Dati bibliografici
Autore: Giuseppe Fregni
Tratto da: Studi critici, filologici e letterari
Editore: Antica Tipografia Soliani, Modena
Anno: 1915
Pagine: 9-21
Eccoci ad una terzina di Dante delle più note e delle più discusse da tutti i filologi e commentatori del divino poeta: non riposano tranquilli: è sempre apparsa a loro una sfinge, un rebus, un punto indecifrabile, biblico: la ripetono sempre con sospir dolenti, ma non l’intesero mai: la studieremo anche noi: ma ecco intanto quanto hanno scritto in proposito i filologi e i commentatori di Dante:
R. Andreoli nei suoi commenti alla Divina Commedia — a pag. 30 — così scrive su questa terzina:
«O voi, ch’avete ecc. Gl’intelletti de’ comentatori, che spezialmente circa le allegorie non soglion mostrarsi i più sani del mondo, sottilizzano qui variamente, ma invano. Pietro Alighieri e le Chios. Dant. dicono che Aletto significa dl mal pensiero, Tesifone è pravo parlare, Megera la prava operazione: ma queste tre cose spalancano, non abbarrano le porte dell’Inferno. Il Rossetti qui vede un simbolo dell’esilio di Dante, al quale i Fiorentini chiudono le porte della nativa città: ma se Firenze era un inferno e gli abitatori suoi tante furie, né la ragione simboleggiata in Virgilio, né la grazia rappresentata da un Angelo avrebbero dovuto aiutar Dante a rientrarvi. Il Balbo, finalmente; in queste difficoltà a progredire giù per l'Inferno vede accennate delle difficoltà a continuare il poema: ma Dante non avrebbe mai di alcuni accidenti suoi propri fatto una parte sostanziale dell’Inferno. — A me pare che i nomi stessi in questo luogo sieno la miglior dichiarazione delle cose. Secondo la greca origine de’ vocaboli. Megera importa odio, Tesifone vendetta mortale, Aletto incessante, Gorgone terrore. Dante adunque vuol significare che il terrore causatogli dall'odio (c. XI 22) e dalla vendetta incessanti di Dio contro i dannati, il terrore in somma dell’eterne pene de’ rei (delle quali anco gli antichi e particolarmente Virgilio fecero ministre le Furie) lo avrebbe arrestato nella sua salutifera contemplazion dell'Inferno, se la divina grazia non avesse in lui supplito all’ impotenza della ragione».
Il Fraticelli, il Lami, il Ventura così scrivono su questi versi: a pag. 138, si legge:
«Che in disusata maniera mirabili sentenze ascondono sotto rozze parole. Questo avvertimento che dà il Poeta al lettore, non è determinatamente per questo canto, come supposero il Landino e il Vellutello; né determinatamente per questa cantica, come pretende il Daniello; essendo manifesto trovarsi infiniti altri passi molto più degni di osservazione, ma egli è per tutta la divina opera: e forse acconciamente in questo luogo più che in ogni altro, come tra parentesi è inserito, acciocchè apprendesse il lettore in altre incidenze simili a questa (che sembra più povera di dottrina morale e d’ogni senso allegorico) a non trascorrerle senza riflessa ponderazione.
Questo luogo appunto, ch'è detto dal Venturi essere il più povero di dottrina morale e di senso allegorico, io lo credo all'opposto il più ricco, e vi ravviso una delle più grandi ed importanti allegorie storico-politico-morali della Divina Commedia. Ma siccome non sarebbe qui molto acconcio il far lunghe digressioni e prolissi ragionamenti, così mi riserbo ad esporre minutamente in luogo più opportuno quello ch'io credo conveniente a porre in vista e dilucidare tutti gli ascosi sensi di questa grande allegoria Dantesca. — F.»
