Dati bibliografici
Autore: Rodolfo Quadrelli
Tratto da: Lo studio della letteratura europea. Un percorso da Dante a Solzhenicyn
Editore: Il Cerchio iniziative editoriali, Rimini
Anno: 2001
Pagine: 21-32
È difficile intendere la poesia come responsabilità senza intenderla come allegoria; è difficile intenderla come allegoria senza intenderla come arte. Il punto di vista opportuno per comprendere tale affermazione è invero diverso da quello della cultura che ha dominato in Italia, per il quale la critica letteraria conduce fatalmente come ogni altra critica a ciò che chiamerei separazione del presente dal passato. Essa consiste nella separazione della forma dal contenuto della poesia, e ciò avviene per ogni modo mondano di considerare ogni azione dell’uomo.
Il contenuto della poesia è, almeno in parte, il significato che il poeta vuole dare alla sua opera e che il critico (storicistico) non può condividere mai, perché lo ritiene fatalmente superato. Così il poeta diviene sempre come un sublime ignorante e la forma qualcosa di sempre più inafferrabile, perché il contenuto, con il passar del tempo, “muore” . Per tale filosofia i fenomeni sono gli effetti materiali, piuttosto che i simboli, di uno Spirito che, in realtà, è anch’esso materiale. Ma non vorrei dare l'impressione di prendere sul serio termini come forma e contenuto; essi sono termini falsi, ma vengono qui citati solo come documento di una situazione falsa. Se affermiamo (e credo che lo possiamo) che la critica letteraria può trattare solo del contenuto della poesia, o comunque di qualcosa che è più «contenuto» quanto non lo sia nella stessa poesia, abbiamo inteso un tentativo che pare destinato al fallimento. È il tentativo di possedere una realtà, e di non riuscire a possederla prima di averne mortificato il senso.
Apparentemente non si riesce ad intendere come ciò avvenga, ma in realtà è la critica stessa che nella sua operazione ha reso il «contenuto» sempre trapassato rispetto alla «forma», presentandola considerazione della poesia come storica. Essa esprime una falsa obiettività, che è in realtà una azione occulta (e responsabile dell’occultazione) come quella che impedisce di scorgere che la poesia è espiazione del tempo. È il calcolo che stimola a rivolgersi ingenuamente al passato per paura del futuro, per scrutare quanto del passato «serve» al futuro, anziché scorgere il senso del passato re! futuro. Tale atteggiamento è anche quello delle scienze sperimentali, forse perché è quello che ha dato soprattutto incremento filosofico a queste scienze. Per esso la considerazione della materia è compromessa dall’oblio del tempo, che altro non è se non l’oblio del punto di vista dell’osservatore, quello per il quale l'osservatore è responsabile della conoscenza. Così si può dire che la materia osservata dall’osservatore è sempre passata rispetto a lui, resta sempre indietro rispetto al presente, perché non contiene virtualità di futuro.
Croce e gli altri storicisti affermano che la poesia precede, almeno idealmente, la filosofia, essendo essi filosofi, e cioè nella misura in cui, fingendo di rappresentare la situazione obiettiva del ricorso ideale di poesia e di filosofia, hanno obliato la prima. Essi si trovano sempre nel secondo momento della vita dello spirito, e affermano l’estetica, scienza storicistica della poesia, mentre negano l’arte, scienza intenzionale della poesia. L’impossibilità della critica ad esprimere la poesia, che tutti i critici (compreso il Croce) hanno sempre constatato, è l’impossibilità di resuscitare i morti che si è ben contribuito a mortificare. Questa impossibilità però, ben lungi dal convincere della vanità di quella operazione, suggerisce come suo complemento la presunzione che la critica debba essere iscritta nella filosofia. E l’ipocrisia del metodo che viene chiamato dialettico, in cui la sintesi degli opposti (o l’unità nella distinzione), che dovrebbe rappresentare la tolleranza rappresentando la totalità, è invece una sintesi falsa, perché in essa l’essenziale viene occultamente abolito da ciò che è più rozzamente forte. Questo metodo ha tradito il significato attivo delle parole, dimenticando che il nulla non è una realtà razionale e garantita come il tutto, ma esercita veramente una azione nullificatrice, che può condurre alla distruzione del tutto. Anzi, la supposizione secondo la quale il nulla è un momento attivo della totalità, è la migliore condizione perché esso eserciti liberamente, il più liberamente possibile, la sua azione. Croce ritiene che basti distinguere poesia e non poesia, come se la negazione della poesia non esercitasse azione negativa contro la quale bisogna combattere. Noi non riteniamo realtà negative per la poesia quelle che egli considera tali, ma il suo atteggiamento, esemplare per più di una generazione di critici e di professori universitari, ci rivela una professione del critico quale laborioso parassita, che si colloca in zona più tranquilla e meno responsabile che non il poeta .
