Dati bibliografici
Autore: Veronica Albi
Tratto da: L'Alighieri. Rassegna dantesca
Numero: 45
Anno: 2015
Pagine: 133-142
Dall’analisi e giustapposizione di alcune spie lessicali ricorrenti nei canti VIIIIX dell’Inferno e sulla base dei riferimenti mitologici impiegati, mi sembra di poter cogliere in filigrana la presenza di un discorso di Dante sul peccato che più di tutti lo assillava, la superbia , e che, collocato all’ingresso della città di Dite, costituirebbe un interessante pendant strutturale rispetto alla seconda cantica, in cui il peccato è oggetto di ampia riflessione. Nel Purgatorio infatti la superbia ricorre almeno in due momenti rilevanti per posizione ed estensione: l’inizio della cantica, in cui il primo atto compiuto dal viator è un rito lustrale di purificazione accompagnato dal gesto di Virgilio, che cinge il pellegrino con il giunco simboleggiante l’umiltà, ed i tre canti X, XI e XII, in cui viene descritto l’attraversamento della cornice dei superbi. L’anticipazione di una così attenta considerazione del peccato nella prima cantica non mi sembra dunque affatto peregrina, anzi risulta utile a ribadire la necessità dell’umiltà del pellegrino che percorre i regni ultramondani e che verrà esplicitata con la purificazione su cui si apre il Purgatorio.
La prima e più evidente osservazione riguarda la ricorrente presenza di un lemma chiave, segnaletico di un riferimento alla superbia nell’opera dantesca, quale il «disdegno» : esso compare attribuito ai diavoli (VIII, 88), e poi al messo celeste (IX, 88) oltre che – notoriamente – a Guido Cavalcanti nel canto degli eretici (X, 63). A loro volta i diavoli, che ostacolano l’ingresso di Dante e Virgilio, giudicano significativamente «folle» (VIII, 91) – altro lemma profondamente connotato come indicativo del superamento dei limiti umani – la discesa di Dante attraverso le profondità infernali, non riconoscendo nell’impresa il sigillo della volontà divina e considerandola un atto di hybris degno di punizione, riportando alla mente del viator il timore provato all’inizio del viaggio («temo che la venuta non sia folle»: II, 35), quando la lupa ed il leone sembravano precludergli definitivamente l’ascesa al colle.
Anche la scelta di far evocare la Gorgone alle Furie, ritte sulle mura della città infernale, potrebbe essere letta alla luce di questa linea interpretativa, sulla base della sua simbolica capacità di impietramento e di una tradizione che ne attribuisce la punizione da parte di Minerva ad un eccesso di superbia. Quanto al primo aspetto, è ben noto: lo sguardo di Medusa impietrisce e per ricordarlo Dante sceneggia il timore della guida amorevole che, per essere sicura che il proprio protetto non incontri lo sguardo mortifero, gli copre gli occhi con le proprie stesse mani (IX, 55-57).
Proprio nell’Eneide virgiliana la Gorgone viene sempre ricordata come terribile arma di Minerva, la dea che – secondo una delle tradizioni note – avrebbe trasformato i bellissimi capelli della figlia di Forco in serpenti e le avrebbe conferito il potere di impietrire chiunque ne avesse incontrato lo sguardo per punirne l’illecito accoppiamento con Nettuno, avvenuto nel suo tempio . La punizione scelta da Atena non è casuale: presso i Greci, infatti, la dea era legata proprio all’ambito della visione, come testimoniano l’attribuzione degli epiteti di oxyderkes e glaukopsis e la punizione della cecità inflitta a quanti l’avessero vista indebitamente .