Tommaso Casini riportando tutto quello che hanno scritto in proposito i commentatori di Dante, a pag. 65, così scrive:
«O voi ecc. Questa dottrina nascosta sotto il velame degli versi strani, alla quale Dante richiama gl’ intelletti sani, è l’allegoria di Medusa; allegoria intorno alla quale sono molto diversi i pareri degli interpreti (cfr. C. Galanti, L’ allegoria Dantesca del Capo di Medusa, lettere, Ripatransone, 1882; C. Negroni, L’ allegoria dant. del Capo di Med., Bologna, 1882; R. Fornaciari, Studî, pp. 59-101; G. A. Venturi, Lectura, pp. 11-15). Degli antichi, il Lana vede in Medusa il simbolo dell’eresia, che «fa diventare l’uomo pietra, perché lo eretico vuole più credere alle sensualitadi che alla sacra scrittura»: l’Ott., l’Anon. fior, il Buti, facendo propria l’interpretazione del mito di Medusa data dal mitografo antico Fabio Fulgenzio, vi trovano il simbolo della dimenticanza, «alla quale Perseo, cioè l’uomo savio, taglia la testa quando con la tenace memoria sempre intende»: Iacopo di Dante vede Medusa l’operare contro la ragione; il Bocc., la libidine o la donna libidinosa che rende immemori e accieca gli uomini; altri cit. da Benv. l’astuzia oppure la cupidigia dei beni terreni: finalmente Bambagl., Pietro di Dante e Renv. trovano in Medusa il simbolo del terrore, col quale le Furie, simbolo dei rimossi, si sforzano di respingere il poeta. Dei moderni, alcuni come Filal., Blanc, Galanti, ritornarono all'idea dell'eresia; ma i più, come Lomb., Costa, Bianchi, Frat., Tomm., Poletto, tennero che Medusa simboleggiasse il diletto sensuale « il cui aspetto falsamente specioso può sedurre e perdere l’uomo»; né se n’allontanò in sostanza il Fornaciari, sostenendo le Furie essere simbolo dell’invidia «concepita come un odio mortale agli nomini», e operanti la loro insidia mediante l’ allettamento dei beni e piaceri mondani raffigurati in Medusa. Meglio di tutti lo Scart. dichiarava il simbolo di Medusa così: «Nella città di Dite sono puniti gli eretici, cioè i peccatori contro la vera fede. Il peccatore messosi sulla via della conversione [Dante] vuol entrarvi per considerare il fine di coloro (Salm. LXXII 17), ed arrivare mediante questa considerazione alla contrizione, e dalla contrizione alla conversione. Virgilio procura di persuadere i demoni, custodi della città, colle buone, cioè con ragioni filosofiche, ad aprirne l’ingresso, ma è respinto con beffe, poiché i miscredenti hanno sempre argomenti in pronto da opporre agli argomenti, e lo scherno è e fu sempre la loro arma prediletta. Alla conversione del peccatore si oppone inoltre la mala coscienza [le Erinni], e vi si oppone pure il dubbio, che ha la virtù di render l’uomo insensibile come pietra [Medusa]. Per drizzare gli uomini alla temporale felicità secondo gli ammaestramenti filosofici (De mon. III 16), l'autorità imperiale [Virgilio] esorta l’uomo di fare attenzione alla mala coscienza (Guarda le feroci Erine e di non volgere lo sguardo al dubbio petrificante (Volgiti indietro ecc.); inoltre, affinché l’uomo non si lasci cogliere nelle reti del dubbio e della miscredenza, l’autorità imperiale gli viene in soccorso coll’ opera (egli stessi mi volse ecc.) cioè colle leggi contro gli eretici. Se non che l'autorità imperiale non basta per sé sola a guidare l’uomo alla contrizione in merito a peccati concernenti la fede. Ma l’autorità ecclesiastica le viene in soccorso (Tal ne s’offerse) ministrando la divina illuminazione (il messo del cielo) che vince e le obbiezioni de’ miscredenti col loro scherno [demoni], e gli ostacoli della mala coscienza [Erinni], e i pericoli del dubbio [Medusa], ed apre così una via attraverso tutte le difficoltà».
