Dati Bibliografici
Autore: Alfonso Ricolfi
Tratto da: Nuova rivista storica
Numero: XLII
Anno: 1958
Pagine: 19-36
Perché tale resistenza è proprio determinata, nel pensiero di Dante, dalla mancanza nel mondo dell'Aquila; dal prevalere della lupa. cioè dal prevalere dell’ingiustizia; e pertanto egli ha immaginato confinata sul monte Ida quell’Aquila che Enea portò un giorno nel Lazio da quel monte, e che ha così forte rilievo nel canto IX (oltre che nel XXXIII) del Purgatorio. E come in detto canto IX nel sogno misterioso, ma pur profondamente ammonitorio, dell'Aquila imperiale egli, raffigurandola ridotta a far le sue prede spirituali sul monte che le fu culla, ci fa comprendere che da questo suo confino sull’Ida deriva il trionfare dei mali dell'ingiustizia nel mondo, e che solo dal suo ritorno nel mondo dipende il ritorno della tranquillitas ordinis, così colla descrizione della resistenza dei diavoli e dell'arrivo del messo, egli, sia pure in modo alquanto misterioso, intende di farci comprendere che solo dal ritorno nel mondo di un imperatore che si cibi e cibi gli uomini di «sapienza, amore e virtùte » (Inf., I, 104) dipenderà la salvezza dell'umanità dalle insidie del leone e della lupa. Tal parve a Dante Arrigo VII affacciandosi, da poco imperatore, sulle Alpi.
Un aquilifero dovrebbe adunque esser il messo, anche per ragioni di correlazione. E infatti ogni dantista sa quanto impegno Dante abbia posto nel creare fra le tre cantiche una correlazione di parti, una concordia, sia pure discors. Ora, come nella valletta dell’antipurgatorio viene in sogno a Dante da poco dormente, una Donna aquiliforme, che, andatagli incontro per aiutarlo nel superare quella parete, lo porterà in alto a superare i tre peccati delle prime tre cornici, prima che il sogno di un’altra donna «santa e presta » lo prepari a superare quelli delle ultime tre, così nell'inferno, davanti alle mura di Dite, là dove Dante sta per entrare nel regno dei peccati peggiori (nei quali possono «liquarsi» — come dice Dante, (Par., XV, 1-3) — cioè, disciogliersi, risolversi, i tre mali della superbia, accidia ed ira del Purgatorio), dovremmo trovare un aquilifero ; e lo troviamo, a nostro avviso, infatti.
È vero: pochi dantisti, e massime gli anziani, ieri hanno aderito alla interpretazione data primamente nel 1847 dal Caetani di Sermoneta, e avvalorata poi con copia di argomenti dal Pascoli e dal Valli , che il «messo» sia Enea; ma essa va facendo cammino. Anche il Pietrobono ha visto nel «messo da cielo» la prefigurazione del Veltro, ossia di un imperatore , e ha sostenuto con buoni accostamenti fra espressioni concordanti dell'episodio infernale e simili espressioni dell’epistola ad Arrigo VII che, a questo punto della sua visione, Dante, a vendetta del suo esilio, adombra nei diavoli che si fanno sulle porte di Dite i suoi diabolici concittadini guelfi e neri, come tali, accaniti oppositori ad Arrigo VII. E infatti, come i diavoli sbarrano la porta a Dante, e poco dopo, ma restando scornati, al personaggio che sta per venire, così i fiorentini sbarrerranno nel 1312 le porte in faccia all'imperatore che pur veniva a ripristinar la pace, proprio come l’Agnello di Dio (Ecce agnus Dei, ecce qui tollit peccata mundi, lo saluta Dante nella epistola ad Arrigo VII).
Ecco perché Dante penserà di far qui intervenire in suo aiuto un inviato di Dio, che rappresenterà, in più alto grado di Virgilio, poeta dell’impero, la somma virtù che regge il mondo : la giustizia. Molto ha potuto e potrà Virgilio, che, vivendo nel Limbo, non è «legato» da Minosse; ma dinanzi alla porta di Dite Dante ha immaginato ch'egli non più gli basti, e ciò semplicemente per darsi la possibilità di ammonire gli «intelletti sani» di quella che per lui è la necessità più impellente al suo tempo per arrestare lo sfacelo politico e sociale del mondo: la restaurazione dell’Impero e della giustizia.