L’impietramento come conseguenza dello sguardo di Medusa riconduce coerentemente all’ambito della superbia: accanto alla versione del mito riferita da Ovidio, circolò nel Medioevo un’altra tradizione secondo cui Medusa, superbamente compiaciuta della propria venustà, avrebbe osato sfidare Minerva, suscitandone l’ira e la conseguente, terribile punizione . Inoltre, anche nella tradizione cristiana l’impietramento è una conseguenza dell’excaecatio mentis spesso provocata dalla superbia: l’indurimento del cuore in riferimento al peccato è dichiarato esplicitamente in Io. 12, 40 («excaecavit oculos eorum et induravit eorum cor / ut non videant oculis et intellegant corde»), ma la relazione tra duritia cordis e superbia è frutto dell’associazione del luogo citato con Is. 6, 7-10 . Questa interpretazione mi sembra in grado di restituire un senso complessivo all’episodio e all’inserimento della topica dell’obduratio cordis nel canto, forse più perspicuamente di quanto proposto da Fumagalli, che ne ha offerto una lettura in chiave politico-sociale. Il critico ha sostenuto che il senso profondo del canto si cela nella «cupidigia come radice di tutto il male della società» , cui Virgilio da solo non avrebbe potuto opporre alcunché, se non fosse venuto in suo soccorso l’angelo quale rappresentante della legge, controfigura celeste della reggenza imperiale. Su questa base, aggiunge la convergenza dantesca di mito classico e sapienza biblica allusive all’obduratio cordis, notando che «nella Vulgata oltre metà delle presenze del verbo indurare sono concentrate in pochi capitoli dell’Esodo» e che «il verbo in questione si riferisce sempre al Faraone […] o ai suoi “servi”» , desumendone ulteriori prove a sostegno della propria interpretazione . Seguendo tale lettura mi pare, però, che si perda di vista la qualità essenziale dell’obduratio cordis per soffermarsi solo su una sua specifica manifestazione, senza considerare la natura profonda della topica, che è sostanzialmente un «modo protologico» ricorrente nell’Antico Testamento per esprimere «la reazione divina alla persistente ostinazione umana contro di lui», dunque non «il risultato di una decisione divina arbitraria o deliberatamente progettata», ma semplicemente «la ratifica di una situazione non creata da lui» . Strettamente legata all’accecamento ed alla sordità del cuore, cui si accompagna esplicitamente nel passo citato di Is. 6, 9-10, l’obduratio cordis è propriamente
l’état d’une âme qui, de perméable et de souple qu’elle était, s’est progressivement insensibilisée et raidie vis-à-vis des appels de la conscience, de Dieu ou des autres. Insensibilisée, elle perçoit de moins en moins les invitations de la grâce; raidie elle refuse de répondre à celles qu’elle entend encore; double aspect d’un même état: les sens spirituels s’émoussent et ne transmettent plus aucun avertissement .
Si tratta dunque di uno stato dell’anima recalcitrante a seguire la grazia; tra le sue cause sono appunto leggerezza, orgoglio ed ingratitudine ed il primo tra i rimedi preventivi è, prevedibilmente, la mortificazione . Coerentemente, gli accenni scritturali alla duritia cordis, con il verbo “indurare” in concomitanza con la superbia di quanti rifiutano la conversione, sono molti . Inoltre la possibile influenza del libro biblico di Isaia sul canto, in cui l’immagine dell’impietramento è – come già accennato – associata alla superbia, è stata già persuasivamente chiamata in causa da Mineo, cui rimando per un confronto puntuale .
Sul significato da attribuire all’apparizione di Medusa sulla soglia della città infernale sono corsi i proverbiali fiumi d’inchiostro , dunque non è possibile ricapitolare in questa sede la plurisecolare esegesi del passo, incoraggiata dalle parole stesse dell’autore (vv. 61-63: «O voi ch’avete li ’ntelletti sani, / mirate la dottrina che s’asconde / sotto ’l velame de li versi strani») che, lungi dall’esibire un sadico gusto enigmistico alla Turandot, vuole spronare i lettori a cogliere il senso profondo dell’episodio .