Matteo Romani nella sua Divina Commedia spiegata al popolo, in commento di questa terzina, a pag. 175, così scrive:
«O voi, che avete gli intelletti penetranti, e che non state contenti all’intendere il senso letterale, ma penetrando entro la scorza della lettera volete gustare il midollo del senso allegorico e mistico; mirate l'alta dottrina, che sta nascosta sotto il velo di questi versi strani. Primieramente sopra la torre della città dolente, che punisce gli increduli e gli eretici, stanno le tre furie, Megera furia dell’invidia, Aletto della lussuria, Tesifone della violenza, per dinotare che invidia, lussuria, violenza sono le tre passioni che spingono gli: uomini all’incredulità, e all’eresia: e la storia ti mostra gli increduli, e gli eresiarchi infetti o di tutti tre, o almeno d’uno di questi infami vizj. Medusa fu donna bellissima e lussuriosa, che seduceva gli uomini, che con essa lei si addimesticavano, e li rendeva inetti alle opere grandi e degne; perciò dice la Mitologia che il capo di lei, detto Gorgone, nell’Inferno conserva la potenza di cangiare in sassi gli uomini curiosi che lo guardano. Cioè la Mitologia insegna che chi si espone al pericolo, massime in fatto di lussuria, ne resta vittima: però Virgilio udendo le furie chiamare il Gorgone, non solo mi comanda di voltarmi e di chiudere gli occhi: ma egli stesso mi volta e mi chiude gli occhi, e me li tiene chiusi finché sia passato il pericolo, insegnando col fatto ai maestri, ai custodi, agli educatori della gioventù quanto esser debbano energici nel tenerla lontana da siffatti pericoli».
Alfredo Galletti, uno degli ultimi comparsi nello studio di questi versi, professore di belle lettere all’Università di Bologna — «alla Casa di Dante — così illustrò il canto IX dell’Inferno: lo prendo dal giornale il Mattino di Bologna del lunedì 6 aprile 1914: così riporta e scrive questo giornale.
«Oggi alle 14,30 alla «Casa di Dante» il prof. Alfredo Galletti della vostra Università, ha commentato il IX Canto dell’Inferno innanzi a numeroso pubblico, che lo ha vivamente applaudito.
Il conferenziere comincia dicendo che fra il Canto IX, argomento della sua lettura, e il Canto precedente vi è un così intimo nesso, che i due Canti formano un solo argomento poetico. Un dramma si inizia alla seconda metà del Canto VIII, che qui svolge, dopo varie peripezie, alla catastrofe.
«I due poeti peregrinanti l’ Inferno, hanno trovato sulla soglia della città di Dite un ostacolo insormontabile nell’opposizione diabolica che qui non vuole cedere, né alle preghiere, né alle esortazioni di Virgilio: Dante, impaurito, vede tornare il Maestro colle ciglia umiliate, nell’ atteggiamento dell’uomo deluso, ed è preso da terrore, tanto più che i demoni hanno invitato Virgilio ad abbandonarlo e a lasciarlo tornare solo per la folle strada. Ora il Maestro fa coraggio a Dante e promette prossimo un soccorso di Dio, ma le sue parole dubbiose e contradditorie accrescono il terrore di Dante: invano Virgilio, per distrarre il pensiero dalla immagine del terrore di Dante: incomincia il racconto di un suo precedente viaggio attraverso tutti i cerchi infernali, fino al cerchio dei traditori: l’occhio di Dante è afferrato da una terribile visione, che apparisce improvvisamente intorno alla cima della ferrea torre infuocata che custodisce la soglia di Dite: sono le tre furie: Megera, Alegta e Tesifone, che minacciano di pena il temerario che osò, vivo, scendere nel regno dei morti. E poiché Dante non sembra disposto a ritornare, invocano Medusa, la Gorgogna, la cui vista impietrava i corpi e gli spiriti.
«Qui il conferenziere, dopo avere tracciato il quadro spaventoso che Dante con pochi tratti suscita nella fantasia commossa dei lettori, osserva che il Poeta stesso distrugge le allucinazioni fantastiche create dalla sua arte per invitare bruscamente i lettori a ricercare la dottrina che si asconde
sotto il velame de li versi strani.
Vuole cioè che al rapimento della fantasia sottentri bruscamente la riflessione. Il De Sanctis esorta i lettori della Commedia a mettersi risolutamente di fronte al testo rimuovendo il frascame dei commenti allegorici e dottrinali. Il consiglio è certo buono per chi voglia intendere la potenza della fantasia Dantesca; ma, come seguirlo, se Dante stesso ostinatamente, richiama a considerare che il suo poema contiene ben altre verità di quelle che la parola per sé esprime e che la narrazione apparentemente significa? Anzi, quando teme che la potenza illusoria del suo poema sia troppo forte sui nostri spiriti, ci afferra per un braccio e ci invita come scolaretti a stare attenti alla morale, dichiarando che chi si accontenta dei fatti e dell’apparenza dà prova di poco spirito. Poiché dunque così vuole ed imperiosamente il Poeta, bisogna cercare la dottrina allegorica nascosta sotto il volto gorgoniano di Medusa.