Il «messo da cielo» per noi dunque è Enea; e la cosa dovrebbe essere chiara a quanti, letti i capitoli Lo tuo volume e La divina commedia della MIRABILE VISIONE, hanno potuto persuadersi meglio della inevitabilità che fosse fatto intervenire, a un certo punto del dantesco viaggio d'oltretomba, quell’Enea che Dante menziona colla massima reverenza nel canto II dell’Inferno, di lui asserendo
ch’e’ fu dell’alma Roma e di suo impero
nell’Empireo ciel per padre eletto (vv. 20-21);
ed hanno potuto pur constatare dalle dotte disquisizioni del Pascoli quante ispirazioni di concetti e quanti personaggi Dante abbia derivato, specialmente nel suo Inferno, dal VI canto dell’Eneide; ora doveva egli davvero lasciarsi sfuggire la possibilità di dare proprio al protagonista della sua bibbia pagana un ruolo che sarebbe riuscito ben più importante di quello di semplice «comparsa» conferitogli nel canto IV della prima cantica, contentandosi di menzionarlo appena fra gli spiriti magni, da lui veduti nel nobile castello?
Il «messo da cielo», che di angelico non mostra di avere né la candida raggiante veste, né le candide ali, e non viene dal cielo, ma è semplicemente un inviato per volere del cielo, sarà quindi, come vuole il Pascoli, l’altro grande viatore d’oltretomba, che Verrà a questo punto in aiuto al nuovo viatore, servendosi, per aprire la porta, di una verghetta, come di una verghetta era sceso armato, quando era stato accompagnato dalla Sibilla; è Enea «perché il Messo del cielo viene da di qua della porta dell’Inferno dunque dal Limbo, perché solo quelli del Limbo non sono legati da Minos (Purg. I, 77); ed è perciò Enea, perché a Virgilio l’innominato Messo si era offerto , e non gli si poteva offrire che uno del Limbo, è Enea, perché senza scorta (esso che l'ebbe altra volta) scende i cerchi della incontinenza di concupiscibile, e Dante l’ha nel Convivio (4, 26) recato a modello e tipo di stringitore di freno; e perché passa come terra dura la palude dell’incontinenza d’irascibile o di «manco» di fortezza e di magnanimità, ed esso è nel Convivio recato a modello e tipo di movitor di sprone; perché è insomma temperante e forte, tipicamente; è Enea perché non altri che uno dotato di virtù eroica in grado supremo, poteva aprir la porta che conduce alla bestialità, che è, secondo Aristotele, il perfetto opposto di detta virtù; perché non altri che un sommamente giusto poteva schiudere il varco che la malizia o ingiustizia aveva chiuso [quest'ultimo punto sarà fondamentale nell'interpretazione del Valli]; è Enea perché è Messo del cielo, e Dante se ne avvede e vuol parlare a Virgilio [«e volsimi al maestro»] cantore o, vorrei dire, evangelista di lui; ed Enea appunto fu eletto da Dio per padre di Roma e dell'Impero (Inf. II); è Enea perché mostra qui quegli animi e quel fermo petto che ad ammonimento della Sibilla usò nella sua prima discesa; è Enea perché parla ai diavoli di fata e di Cerbero, e usa altre frasi udite nella prima discesa;... è Enea perché si ritrova avanti alla reggia di Proserpina o meglio di ‘Dite o regina dell’eterno pianto, personaggio che in nessun altro luogo dell’Inferno è ricordato, e che è ricordato qui per suggerir il nome di lui che «occupò l’adito» di quella reggia nella sua prima discesa; è Enea perché ha appunto una verghetta in mano, come nella sua prima discesa, e l’usa con qualche divario, ma l’usa ora sulla soglia di Dite o della sua moglie, come allora, e con l’effetto di passare sino all’Elisio o purgatorio, come nella prima discesa; è Enea perché d’Enea la «tragedia che non falla» racconta come l'infallibile Sibilla dicesse che due volte sarebbe galleggiato sullo Stige e due volte avrebbe veduto il Tartaro, il che, secondo l'interpretazione dantesca, a dar retta all’Eneide, non era successo che una volta, quella volta». E la seconda volta? A conferire veracità alla profezia della Sibilla, e a far «galleggiare», cioè «camminare, a piante asciutte» sullo Stige «Enea» una seconda volta, provvide appunto Dante, nell'episodio da lui ideato e sceneggiato, del IX canto dell'Inferno. Dopo la sua morte, l'eroe avrebbe passato lo Stige una terza volta .