Mi sembra però interessante – e se non erro finora mai citato – un passo del commento di Fulgenzio all’episodio dell’Eneide da cui Dante ha tratto più di un elemento per descrivere l’ingresso del proprio agens nella città infera, il passo in cui – pur senza far menzione di Medusa, ma citando invece la furia Tisifone – viene descritto un paesaggio con contatti evidenti rispetto alla Dite dantesca. Poco dopo essere stato traghettato da Caronte sulle acque dell’Acheronte, proprio come Dante nel III canto dell’Inferno, Enea (VI, 552-54) ha accesso ad una visione degli inferi che il grammatico africano così interpreta:
At vero dum ad locum illum venitur, ubi dicimus:
«Porta adverse ingens solidoque adamante colomnae,
vis ut nulla virum, non ipsi excindere ferro
caelicolae valeant, stat ferrea turris ad auras»,
vide quam evidentem superbiae atque tumoris imaginem designavimus. Cui etiam turri ideo adamantinas colomnas addidimus, quia hoc genus lapidis indomabile est, sicut etiam in Greco superbiam enim nec divinus timor nec humana virtus nec famae revocat “turris ad auras” elatio erecta et incurvabilis dicitur. Sed elationem quis servat nisi Tisifone, hoc est furibonda vox. At vero quod diximus: “Quinquaginta atris inmanis hiatibus ydra sevior”, illut nihilhominus designavimus, quia deterior in superborum corde est tumoris inflatio quam in ore ventosa iactatio; nam illus quod diximus: “Tartarus ipse bis patet in praeceps tantum”, considera plenum superbiae meritum: poena enim superbiae deiectio est; quanto enim elatus contemnit, tanto sprebilitabilis deiectione torquetur; ergo exaltatus quis in superbiae duplum eliditur .
Tanto nel testo virgiliano che in quello dantesco si tratta di una visione che si presenta agli occhi del viator non appena questi ha attraversato il fiume infernale, l’Acheronte; comune è anche la difficoltà nel superamento della porta infera, con una sostanziale differenza: nell’Eneide, essa risulta inviolabile perfino dai celesti («non ipsi excindere ferro / caelicolae valeant»), circostanza nettamente ribaltata nel canto dantesco, dove il messo celeste, con la sua verghetta, la spalanca con agio. Effettivamente gli elementi comuni e quelli che differenziano la situazione dantesca da quella interpretata moralmente da Fulgenzio sembrano suggerire un confronto sul tema della superbia: s’è detto, «“ferrea” vero “turris ad auras” elatio erecta et incurvabilis dicitur», cioè l’arroganza è una torre di ferro incrollabile al soffio dell’aria. Ebbene, in Dante la turrita fortezza dei diavoli cede proprio al cospetto di quel vento impetuoso che accompagna la venuta del messo celeste, la cui aerea sospensione è accentuata dalla sapiente sprezzatura tra i vv. 67-68, che cade proprio sul lemma «vento»:
E già venìa su per le torbide onde
un fracasso d’un suon, pien di spavento,
per cui tremavano amendue le sponde,
non altrimenti fatto che d’un vento
impetüoso per li avversi ardori,
che fier la selva e sanz’alcun rattento
li rami schianta, abbatte e porta fori;
dinanzi polveroso va superbo,
e fa fuggir le fiere e li pastori.
(Inf. IX, 64-72)
Il contegno sdegnoso del messo , che procede allontanando infastidito «l’aere grasso» infernale (presentato come l’unico elemento a contrariarlo), l’esplicitazione del superbo andamento attribuito al vento che lo rappresenta (IX, 71: «dinanzi polveroso va superbo») e l’accompagnamento di quell’elemento aereo che nella tradizione classica e cristiana segnala il tumor superbiae, connotano abbastanza nettamente il contegno angelico con tutti i crismi della superbia. Del pari evidente è il fatto che Dante non avrebbe mai potuto tacciare di superbia un angelo – accusa che avrebbe subito rimandato, inaccettabilmente, all’angelo ribelle che fece il «superbo strupo» (Inf. VII, 12) – e ancor meno plausibilmente proprio l’angelo garante della prosecuzione del suo viaggio oltremondano, pericolosamente sospeso in quel punto in cui anche la fidata guida aveva dovuto arrendersi alla propria impotenza.