La poesia, per la critica come filosofia, è proprio immutabile perché è ciò che viene obliato. La volontà di qualsiasi storicismo è la volontà di finire la storia con sé, è un’apocalisse senza la redenzione del trapasso, in cui le parole conclusive sono semplicemente nulla, perché non saranno ascoltate dai posteri. La parola «fine» nella storia scritta dallo storico, è quella che invece di segnare un nuovo principio, dimentica il proprio principio, e può soltanto supporre il futuro, dopo aver fatto di tutto per distruggerlo. Il principio obliato, da ricordare alla fine, è il principio della poesia come arte allegorica, ovvero della poesia che non vuole la filosofia succederle. La poesia viene chiamata «intuizione» perché s’intende che a darle vitalità bisogna sottrarla al tempo, di cui la filosofia fa uso, e perciò usura.
Tale definizione altro non fa se non abolire la poesia, perché non basta affermarla per dimostrarne la presenza: bisogna testimoniarla con l’arte. L’insegnamento letterario di T. S. Eliot è importante perché ci mostra in quale misura la letteratura sia connessa con la responsabilità morale. Nella sua opera (non solo nel Bosco sacro, ma anche nei Quattro quartetti) troviamo la convinzione che il passato non possa esser conosciuto nel suo senso, se non venga conosciuto nel suo orientamento verso il futuro. I poeti morti ci hanno affidato una responsabilità che può essere intesa intenzionalmente solo se accettiamo di lasciarla in eredità ai nostri figli. In tale senso i morti sono già ben vivi in noi, e non hanno bisogno di essere resuscitati, perinde ac cadavera, come vuole la presunzione dello storicismo, che vi sale sopra per apparire più grande. Quando Eliot, nel saggio Tradizione e talento individuale, afferma che l’avvento di un nuovo poeta muta tutta la storia della poesia, contesta implicitamente il diritto della critica di fare storia della poesia, ed afferma la tradizione della poesia, secondo la quale la conoscenza della poesia del passato non è «scientificamente possibile» ed è impossibile del tutto, se non sia ricordata nell’intenzione che la poesia abbia un futuro. Noi riteniamo possibile giudicare Dante, e riteniamo impossibile che egli giudichi noi. Ma quanto più intendiamo un mondo dello spirito, tanto più impariamo che ciò è falso, e che c’è un passato che ci giudica di fronte al tribunale dei nostri figli. Non solo il futuro è debitore al passato, ma anche il passato al futuro. Secondo Eliot il successo di un poeta consiste nell’umiliazione della propria personalità mondana, ed anche della stessa tentazione di essere poeta, per cancellarsi dietro la propria opera, e per cancellare la propria opera nella tradizione. La sua polemica è diretta contro la romantica confusione delle emozioni, che cancellano l’oggetto e sono dirette verso oggetti sbagliati, posti tutti su uno stesso piano. L’opera di Eliot è la potente correzione cristiana della concezione storicistica secondo la quale l’unica attività intellettuale è quella del pensiero che non ha possibilità se non rifare il già fatto. C'è una frase, fra le tante, del De Sanctis che è rivelatrice di un moderno depotenziamento dell’Intelligenza. Egli afferma, nel capitolo dedicato al Vico della sua Storia della letteratura italiana, che «critica è rifare ciò che la mente ha fatto nella sua spontaneità». È affermazione di ottimismo abbastanza superficiale, che presume esservi sempre un dopo, un tempo che succede alla spontaneità. Può darsi invece che la spontaneità dei «bestioni tutto stupore e ferocia» sia tanto irresponsabile che un «dopo» non ci sia mai più, e nulla possa essere più «rivissuto» nell’umanistica pace del proprio studio.