«E qui il conferenziere, dopo avere brevemente indicato le numerose interpretazioni di questo simbolo date da infiniti commentatori, osserva che Dante, esortandoci a queste indagini, vuole far capire che sarà facile intendere il suo pensiero: il consiglio ha sapore di ironia. Per conto suo, il prof. Galletti, pure riconoscendo che qui si tratta di un «enigma forte», propone di vedere in Medusa, contro la quale lo stesso Virgilio — cioè la ragione e la sapienza umana — non ha riparo, anzi deve velare egli stesso gli occhi del discepolo — l'orgoglio del pensiero e della scienza cui maggiormente sono esposti gli ingegni più forti, orgoglio che indurrà l’anima a chiudersi alla luce della grazia e che la spinge al dubbio ed alla negazione».
Ma per quanto abbia letto questo commento, e più volte, ed anche attentamente, non sono mai riuscito a ben comprendere la interpretazione del Galletti: è scuro Dante, ma è più seuro questo nuovo commentatore: pare lo riferisca all’ orgoglio umano e che dica cioè, che dov'è maggiore l'ingegno qui sono maggiori i dubbii e la negazione: ma queste sono parole generali che nulla concludono, e nulla conclusero fino qui pure tutti gli altri commentatori di Dante — in una parola — non hanno ancora inteso nulla di questa terzina di Dante, è ancora tale e quale sortì dalla penna del divino poeta: vediamo d’intenderla:
Dante scrive:
Venga Medusa, si’l farem di smalto
(Gridavan tutte riguardando in giuso);
Mal non vengiammo in Teseo l'assalto.
L’interpretazione va bene e nulla v'è di nuovo e d’oscuro:
Segue l’altra terzina:
Volgiti indietro, e tien lo viso chiuso;
Che se il Gorgon si mostra, e tu’l vedessi,
Nulla sarebbe del tornar mai suso.
Così disse il Maestro; ed egli stessi
Mi volse, e non si tenne alle mie mani,
Che con le sue ancor non mi chiudessi.
Qui incominciano le difficoltà: chi è la Gorgon — prima domanda — ben poco la studiarono i commentatori di Dante: le Gorgoni — scrivono tutti i mitologi — lo prendo dalla mitologia classica di Francesco Tarducci — a pag. 83, si legge:
«Le Gorgoni — scrive il detto Tarducci — erano tre, figlie di Forco, Dio marino, e si chiamavano Medusa, Euriale e Steno. Esse erano un fior di bellezza specialmente Medusa, ma per questa loro avvenenza erano divenute tanto orgogliose, che Minerva non le potè più comportare. Le tre bellissime fanciulle furon dunque cambiate in tre orribilissimi mostri con mani di metallo ed ugne di leone: i biondi e lunghi capelli divennero serpenti: e per maggior dolore e strazio fra tutte e tre non fu lasciato loro che un solo dente e un occhio solo, che le disgraziate si prestavano l'una all’ altra e adoperavano a vicenda. Il nome di Gorgone però si applica più specialmente alla sola Medusa, la quale quanto nel tempo felice vinceva le sorelle in bellezza e avvenenza, altrettanto dopo la loro disgrazia le superava per orrida e spaventosa mostruosità. E fosse pur bastato allo sdegno di Minerva di renderla orribile e spaventosa in vista! Ma per farle più vergogna e scorno, affinché tutti fuggissero da lei, e non avesse più la consolazione di uno sguardo colei, che si era tanto inorgoglita di vedersi guardata e ammirata, volle ancora che uomini e animali al solo vederla morissero e fossero cambiati in sasso».