Alla serrata dimostrazione pascoliana, darà un nuovo apporto di conferma il Valli, che, cogliendo e valorizzando in Enea particolarmente l’aspetto che più lo interessa: quello di uomo altamente ed impareggiabilmente giusto ed energico, farà propria l'equivalenza dal Pascoli qui posta fra malizia e ingiustizia. Enea infatti sarà per lui «quel giusto» (Inf., I, 73) che aprì la porta del regno dell’ingiustizia e della eresia. Vero è che, se accettiamo che questo misterioso personaggio sia Enea, l'apertura della 2° porta nell'inferno dantesco apparirà quale veramente è e deve essere, ossia la vittoria di un giusto sui peccati di questo regno del basso inferno.
«Uno del Limbo» (del primo grado) doveva essere, dice il Pascoli. È vero. Dante infatti a qualche vaga parola di Virgilio («tal che per lui ne fia la piaggia aperta») se ne accorge subito; e darà qualche aiuto al lettore, affinché si metta sulla strada giusta per intender la verità che s'asconde «sotto il velame de li versi strani»; e infatti non per un capriccio o caso chiede a Virgilio:
In questo fondo della triste conca
discende mai alcun del primo grado
che sol per pena ha la speranza cionca?
(Inf., IX, 16-18).
Né solo egli chiede per aver modo d'informare il lettore con le parole con cui Virgilio gli risponderà; cioè, che Virgilio già conosce quel cammino; ma per suggerirgli che quel misterioso «tal» potrebb’essere uno del primo grado, mettendolo così sulla strada d’indovinare.
Or chi meglio di Enea poteva essere? Chi, meglio di Enea, già sceso colà colla scorta della Sibilla, poteva scendere l’erta, ormai senza aver bisogno di scorta (passando per li cerchi sanza scorta)?
Ma Enea non è per Dante soltanto il giusto che trionfa sull'opposizione degli ingiusti; egli è anche per lui un nobilissimo esempio di quel freno della temperanza e di quello sprone della fortezza senza di cui non sarebbe stato facile a lui, per soccorrere il viatore poeta, scendere, varcando vittorioso i tre cerchi dell’intemperanza e quello del vizio più opposto alla vera fortezza: l’irascibile.
E infatti, per darci due esempi di tale freno e tale sprone, Dante nel Convivio non fa fatica a desumerli dalla vita dell’eroe predi- diletto del suo maestro: Enea .
E forte Enea si dimostrerà di fronte ai diavoli, sgominandoli; e col suo intervento Dante, l'umanità che manca dell’Impero e della giustizia, potrà varcare alfine, senza più alcuna guerra, (Inf., IX, 118) la porta di Dite, porta che dà accesso al regno di quei peccati che soltanto può rintuzzare il braccio secolare della Chiesa: l’Impero.
Ma il verso più tormentato e discusso, l'85° del canto: «Ben pareva ch'egli era da ciel messo» (così, secondo la lezione del più accreditato testo: «del ciel messo», secondo altra lezione) sembrava fatto apposta per confondere il lettore, inducendolo ad una interpretazione istintiva e spontanea che mal regge ad una più intelligente interpretazione, come già accennammo, e come ora vedremo meglio; i più infatti continuarono a vedere in questo messo un vero e proprio angelo con candide ali (e non solo un messo, o mandato o inviato, nel senso etimologico o generico della parola: anghelos, così in greco dicesi il messo), come già avevano inteso fra gli antichi il Lana, l’Ottimo, l’Anonimo ed il Buti.