La critica è, piuttosto, lo sforzo di legittimare gli istinti iniziali come se essi fossero senza intelligenza, perché proprio essa li ha privati della loro intelligenza, per avere il diritto di restituirla loro a posteriori, modificata e opportunisticamente adattata. La critica nega intelligenza agli istinti, perché vuole negare una gerarchia dell’intelligenza, in cui anche gli istinti avrebbero il loro posto. Essa si presenta perciò, soprattutto quando è applicata alla realtà più economica, come la legittimazione della bestialità. Sarà opportuno notare che la «Provvidenza» del Vico, dì cui si trovano tracce in scrittori così diversi come Hegel, Marx, De Sanctis e Croce, non è affatto una Intelligenza verso la quale essere responsabili, responsabili verso il suo fine e verso la sua origine, ma una Fatalità che abolisce la responsabilità, perché abolisce la possibilità dell’espiazione: «il tempo è irreversibile».
La poesia è allegoria perché non contiene un significato ma lo rappresenta e lo intende al di là di essa, ed è arte perché espia l’impedimento a «trasumanar» verso gradi sempre più distinti di visione. Non esiste una struttura separata dalla poesia, ma ogni parola della poesia è struttura di un significato che non si vede, benché non tutte le parole siano ugualmente strutturali. Esse lo sono gerarchicamente, cioè ironicamente più o meno. «Contenuto» è il peccato originale del linguaggio, che l’arte della poesia deve continuamente espiare, e la poesia non è più unione di forma e contenuto: la rappresentazione prodotta dalle parole è il significato dell’espiazione del contenuto, del tempo contenuto nelle parole, ed è operata dall’arte. Il purifier la langue de la tribu, secondo l’espressione di Mallarmé, è uno scopo artistico, perché riconosce alla realtà del linguaggio, come a tutte le altre realtà della natura, una intelligenza originaria, che viene continuamente occultata e che bisogna continuamente disoccultare. Il senso di questo compito consiste anche nella sua capacità di fondare la società umana: per tale motivo questo “purifier” è stato definito «funzione sociale della poesia». È un’idea importante perché afferma che l’unica condizione per istituire una società di uomini che comunichino, e non abbiano solo interessi in comune, di una società che abbia una Chiesa e non solo uno Stato, deve consistere nel ritrovare il significato delle parole. Vorremmo aggiungere che la società religiosa, e in particolare la società cristiana, è distinta dalla società pagana (in senso moderno), soltanto per essere una società che ha rispetto per il contesto delle parole.