Quello che mi pare possa essere sotteso all’intera scena è un discorso sul peccato che Dante, accanto all’avarizia, sembra avere come maggiore assillo e che gli sarebbe stato chiaramente suggerito dall’intertesto fulgenziano, ulteriormente ampliato da Dante. In particolare, il canto sceneggia l’opposizione tra il giusto sdegno del messo, la cui aerea irruenza penetra con facilità la torre della superbia infernale, e la superbia colpevole delle demoniache sentinelle, queste ultime davvero peccaminose nella convinzione di poter contrastare il viaggio concesso da Dio al suo fedele smarrito. L’ambiguo contrasto si svolge su un piano sottile, perché il «disdegno» è lemma attribuito equivocamente ad entrambi i personaggi, i diavoli e l’angelo, la cui opposizione è ben evidente anche sul piano dell’eloquio: alla vana ed impotente loquela dei diavoli (VIII, 82-85 e 88-93) si oppone l’efficace affabulazione dell’angelo (IX, 88-99).
Vorrei soffermarmi ora su alcuni dei riferimenti mitologici disseminati nel canto e riconducibili a contesti implicati con la superbia. Ad esempio, il riferimento all’impresa infera di Teseo (che voleva rapire Proserpina per darla in moglie all’amico Piritoo, suo compagno nell’avventura) attraverso la rammemorazione degli effetti della sua liberazione ad opera di Ercole (che incatena Cerbero, “pelandogli il gozzo”) , sarebbe figura di ben altro descensus: non quello di Dante e Virgilio, che le Furie lamentano come conseguenza dell’impunito assalto di Teseo, ma quello di Cristo, di cui il figlio di Egeo era divenuto, nelle moralizzazioni medievali, figura. Nel commento alla Tebaide a lungo attribuito a Fulgenzio, Teseo è esplicitamente indicato come figura redemptoris e nel suo conflitto con l’empio tiranno Creonte, simbolo della superbia, emerge la sua esemplare umiltà:
Uxores vero regum, idest affectiones humane, qui prius his regibus succubuerant supplicantur Theseo, id est deo; Theseus quasi “theos suus”. Theseus pugnat cum Creonte, quando humilitate docetur a deo vinci superbia; et vincitur Creon, idest superbia, nesciens humilitati resistere. Reges etiam sepeliuntur, quia in humilitatis adventu omnis occasio elationis suffocatur. Tanto autem vitiorum conflictu Thebe, idest humana anima quassata est quidem, sed divine benignitas clementia subveniente liberatur .
Anche la similitudine che contrappone il messo ai diavoli, rappresentando il primo come biscia che mette in fuga le rane in cui i secondi sono traslati, è riconducibile al discorso sulla superbia. In Ovidio, infatti, proprio in rane vengono tramutati i contadini della Licia che negarono a Latona puerpera di ristorarsi dalla sete in un laghetto (Met. VI, 313-81) e la loro descrizione replica il canone del tumor superbiae:
eveniunt optata deae: iuvat esse sub undis
et modo tota cava submergere membra palude,
nunc proferre caput. Summo modo gurgite nare,
saepe super ripam stagni consistere, saepe
in gelidos resilire lacus; sed nunc quoque turpes
litibus exercent linguas pulsoque pudore,
quamvis sint sub aqua, sub aqua maledicere temptant.
Vox quoque iam rauca est inflataque colla tumescunt
ipsaque dilatant patulos convicia rictus.
(Met. VI, 370-78)
Un ulteriore aspetto mi sembra meritevole di discussione: il riferimento alla “gravezza” dei cittadini infernali in Inf. VIII, 69 («coi gravi cittadin, col grave stuolo»). Alle considerazioni di Mineo – per cui, come già interpretato da alcuni commentatori antichi, il riferimento è di natura morale, allusivo al peso del peccato, cui si aggiunge quello alla caduta nel fondo dell’universo – si potrà fare una minima aggiunta.
L’idea del peso che trascina in basso mi pare, in questo caso, implicitamente congiunta per opposizione con il concetto di ascesa che aveva contraddistinto l’empio desiderio di Lucifero e dei suoi seguaci, risolto nella caduta dei ribelli. Il lemma «gravi» attribuito ai cittadini del basso inferno non farebbe che ribadire la profondità dell’abisso infernale e la sua origine, effetto dello spostamento della terra per evitare il contatto con Lucifero precipitato dal cielo. La dialettica alto-basso è infatti uno dei tópoi associati al peccato di superbia, già da Agostino illustrato proprio nella sua natura dialettica: mossa da un indebito desiderio di eccellere, l’ascesa del superbo non può che risolversi in una rovinosa caduta . Lo stesso Dante, del resto, punisce i superbi gravandoli di un peso che li costringe a piegarsi fin quasi a toccare il suolo, con evidente contrappasso rispetto alla natura vacua e vanagloriosa dei peccatori puniti .