Con una convinzione che non ci parve quasi mei sorretta ed avvalorata da un personale studio ed approfondimento di tale problema hanno creduto di accettare tale opinione, come risulta dai loro commenti al poema sacro, i seguenti dantisti: Tommaso Casini e il suo continuatore S.A. Barbi («Meno felice fu la congettura di M. Caetani, il quale con troppo ingegnoso ragionamento (??) si sforzò di mostrare che il messo celeste fosse Enea…»: commento all’Inf., pag. 81), tali lo Scartazzini e il suo rinnovatore Giuseppe Vandelli («dal cielo non potea venire Enea (Inf., IV, 122); «bensì un angelo »; commento all’Inf., pag. 69 e 71); tali Carlo Grabher («Senza nessun calcolato indizio si è voluto riconoscere Enea...», comm., Inf., pag. 115) e Attilio Momigliano («il messo ci ricorda l’antecedente delle «donne del canto II»: curioso e non molto convincente questo raccordo; piuttosto il messo ci potrebbe, se mai, ricondurre il veltro, ricacciatore della lupa nella selva selvaggia); se mai, tali Ercole Rivalta («Dante ha intuito dall’aspetto del messo ch’egli non può venire che dal cielo...» comm. Inf., pag. 88); e Isidoro Del Lungo («Spirito purissimo, l'Angelo (il messo dal cielo, v. 85), si sente come oppresso da quelle sozze esalazioni », comm. Inf., pag. 163); e infine il Manfredi Porena («E chi è il messo celeste ?... È un angelo: ed è strano (?) che la fantasia dei commentatori si sia tanto sbizzarrita intorno a questo personaggio», comm. Inf., pag. 91). Qualche altro parteggiò per detta opinione più blandamente e supinamente: (tale lo Steiner: «I più dei commentatori, e noi staremo con questi (bella ragione! argomenti ci vogliono!) ci vedono un angelo; qualcuno, Enea»: comm. Inf., pag. 87; tale il Provenzal, comm., pag. 73; tali il Camerini e il Montanari, che nel loro commento, giunti al tanto discusso verso 85 («dal ciel messo»), passano via silenziosi sulla questione, tranquilli di non aver guastato la digestione ad alcun moderno interprete, né turbati i calcoli a qualche pavido editore.
Un altro dantista la cui esegesi si è fatta cogli anni più generica e più guardinga di fronte alle allegorie dantesche, e che ci ha dato una buona analisi dell’episodio intero, Guido Vitali, autore di un commento due volte rifatto, generalmente lodato , e già seguace in fondo all’animo del Pascoli e del Valli, è stato ora estremamente cauteloso e talora evasivo; del verso 85° del canto IX presenta e affianca due interpretazioni come ambo simultaneamente accettabili, ammettendo che, «se il messo nella via contemplativa della rinnovazione morale è la Grazia divina, esso sia nella via attiva la stessa cosa che il Veltro, cioè il restauratore dell'ordine politico (e perciò anche religioso) nel mondo» (comm. Inf., pag. 107-108), ma restando a questa guisa evasivo circa l'individuazione pascoliano-valliana del messo con Enea (egli segue la lezione «del ciel messo» e così avrebbe minor difficoltà a spiegare l’ambiguo dal cielo); con Enea, cui poco prima pensa vagamente accennando alla verghetta di virgiliana memoria; mentre indeciso «come l’asino di Buridano», tra un personaggio umano e l'angelo, confessa scherzosamente di essere rimasto N. Scarano, comm. Inf, p. 138. E alquanto indeciso e contradditorio tra le due soluzioni è rimasto anche il Pietrobono, (senza aver, fino a tutt'oggi, provveduto a rettificare le contraddizioni nel suo ultimo libro, «Dante e la Divina Commedia», 1954, Sansoni) : e infatti, se commentando il verso 71 del canto IX («dinanzi polveroso...») asserisce: «Il Messo che viene è senza dubbio figura di Veltro, e il Veltro per Dante era un imperatore» (Pag. 104), e tale spiegazione ribadisce al v. 80, ci sbalordisce poi spiegando il «da ciel messo» così: «un messo venuto dal cielo, e quindi un angelo» . Ma dunque: imperatore o angelo? Per «quale sortilegio rovesciare la propria opinione alla distanza di sole cinque noterelle del proprio commento?