Poiché ho cercato di ridare a una riflessione sulla critica letteraria la sua responsabilità morale, occorre aggiungere che l’interesse principale della poesia è l’uomo, nel senso che l’allegoria è sempre allegoria dell'anima dell’uomo, come l’esempio di Dante consente di mostrare; il poema allegorico è sempre poema morale, perché, rappresentando ai nostri occhi ciò che non si vede, cioè il destino dell’anima, accresce la nostra responsabilità verso di essa. Ho posto in relazione poesia e religione, ma non vorrei aver dato il sospetto di identificarle e di avere perciò commesso un errore, contro il quale Eliot ci ha accuratamente guardati. Occorre precisare che difficilmente la poesia può esistere senza religione, perché non saprebbe più riconoscere la tradizione di un al di là da presentare allegoricamente; e sarebbe sempre come una mistica rivelazione, ciò che è evidente in molte filosofie laiche, in cui la negazione della religione consente l’affermazione della poesia purché questa non sia allegoria. D’altro canto, difficilmente la religione può esistere senza poesia, perché senza allegoria essa diviene sempre più ingenua e incredibile, confondendo puntualmente l’al di là con l’al di qua, e, incapace di proiettare l’al di là sullo sfondo di una visione dell’arte, lo assimila all’al di qua e rende il dogma inattingibile alla mente. A chi osservasse che tale affermazione riduce la realtà dei dogma (per esempio dell'immortalità dell’anima), si potrebbe rispondere che il mistero del dogma è una questione di parole e che la realtà non è reale senza il linguaggio. Al contrario è proprio la sfiducia nel linguaggio che degrada il dogma. Ciò è accaduto, mi pare, alla religione cristiana negli ultimi secoli: il suo crescente protestantesimo, anche nell’ambito della Chiesa Cattolica, ha significato una crescente negazione dell’allegoria.
A questo punto è lecito chiedersi: ha la critica una funzione? Ed è lecito rispondere che essa è mera possibilità della poesia, e, in nessun modo, dev’esser ritenuta un’istituzione. Perciò sono vane le discussioni per definire se il critico sia philosophus additus artifici o artifex additus artifici. Va semplicemente obiettato che il critico non è un additus, poiché egli non rappresenta una aggiunta rispetto alla poesia, ma piuttosto l’insufficienza o, meglio, la stasi o la convenzione della poesia. Leggendo le opere dei diversi critici, soprattutto dei seguaci di Croce, ci si chiede sempre a che proposito e per che necessità essi parlino. Il loro tentativo può ben essere definito come quello di diventare i «proprietari» della letteratura italiana, poiché dai loro scritti non si ricava alcuna lezione sui fini verso i quali la poesia è responsabile. La loro incomprensione o ritardo a comprendere) dei contemporanei non è il risultato di un caso, ma di un metodo inevitabile dello storicismo, quello di essere sempre in ritardo rispetto alla realtà, per aver preferito il possesso della letteratura alla responsabilità verso la letteratura.
La difficoltà di comprendere la Commedia di Dante consiste nella certezza che essa ha un’unità, e, al tempo stesso, nella difficoltà di apprezzarla proprio per questa unità. La stessa storia della letteratura italiana lo impedisce, perché pone sullo stesso piano tradizioni diverse, tra le quali la più evidente è quella retorica, nel senso migliore della parola, iniziata dal Petrarca, le quali contraddicono tutte a quella che avrebbe dovuto essere iniziata da Dante. Proprio il poeta che più di tutti avrebbe dovuto lasciare in eredità una tradizione, perché a sua volta l’ha ricevuta da un altro poeta, Virgilio, è stato il più negletto come artista. Nella nostra letteratura, infatti, ha prevalso il criterio dell’imitazione sopra quello della tradizione; e Petrarca è poeta che si imita più facilmente di Dante. La prospettiva lirica iniziata dal Petrarca è tanto comprensiva che possiamo scorgere in essa poeti disparati, come i lirici del ‘500 compreso il Tasso, i poeti dell’Arcadia, almeno in parte, Parini in parte, l’Alfieri delle Rime, il Foscolo dei Sonetti e delle Odi, Leopardi, e, tra i contemporanei, Cardarelli e Ungaretti. Essa corrisponde, metricamente, al giro breve del sonetto e del madrigale o, tutt'al più, a quello della canzone e della canzonetta, a una certa libertà nel rigore dell’insieme. Ci sono poi altre tradizioni che hanno avuto meno seguito, o grande seguito in un periodo ristretto, il poema cavalleresco, la satira, il poemetto didascalico. Ma è giusto dire, con approssimazione, che da una parte c’è Dante, dall’altra il resto della letteratura italiana.