Oltre ai numerosissimi esempi desumibili dalla letteratura patristica, può essere utile citare un passo tratto dalle Metamorfosi, in particolare dal celebre episodio di Niobe (Met. VI, 148-312), citato da Dante nella cornice purgatoriale dei superbi (XII, 37-39), in cui mi pare essenziale la combinazione di alcuni elementi già parzialmente citati: la dialettica ascesa/superbia e abbassamento/umiliazione, la tracotanza nei confronti della divinità e l’impietramento. Cito solo alcuni versi ovidiani, che esibiscono chiaramente il mutamento tra la superba Niobe e la Niobe prostrata dalla morte di tutti i figli. La figlia di Tantalo, la cui storia segue significativamente – nel testo ovidiano – l’esemplare vicenda di superbia punita della tessitrice lidia Aracne (da Niobe conosciuta di persona prima delle proprie nozze), viene descritta come superba per più di un motivo, primo tra tutti la sua straordinaria fecondità, che l’aveva resa madre di sette figli e sette figlie. La numerosa prole la rendeva così orgogliosa da far sì che ella si reputasse maggiormente degna di onori di Latona, madre di prole esigua, benché divina:
Ecce venit comitum Niobe celeberrima turba,
vestibus intexto Phrygiis spectabitis auro
et, quantum ira sinit, formosa; movensque decoro
cum capite immissos umerum per utrumque capillos
constitit, utque oculos circumtulit alta superbos,
«quis furor auditos» inquit «praeponere visis
caelestes? Aut cur colitur Latona per aras,
numen adhuc sine ture meum est? […]
(Met. VI, 165-72)
Maior sum quam cui possit Fortuna nocere,
multaque ut eripiat, multo mihi plura relinquet.
(ivi, 195-96)
Ricordo che proprio all’interno della vicenda di Niobe, ella stessa richiama la storia di Latona e le difficoltà da lei incontrate immediatamente prima e dopo il parto (cfr. Met. VI, 184-92), episodio poc’anzi riconosciuto dietro la similitudine dantesca delle rane e che dunque avrebbe potuto fare sistema nella mente di Dante.
Punita da Apollo e Diana per ordine della madre ingiuriata, Niobe vede morire uno dopo l’altro tutti i suoi figli e apprende del suicidio del marito Anfione, incapace di sopportare un simile dolore. L’infinita distanza che oppone la superba sposa e madre che si offre quale oggetto degno di venerazione e l’infelice prostrata dai continui lutti è espressa chiaramente dal narratore, che ricorre – e questo è l’aspetto che più mi interessa – all’opposizione tra il capo fiero ed eretto della superba e l’aspetto letteralmente prostrato e piegato fino al suolo dal peso della sciagura:
Heu, quantum haec Niobe Niobe distabat ab illa,
quae modo Letois populum summoverat aris
et mediam tulerat gressus resupina per urbem,
invidiosa suis, at nunc miseranda vel hosti!
Corporibus gelidis incumbit et ordine nullo
oscula dispensat natos suprema per omnes:
a quibus ad caelum liventia bracchia tollens.
(Met. VI, 273-79)
[…] Orba resedit
exanimes inter natos natasque virumque
deriguitque malis. Nullos movet aura capillos,
in vultu color est sine sanguine, lumina maestis
stant immota genis; nihil est in imagine vivum.
(ivi, 301-05)
Mi sembra dunque che più elementi, corredati di riferimenti intertestuali ben noti a Dante, quali i rimandi al poema ovidiano – il repertorio mitologico da lui compulsato più assiduamente –, la fusione sincretica con la Scrittura (come nel caso dell’obduratio cordis) ed il filtro delle allegorizzazioni medievali (Teseo figura redemptoris) vengano impiegati da Dante per delineare con coerenza un percorso mirante ad una prima, drammatica presa di coscienza della necessità di sconfiggere la superbia.