Non sconcertati da cotesto cospicuo numero di ortodossi sostenitori della interpretazione dell'angelo, noi restiamo fedeli alla spiegazione già sopra illustrata e primamente data dal Caetani di Sermoneta (1847), e dei suoi principali fervidissimi seguaci il Borgognoni, il Pascoli e il Valli, e non abbandonata, speriamo, dal Vitali, e vi restiamo fedeli, serenamente fiduciosi nella nostra finale vittoria, considerando il seguito che tale dottrina va conseguendo fra i giovani studiosi di Dante, non deviati da falsi scrupoli ortodossi.
Ma chi dunque diede primo l’avvio alla interpretazione che il messo sia un angelo? Non Pietro di Dante né Benvenuto, che vi videro Mercurio; bensì — fra i primi dantisti — il Boccaccio. Ma ciò poco conta. Poco conta che costui nel suo commento assegni a tale parola «angelo» il comune senso biblico-cristiano per cui «angelo», o «messo di Dio», può dirsi qualunque componente una delle prime otto gerarchie celesti (poiché alla nona, «ai cherubini, non si legge esser stato commesso » mai tale ufficio); ma è pur vero che il Boccaccio ha, a proposito dell’apostrofe precedente di Dante: «o voi che avete gl’intelletti sani», ammonito che il fiorentino in tale IX canto dell'Inferno, può «aver inteso altro che quello che per la corteccia si comprende» ; ossia che «sotto il velame» possono nascondersi verità segrete; che «per la corteccia è facilissimo intendere che si tratta di un angelo», ma la verità è diversa; e se poi il Boccaccio non precisa chi sarebbe a suo avviso il messo, ciò doveva avvenire solo per ragioni di prudenza, tanto più che il Boccaccio teneva il suo commento in una chiesa (nella chiesa di San Stefano di Badia); se no, non si comprenderebbero le dotte ma divaganti dissertazioni ch'egli fa per portare il lettore sino alla fine del canto. Ben poteva dunque, il nostro spregiudicatissimo predicatore, da alcuni anni già convertito, esclamare:
Io ò messo in galea senza biscotto
l'ingrato vulgo, e senza alcun piloto
lasciato l’ò in mar a lui non noto,
benchè sen creda esser maestro e dotto.
Non è però da escludere chè il Boccaccio, pur intravedendo nel «messo da cielo» un personaggio misterioso, fosse rimasto così perplesso ed incerto sulla sua identificazione da preferire un discorso divagante e poco consistente ad una sia pur ipotetica individuazione, esatta ma sempre arrischiata dato il rigore ortodosso delle autorità di quei tempi favorevoli agli inquisitori.
Ma non è un angelo:
1) non è tale perché nessuno dei particolari descrittivi danteschi ce lo figura con qualcuna delle caratteristiche da Dante accennate presentandoci gli angeli: quali, secondo la tradizione, il candore e la luce sfolgorante ed abbagliante della figura, della veste e della spada, e il procedere remigando colle ali. Dell’angelo nocchiero dice Dante:
Vedi che sdegna gli argomenti umani,
sì che remo non vuol, nè altro velo
che l’ali sue tra liti sì lontani.
Vedi come l’ha dritte verso il cielo...
(Purg. II, 31-34).
Nulla, invece, di questa raffigurazione da vi è in quella del «messo da cielo» del canto IX dell'Inferno; messo il quale, se fosse un vero angelo, - e non solo un àngelos nel senso etimologico di «messo» —, dovrebbe apparire, come nella tradizione, provvisto di una spada sfolgorante, dissipante le tenebre infernali.
2) Così non alla maniera d’un angelo avviene il passaggio delle acque da parte del messo com'è descritto da Dante:
Come le rane innanzi a la nemica
biscia per l'acqua si dileguan tutte,
fin ch'a la terra ciascuna s’abbica;
vid’io più di mille anime distrutte
fuggir così dinanzi ad un ch'al passo
passava Stige con le piante asciutte.
(Inf. IX, 76-81).