I critici storicistici rivelano il loro oblio della tradizione intenzionale e invisibile della poesia, proprio nella misura in cui si illudono di poter comprendere nella stessa rassegna tutti i poeti. I critici vogliono salvare i monumenti, ma ignorano che la legge di ogni umana cosa, anche dei monumenti più famosi, è di restare finalmente distrutta dal tempo. Ciò che importa non è lo sforzo vano di salvarli materialmente, ma di riaprire a nostra volta quella possibilità che un tempo li mise in vita, anche se questa, come accade, contribuisce a distruggerli di fatto. Ciò che importa è tramandare la responsabilità affidataci dai padri, che inconsapevolmente abbiamo ucciso, ai figli, che inconsapevolmente ci uccidono, finché non noi, ma altri pronunci la parola «fine» e finalmente trasformi la responsabilità in storia. La critica non sa stabilire la validità della poesia, perché attende sempre che i fatti della poesia si convertano in valori (verum et factum convertuntur) dimenticando che i fatti, se non sono simboli, possono distruggere i valori, per non lasciare alternativa oltre la propria. Da questo punto di vista il liberalismo o romanticismo o storicismo della critica, per la sua distruzione delle regole e dei generi letterari, ha contribuito alla distruzione di un universo ordinato (non sempre falsamente), senza saperne più rappresentare uno nuovo.
Anche il numero crescente dei poeti, proprio in un’epoca come la nostra che più che mai ne vuole fare a meno, è prodotto dalla supposizione che i critici dovranno comunque prendere in considerazione i fatti della poesia (eccetto che per una impossibilità materiale; infatti la gara tra gli scrittori diviene, in questo modo, solo una lotta materiale), e cioè dalla convinzione che ai poeti non è affidata la responsabilità di ciò che fanno, perché in ogni caso il giudizio di valore è affidato agli altri, ai critici.
Ciò che ha reso difficile alla critica moderna la comprensione dell’unità della Commedia consiste nell’oblio dell’intenzione del poeta, ovvero del «contenuto» della poesia. La questione delle «credenze» del poeta fu data facilmente per scontata dalla critica, ma Eliot (malgrado abbia affermato che nessuna soluzione soddisfacente è mai stata offerta) ha tentato più volte di darne una. Egli afferma che la poesia è apprezzabile anche se il lettore non condivide le «credenze» del poeta, a condizione però che queste credenze non siano così scarsamente universali, infantili, incoerenti da stabilire tra poeta e lettore una barriera quasi insuperabile . Eppure è difficile non intendere l’universalità e la coerenza delle «credenze» di un poeta se non come segno della loro verità, e, per contro, la parzialità, la immaturità, l’incoerenza se non come segno di falsità . Ciò che impedisce di tradurre l'intenzione del poeta nell’intenzione del critico è la supposizione che il «progresso dello spirito» consista in un progresso nel tempo. Ma chi crede in una tradizione possibile della verità perché crede in una tradizione possibile del linguaggio (e anche Eliot sembra essere tra questi) non può affidarsi a così palese illusione. Eliot, distinguendo tra comprendere e credere, aggiunge che comprendere pienamente deve terminare nel credere e che probabilmente il lettore apprezza di più la poesia quando condivide le credenze del poeta. La questione, invero, è quella dei rapporti tra poesia e filosofia, e consiste nella domanda se la filosofia possa avere un suo linguaggio, quando la poesia ne abbia uno completo.
Scopo di questo saggio, però, è giudicare soprattutto la critica italiana moderna e cercare le ragioni per cui essa non ha saputo intendere unità nella Commedia. Essa ha una tradizione generalmente comune che trova d’accordo i critici più disparati e lontani, da Bembo a Della Casa, soprattutto per la lingua, da Vico a Bettinelli a Croce, per motivi più filosofici. L'opinione del Croce, in parte, può comprenderle tutte.
