopra tutto il comento di Servio alle parole «verga fatale»; comento che si riduce a richiamare il si te fata vocant . Anche la forma «fata» è importante; come importantissimo è il notare che il verso
ond'esta tracotanza in voi s'alletta?
è la traduzione d'un esametro virgiliano seguito a poca distanza dall'altro pur tenuto presente :
unde haec... tibi tam dira cupido?
[…]
Desine fata deum flecti sperare.
Mirabile, e degno di attento studio, è questo appropriare che Dante fa del linguaggio alle sue persone: da Nembroto che parla la sua lingua inintelligibile, a Virgilio che a Sordello si rivela con la prima parola del suo epitafio: Mantova (meglio, forse, Mantua), che doveva, mi pare, seguire con me genuit .
La prima volta: ho detto; ho detto: risente. Invero si meditino queste poche parole526 pronunziate dalla Sibilla, parole alle quali perciò Dante poteva attribuire un senso misterioso: «Se hai tanto affetto e desìo
bis Stygios innare lacus, bis nigra videre
Tartara:»
parole di quel discorso dove sono la porta sempre aperta e la facile discesa all'Averno, e le selve e il ramo d'oro, e la verga che rinasce dove fu svelta, e altro ancora, che Dante tenne a mente. Dunque bis passare lo Stige, bis vedere il Tartaro (che in Dante è la città di Dite, sia perchè fuse o sia perchè confuse): bis, due volte. Non egli mise d'accordo qui il suo vangelo profano coi suoi libri sacri? non la Comedia qui dichiara e corregge la Tragedia? Enea, per Dante, è nel limbo. Ma Virgilio, per bocca della Sibilla, dice che due volte egli è per vedere lo Stige e il Tartaro. Una volta li vide in quella andata. La seconda, quando? Chè morendo, nel limbo andò; non passò lo Stige nè vide (si noti la precisione!) il Tartaro più. Dunque? Questa volta, dunque. Oh! potessi evocare Dante! Chè questo ci vorrebbe, solo questo basterebbe, per certi increduli o pervicaci o ciechi! Dante padre, non è vero che tu al maestro, quando ti volgesti, volevi dire: «Ora vedo come tu hai detto che due volte costui, il tuo eroe, avrebbe passato lo Stige e veduto il Tartaro o Dite»? Non è vero, Dante padre?
Ma continuano e continueranno a dire che quel Duca , cieco d'occhi, era cieco anche di mente, quelli, e son tanti, che hanno gli occhi e non vedono!
E le furie col Gorgon? Le tre formano, col Gorgon in comune, un essere solo triplice o trigemino, e raffigurano certo i tre peccati dei tre cerchietti: malizia con forza, malizia con frode, malizia con tradimento. Il Gorgon è l'indurimento e accecamento che segue ai peggiori peccati; sì che la conversione da essi a Dio è pur così difficile, come Dante mostra con la difficoltà di risalir la rovina della sesta bolgia e di arrampicarsi per i peli di Lucifero, e con la legge, che chi trade come Giuda, cade subito in inferno come Lucifero e ricetta, come Giuda, un diavolo nel suo corpo. Or le tre furie equivalgono al leone e alla lupa, se il leone figura la violenza e la lupa la frode; od alla lupa sola, se è vero che la lupa comprende anche il leone. E mirabilmente equivalgono; perchè nella vista delle due fiere, e specialmente dell'ultima, è un Gorgon che fa disperare. E la lupa respinge l'uomo nel basso loco e nella notte
Al colle salirebbe Dante con l'esercizio delle quattro virtù che assommano le virtù morali: con la bontà dei costumi. Ma quelle e questa non basterebbero. La bestia lo ucciderebbe. Quindi gli propone altro viaggio. Questo viaggio è pur sempre una guerra contro la medesima bestia che assomma le altre due, contro Lucifero tricipite, di cui riescono, Dante e Virgilio, vincitori, mettendo il capo ov'egli ha le gambe; o contro le tre fiere, contro la lonza gaietta in sè e trista negli effetti, contro il leone violento, che è ira bestiale, e contro la lupa insaziabile, che è invidia infernale e infernale superbia; o contro le tre Furie, che rappresentano quest'ira e invidia e superbia, e che hanno un Gorgon che dà la disperazione e non fa più tornar su; ed è una guerra che si combatte con l'armi stesse che l'altra: con la temperanza e la fortezza e la giustizia e la prudenza; ossia con le virtù morali, ossia bonis moribus. Ma la guerra non è più nella deserta piaggia. Dante con la sua guida s'è inabissato, è morto. E quando risorge, sempre con la sua guida, ascende e ascende, sempre con quelle armi purificando ogni traccia di male; e giunge così bonis moribus, giunge là dove aspira. Chi lo guida e incuora e sostiene e reca in braccio e, insomma, l'accompagna, è lo studio, salvo che una volta al cantore si sostituisce l'eroe, e un'altra, al dolce padre la dolce madre.