Secondo la Spiegazione generale dei dantisti, l’espressione «al passo» equivale a dire: «al muovere, allo scambiare dei passi»; particolare materiale che mal si addirebbe a un angelo. Non escludo la spiegazione data da qualche interprete, come il Camerini, che spiega «al passo» così: «al punto in cui è il passo della palude, e dove Dante Stesso l’avea colla barca passata» (Edizione illustrata, pag. 91). In parole più brevi: al punto del traghetto. Spiegazione non so se da altri data, ma che pur mi pare preferibile a quella più comune, ma stiracchiata, ora riferita; benché a un siffatto «messo» che passava Stige colle piante asciutte, che così scivolava sulle acque, poco poteva recar vantaggio il passare Stige nel punto più stretto e più facilmente traghettabile o guadabile. Ma comunque si spieghi «al passo», vero è che chi fa in tal guisa il passaggio dello Stige, non va a volo; lo sorpassa sfiorando le acque; ma se non varca a volo le acque, come può essere un angelo? Anche sei «spiriti magni» (sei, dopo che tra i cinque poeti della bella scuola andatigli incontro era venuto a inserirsi anche Dante) erano passati coi loro piedi, senza bagnarseli, poche ore prima della discesa del «messo», su di un altro fiumicello, varcandolo «come terra dura»; e ciò evidentemente perché dotati di virtù atte a superare facilmente quel fiume che valeva di difesa al «nobile castello». Ora pure questo «messo» fa il suo passaggio scivolando sullo Stige coi propri passi, e cioè non come farebbe un angelo.
3) Non è un angelo, perché, benché Dante non ce ne dia una rappresentazione fisica, ce ne lascia cogliere qualche atteggiamento, che ben più a una creatura di terra che di cielo si addice. Eccolo:
Dal volto rimovea quell’aer grasso,
menando la sinistra innanzi spesso;
e sol di quell’angoscia parea lasso.
(Inf., IX, 82-84).
Avrebbe proprio potuto un angelo provare tale fastidio, immateriale com’esso è figurato negli Evangeli e nella concezione universale, per quell’aere spesso che offusca la vista e costringe ad un movimento che dà lassitudine? Quanto diversa è invece la rappresentazione che Dante dà dell'angelo traghettatore delle anime, dopo di avere ravvisato in lui, da lontano, «un non sapea che bianco», che si preciserà poi nella forma balenante di una croce!
Da poppa stava il celestial nocchiero,
tal che parea beato per iscripto...
(Purg., II, 43-44).
Cioè: pareva aver scritto in volto la sua beatitudine; e si che avrebbe dovuto, dopo sì lungo remigare d’ali, sentirsi affaticato! E dell’angelo che impersona nella cornice dei superbi l'umiltà ecco la presentazione in una musicalissima terzina che si suggella in una leggiadra similitudine:
A noi venia la creatura bella,
bianco vestito e nella faccia quale
par tremolando mattutina stella.
(Purg. XII, 88-90).
Veniva ai due poeti a piedi; ma ben presto aprirà le ali:
Le braccia aperse, e indi aperse l’ale...
4) Qualche particolare metaforico nella magistrale descrizione dell'arrivo del «messo» può far pensare a uno spirito combattivo, a un imperatore, a un condottiero, assai meglio che ad un angelo. Alludo alla similitudine del vento (impetuoso che schianta, abbatte € porta via i rami delle selve; e gioverà ricordare al riguardo che la parola vento, usata da Dante per indicare Enrico VI, figlio del Barbarossa (Par. III; II19), era usata a indicare «la potenza impetuosa ma passeggera dei principi della Casa di Svevia, paragonata convenientemente ad un vento impetuoso» (BLANC, Vocabolario dantesco). Ma già il Caetani di Sermoneta aveva rilevato la poca convenienza che ci sarebbe, se il messo fosse un angelo nel senso cristiano della parola, nell'impiego, da parte del poeta, degli altri particolari del «fracasso d'un suon pien di spavento», che fa tremare le due sponde, e del procedere innanzi «polveroso e superbo». Un vero turbine, adunque, che «fa fuggire le fiere e li pastori»; fuga e sbandamento, si noti, che trovano corrispondenza nella fuga e nello sbandamento delle anime dei greci quando, sceso Enea nell’Erebo, si avvicina uno degli eroi troiani ancora in carne: Enea! Poiché non c'è passo del VI dell’Eneide da cui Dante non abbia desunto qualche ispirazione.