Secondo Croce, la Commedia consiste di una serie di liriche staccate, perché ciò che rimane della poesia è l’espressione dei sentimenti o le immagini che sarebbero eterni, mentre le idee e le credenze progrediscono e cambiano. A lui pare inevitabile che la «divina foresta spessa e viva» sia più permanente, più «poetica» dei dubbi filosofici e teologici di Dante che Beatrice di volta in volta risolve. E ciò accade perché egli si illude che le immagini resistano più delle idee, ove siano sottoposte a progresso . Chiunque può ammettere che nella Commedia vi siano luoghi meno riusciti, ma ciò è dovuto alla ragione, normale per un poeta, che quandoque dormitai Homerus; non si possono connotare tutti come un solo difetto. Il nome di un filosofo del passato può essere altrettanto permanente o dimenticato quanto quello di una pianta, perché, se muta lo spirito dentro di noi, muta anche il contesto di parole che rappresenta i sentimenti e le immagini e il nome di Riccardo da S. Vittore o di Sigieri di Brabante provoca in noi, uomini colti, una risonanza pari a una visione di cielo o di natura serena. Così la «divina foresta spessa e viva» non è una foresta qualsiasi, ma il Paradiso terrestre. I commenti pretendono fatalmente farci intendere i simboli di Dante al fine di intendere Dante. È vero il contrario: è giusto intendere Dante per intendere i simboli che sono più grandi di lui.
Il pericolo di qualsiasi critica letteraria è quello di considerare il poeta come un problema, anziché come un mediatore. Per chi accetta l’ironia secondo la quale per essere poeta occorre ricordare una tradizione della verità espressa da coloro che si sono succeduti ma non superati nel tempo (è questo il senso, malgrado le apparenze, dell’XI Canto del Purgatorio), la visione degli spiriti sapienti del Canto XII del Paradiso è altrettanto riconoscibile e apprezzabile quanto la visione «de li seren tranquilli e puri», e l'apparizione di Arnaut Daniel che si esprime nel suo «parlar materno», conferirà l’emozione “colta” di scorgere le tradizioni dei poeti che ironicamente tendono a un solo fine, malgrado la diversità delle lingue. Così l’emozione che il lettore prova nel leggere versi come questi:
Facesti come quei che va di notte
e porta il lume dietro e sé non giova,
ma dopo sé fa le persone dotte...
oppure i versi del commiato di Virgilio, è l’assistere al momento in cui il poeta si cancella dietro la poesia, dietro la tradizione a cui dà vita così come a quella che gli ha dato vita. Siamo coinvolti in un progresso a cui partecipiamo, perché comprendiamo che la poesia è solo possibilità affidata alla tradizione, e può conoscere anche la tragedia del linguaggio, la propria inesprimibilità e forse la propria estinzione. L’emozione veramente unitaria che il lettore prova nei confronti della Commedia è questa. Tutti i grandi poemi sono poemi sulla poesia, ma nella Commedia la responsabilità verso il linguaggio, affidato alla memoria e all’intenzione, è veramente il tema centrale. Negli ultimi canti del Paradiso, seguendo Dante nella sua ascesa, acquistiamo coscienza che il successo della sua visione non è successo personale, ma è successo della stessa poesia, e che egli sta compiendo lo sforzo della memoria non tanto per salvare la sua Commedia, ma perché la sua poesia sia Commedia, cioè «lieto fine», lieto fine del linguaggio e della poesia, attraverso il successo della poesia. Memoria aveva previsto fin dall’inizio tale progresso, ma così non era quando il poeta, anzi l’uomo senza ancora poesia, si trovò per la prima volta nella Selva Oscura. Egli dovette soffrire la sua vicenda fino alla fine, e solo allora poté ricordare il principio che lo aveva guidato silenziosamente, solo allora poté dar principio a un’opera: «memoria che scrivesti ciò che vidi / qui si parrà la tua nobilitate».