La morale di questa credenza mitologica: è facile indovinarla: chi guardava la Gorgon diventava un sasso, una pietra, materia: Virgilio — dice a Dante — volgiti indietro e tien lo viso chiuso, che se il Gorgon si mostra e tu il vedessi, nulla sarebbe del tornar mai suso: se la Gorgon si mostra, e tu la vedi, diventi un sasso, una pietra, materia, e non potresti più ritornar uomo su al mondo: chiudi gli occhi — ma di tanto volle Virgilio che li chiudesse, che alle stesse mani di Dante, Virgilio aggiunse anche le sue — è duopo che tu a dirittura la schivi — vedendola diventeresti un sasso, una pietra, materia:
O voi che avete gli intelletti sani — soggiunge Dante — mirate la dottrina che s’asconde sotto il velame degli versi strani: quale dottrina! — è là dottrina del materialismo, o dei materialisti, che salta fuori: il materialismo fu, ed è, una dottrina filosofica che ammette un sol principio — il principio cieò del materialismo di tutte le cose e nega che l’uomo sia animato da una sostanza spirituale — nega lo spirito e l’anima all’ uomo: questo principio formò la dottrina e la scuola filosofica dei materialisti e la forma tuttora: se la Gorgon a te si mostra, e tu la vedi — diventeresti un sasso — non più saresti un uomo, uno spirito, ma una pietra, materia: O voi che avete gli intelletti sani — e che cioè la vostra mente non è guasta da alcuna setta malvagia — e come Dante lo spera — mirate la dottrina che s’asconde sotto al velame degli versi strani — e cioè sotto l’ allegoria mostruosa della Gorgon — è la falsa dottrina del materialismo e dei materialisti: una volta convertito in sasso, tu non saresti più uno spirito, non più un uomo, ma una pietra, materia: Dante, filosofo, mette l’animo e lo spirito nell’uomo — è uno spiritualista — e combatte a tutt’uomo, è materialisti, il panteismo e gli atei: e più avanti e nello stesso canto IX, esplica ancor maggiormente questo suo principio — e Dante dice a Virgilio:
Maestro, quai son quelle genti,
Che seppellite dentro da quell’arche
Si fan sentir con gli sospir dolenti?
Ed egli a me: Qui son gli eresiarche
Co’ lor seguaci d’ogni setta, e molto
Più che non credi, son le tombe carche.
Accenna agli eresiarchi — ai contrari alla fede ortodossa della religione cattolica, ad Ario, a Simon Mago, a Nestorio, ete. — ma nello stesso tempo vi accenna ai seguaci d’ ogni lor setta, e vi comprende pure i materialisti, i panteisti e gli atei, e la dottrina che si asconde sotto al velame degli versi strani, e cioè sotto la figura della Gorgon che vi trasforma in sasso, è la falsa Dottrina del materialismo e degli atei: non vi lusinghino — dice Dante — i materialisti — non siamo solo materia, ma siamo corpo ed anima: la Gorgon vi ridurrà in un Sasso.
Ecco quello che dice Dante con questa terzina delle più belle e delle più importanti di tutta la divina Commedia: qui Dante fa il filosofo e vi dice che professa i principii dello spiritualismo contro ai materialisti — O voi che avete gli intelletti sani — e che cioè non siete corrotti da alcuna setta — mirate la dottrina che s’asconde sotto il velame degli versi strani e cioè sotto la strana mitologia della Gorgon — non siamo solo materia — ma materia e spirito: qui è riposta tutta la doppia natura dell’uomo: non vi lusinghino i materialisti, i panteisti e le strane obbiezioni degli increduli e degli atei: è questo il concetto che informa tutta la Divina Commedia: è anche tutta la credenza religiosa e la vita filosofica di Dante: e nel C. X del Purgatorio vi conferma questo nobile principio, e ve lo conferma con parole solenni e divine, a tutti note, e vi dice:
O superbi Cristian miseri lassi,
Che, della vista della mente infermi,
Fidanza avete ne’ ritrosi passi;
Non v'accorgete voi, che noi siam vermi
Nati a formar l’angelica farfalla,
Che vola alla giustizia senza schermi?
La farfalla fu negli antichi tempi il simbolo dell’anima e dai greci chiamata Psiche — e qui Dante vi dice — non vi lusinghino i materialisti, il panteismo e gli atei colle loro strane dottrine — siam si materia, siam vermi, ma nati a formar V angelica farfalla, che vola alla giustizia senza schermi: siam corpo ed anima: agli amici miei la mano ed un cordiale saluto dal loro sempre.
Modena, 1 Marzo 1915.