5) Si è obiettato: «Ma Dante a questo punto non riconoscerebbe Enea, che pure aveva «conosciuto» («tra i quai conobbi Ettore ed Enea») nel Limbo! E come mai? Non è il caso d’addurre, col Caetani, a spiegazione, l'oscurità e la grassa nebbia del cerchio V; basterà leggere la dimostrazione data dal Pascoli, secondo cui Dante potè averlo riconosciuto; e se Dante non menziona per nome il «messo», tuttavia dicendo: «ben m’accorsi ch’egli era da ciel messo», ci fa ritenere di aver riconosciuto in lui quello spirito magno che, per splendido esempio di fortezza e giustizia, ben poteva essere considerato da Dante un inviato del cielo. Lo riconosce, e questa è la ragione per cui si volge al maestro (v. 86) come volesse dirgli: «L'ho riconosciuto! È l’eroe da te immortalato! Ora mi è chiaro perché dicevi poco fa, corrucciato: «Tal ne s’offerse» (Inf. IX) (ossia: «Tale personaggio si è offerto di venirmi in aiuto se ci fosse sentore di una ribellione da parte dei diavoli!»). Ora mi è chiaro perché affermavi che di qua della porta, e cioè dal cerchio ove un tale si era «offerto», già esso era partito; era partito lui, il nemico dei ribelli, il fondatore di un impero, a cui ben s’addiceva staffilare, come farà infatti, i «cacciati dal cielo».
6) Non è un angelo; perché, se tale fosse, e ciò dato ma non concesso, non parrebbe molto a proposito che, per meglio mortificare i diavoli ribelli, rintuzzandone la tracotanza, il messo non ricordi loro la sconfitta che subirono con Lucifero da parte dell'Arcangelo Michele od altro angelo; mentre invece il richiamarsi, come esso fa, all'impresa di Ercole alla lezione da questo impartita a Cerbero, sonerebbe più a proposito sulle labbra d'un antico pagano, quale è appunto Enea. E il verso «onde esta tracotanza in voi s'alletta?» riecheggia il verso dell’Eneide: «Unde hae tibi tam dira cupido?» (VI, 373) nel breve discorso della Sibilla a Palimaro.
7) Se un angelo esso fosse, quando, sulla marina del Purgatorio, i due poeti verranno a trovarsi alla presenza di un vero angelo (cioè dell’angelo nocchiero sopraggiungente), Virgilio, che ne avrebbe già visto un esemplare, non dovrebbe stentare a riconoscerlo come tale; mentre invece stenta. «Se avesse avute le ali, o che ci voleva per concludere che era messaggero celeste?... Se fosse un angelo, Virgilio dovrebbe saperlo» (N. Scarano, comm. Inf., pag. 132). Ecco pertanto come, mentre Dante, quale cristiano non ha tardato a riconoscerlo come angelo, ravvisandovi nelle due ali ventilanti l’aere, e nel corpo, la figura ideale di una croce candida, invece il maestro, per quanto ormai il celestial nocchiero sì sia molto avvicinato, non lo ravvisa.
Lo mio maestro ancor non fece motto
mentre che i primi bianchi apparser ali:...
(Purg. II, 25-26)
E quando, finalmente, lo ha ravvisato, evidentemente dal delinearsi delle ali, allora invita il discepolo a genuflettersi, mentre all'arrivo del «messo» si limita ad invitare Dante a inchinarsi (Inf., IX, 87), e gli dirà che «omai», cioè «d'ora innanzi», nel rimanente suo viaggio, vedrebbe di tali ministri di Dio:
...allor che ben conobbe il galeotto,
gridò : «Fa, fa che le ginocchia cali;
ecco l'angel di Dio: piega le mani:
omai vedrai di sì fatti officiali
(Purg., II, 27-30).
Dalla quale ultima dichiarazione è evidente che altri angeli fino allora, non ne avevano incontrati, se non demoniaci; dunque il «da ciel messo» non era un angelo.