La Commedia, inesauribile per chiunque voglia meditare sull’arte, è l’opera che mostra quanto sia vana ogni estetica, significando come il criterio dell’arte è un oggetto reale, l’oggetto che non si giudica ma da cui ci si lascia giudicare. Quando Dante risponde; a Bonagiunta la poesia essere dettatura d’amore, già indica che il giudizio sulla poesia non è né «a priori» né «a posteriori», bensì è l’intesa stabilita dall’intenzione del poeta il quale, implicitamente, invita il proprio pubblico a rifarsi a quello stesso amore che a lui ha dettato le parole. Poesia è sempre creazione di un pubblico, di un pubblico di contemporanei ma insieme di venturi, di discepoli possibili, dietro cui il poeta accetta di scomparire, affinché la poesia esista.
La catarsi, che Aristotele afferma essere il significato della tragedia, genere sommo, significa sì «purificazione», ma, soprattutto, in Dante cristianamente significa «morte all’uomo vecchio», morte in vita per rinascere alla vita, anziché morte per lasciarsi morire. Tutta la Commedia conosce il dramma di questo transito, dei legami troppo umani che si stabiliscono nel corso stesso del poema divino, e da cui di volta in volta bisogna sciogliersi. Uguale significato è presente nell’altro grande poema del destino, l’Eneide.
L’itinerario della mente verso Dio consiste nell’ironia di due movimenti contemporanei e come opposti, uno verso la morte e l’altro verso la vita, uno verso la fine e l’altro verso l’origine, perché dal distacco progressivo dagli affetti mortali s’accresca proprio l’immortalità dell'anima. La Commedia è importante anche perché ci ricorda che l'immortalità non è uno stato sicuro, ma possibile, e possibile soltanto per l’azione salvatrice, non per quella mortificatrice. Per noi moderni la morte dell’anima è semplicemente l’inesistenza dell'anima, ma se intendiamo Dante allegoricamente, egli contraddice questa credenza. Infatti l'inferno non è l'immortalità dell’anima che è morta, ma la mortificazione perpetua dell’anima che non può morire: «ché la seconda morte ciascun grida». Proprio in questo consiste il suo tormento. Mentre la nostra drasticità ci conduce ad eliminare addirittura il problema, l’arte del poeta cristiano rappresenta efficacemente la necessaria ambiguità tra morte e immortalità dell'anima. Una prova evidente d’allegoria, anziché di realismo, nell’intendere l'Inferno, ci è offerta da Dante quando egli ci presenta l’anima dannata di Branca Doria, come tutte quelle che si trovano nella Tolomea, mentre questi dimora ancora, col corpo, sulla terra. Dante non prendeva alla lettera (cioè localmente E temporalmente) espressioni come «l’al di là», «l’al di qua» e «vita futura»; e quando dice a Brunetto Latini: «Voi quando nel mondo ad ora ad ora / m’insegnavate come l’uom s’eterna», vuol dire che immortalità vera e propria, sia essa delle opere come dell’anima, non è una garanzia, ma una possibilità, e per di più graduale, da conseguire con l’arte. Così la partecipazione del lettore non consiste altro se non nell’attuazione e nella trepidazione per una vicenda il cui successo o insuccesso è importante anche per lui, oltre che per il poeta, perché è speranza d’esser guidato per i gradi, oltre l’Inferno. In questo senso il poeta (e ora Dante ci appare il poeta, piuttosto che un poeta) è come un delegato, un funzionario, un rappresentante che assume su di sé liberamente un compito, non già affidatogli dagli altri, ma lì presente solo per essere affidato a qualcuno. Per l’estrema umiliazione con la quale sembra rinunciare alla poesia stessa, egli le dà vita, e la spinge tra la gente; proprio perché il poeta sembra finalmente rinunciare al suo successo stesso, il suo nome diviene «il nome che più dura e più onora».