Quest'ultima osservazione secondo la quale l'Angelo nocchiero che figura nel canto del 2° Purgatorio è il primo angelo ad essere veduto dai due poeti viatori, e pertanto il «messo da cielo», non potendo essere un angelo vero e proprio, con ali candide e corpo diafano, potrebbe invece essere Enea, (l’alto modello dei giusti), risale al Caetani di Sermoneta (Tre chiose intorno alla D. C., Roma, 1881): il quale Caetani fu seguito dal Borgognone, dal maso Pascoli, dal Valli, da Ettore Cozzani e molti altri, quali Tommmaso Sillani, Fausto Maria Martini, Benedetto Migliore, e altri nel ancora. Ma a tale osservazione — così annotò Ernesto Bignami libro «La D. C. schemi riassunti analisi dei singoli canti», Edizioni Bignami, Milano, 1956, — «si può ribattere obbiettando non che le ha parole visto di Virgilio si possono intendere nel senso che Dante Purgatorio, prima di allora degli Angeli ufficiali (o ministri) del Pag. mentre nell’Inferno gli ufficiali sono i demoni», ivi, 64, nota I).
Secondo il Bignami, ci sarebbero dunque due categorie distinte di angeli, una nell’Inferno, l’altra fuori dell'Inferno; la prima di reprobi, la seconda di puri ministri di Dio; ma in verità Virgilio non ha mai parlato a Dante di due categorie di angeli. Col dire
Ormai vedrai di sì fatti ufficiali
(Purg. II, 30)
Virgilio ha inteso dire: d'ora innanzi vedrai simili ministri di Dio, (dei quali finora tu hai solo visto questo esemplare venuto dal mare»); e basta.
Provino dunque quanti troppo supinamente ripetono da 20 o 40 anni che il «messo da cielo», è un angelo, provino dunque a dirimersi dal cervello la troppo facile e convenzionale opinione che questo «inviato», sia uno degli infiniti ministri viaggianti, abitanti nel cielo, provino a considerarlo, sì, un messaggero inviato da Dio, ma non proveniente dal cielo, ma altamente rap- presentativo dell'Impero, ed allora tutta la struttura allegorica dell'Inferno, la quale chiama appunto un rappresentante dell’Impero ad aprirne la porta, là dove ancora regnano i grandi felloni o traditori del Signore, allora, dicevamo, tale struttura apparirà integra e completa, poiché solo un angelo messo dell’Impero e campione di giustizia potrà far degna contrapposizione e simmetria sia col «possente»
con segno di vittoria incoronato,
infrangitore, quando morì, della prima porta infernale, si Donna Aquila, che verrà tra breve incontro a Dante per fargli fare un gran balzo verso la prima delle sette cornici.
8) Infine non è un angelo perché Dante trova per lui qualche nota che fa in lui raffigurare l’essere umano: infatti il «messo», retrocedette per la via già percorsa,
e non fe’ motto a noi, ma fe’ sembiante
d'omo cui altra cura stringa e morda...
Sarebbe un angelo, e farebbe sembiante d'uomo? Lo creda chi vuole. Io invece intenderei: ma prese l'aspetto d'un tale che (con quel che segue).
E invece quando nel Purgatorio Dante vedrà l'angelo nocchiero rileverà che non si comporta — cosa d'altra parte assai naturale — come gli uomini:
Vedi che sdegna gli argomenti umani,
sì che remo non vuol, nè altro velo
che l’ali sue, tra liti sì lontani.
Queste le principali ragioni, non tutte figuranti nei libri del Pascoli e del Valli , ma con quelle in piena armonia, che ci paiono dare una definitiva consistenza e conferma all'ipotesi del Caetani sul «messo da cielo»: e cioè, essere questo il pio Enea, quel «giusto figliol d’Anchise» che, appunto celebrato come singolare esempio di giustizia nell’Eneide, verrà nel poema cristiano di Dante a debellare l'ingiustizia, sgominando i felli, e, come tale, giungendo armato dell’aurea verga che un tempo gli aveva consentito di proseguire nel cammino fatale verso l’Elisio.