Dati bibliografici
Tratto da: Storia Letteraria d'Italia. Dante. Storia della Commedia. Volume I
Editore: Vallardi, Milano
Anno: 1954
Pagine: 584-597
Oltrepassato il tema della gloria e il tema dell’amore nella loro limitazione terrena, l’attende il tema della politica, con le sue grandi animate avventure: tale che investe tutta la vita della cantica. Una condizione di poesia si rileva così: di fronte alla gloria, Dante s’era esaltato in calda atmosfera e blanda luce: diritto, coi grandi poeti, sopra il verde smalto in una contemplazione immobile: di fronte alla passione Dante aveva partecipato raccogliendosi in sé, diminuendosi smarrito, quasi annichilito: fra i due smarrimenti, prima del Limbo e dopo il secondo cerchio, quasi morti mistiche, s’erano conclusi due temi assai attivi della sua vita intellettuale e morale: ma la pietà che sopravviene quando la mente si schiude è ancora un soprassalto della memoria: «novi tormenti e novi tormentati»; così insistente che dentro di lei, per non lasciarsi vincere, Dante deve cercare una ragione. La ragione è trovata nella moralità; e per specificare, nella moralità cittadina, la cui problematica il poeta matura ansiosamente, in una ricerca affidata a moti assai più circoscritti che i primi incontri. L’esaltazione della gloria terrena, pur con quel suo sfogo aperto sul problema della possibile salvezza eterna degli spiriti magni, aveva il tono acclamante e solenne, ma spersonalizzato, della apologia, ed anche la contrizione smarrita dell’incontro con Paolo e Francesca, si traduceva in una sospensione indefinita: morte del vecchio uomo, per sentenza di una volontà severa, che pur lasciava, dopo la condanna, un pianto vano e pietoso, severamente vigilato da Virgilio, in veste non sai se più d’assistente al giudizio o di confessore. Dallo smarrimento in poi, gli occorre di farsi una nuova ragione concreta di vita terrena; e questa cerca e trova nell’investigare e nell’intervenire per entro la moralità cittadina, la vita collettiva degli uomini adunati in gruppo; e gli si palesa alla mente l’immagine della città infernale, terrena, contrapposto e complemento della terrena, Firenze.
L’apparizione non ha nulla di deliberato: il racconto procede affidato agli schemi astratti della struttura; esperienza delle forme dell’incontinenza, della cupidigia bestiale; e tratto tratto l’influsso quasi d’incubo delle Bestie di fa sentire: Cerbero che caninamente latra, e il maledetto Lupo a guardia degli Avari, e gli urli di Flegias, fra gli altri cani di Stige, di rabbia e d’allarme. Anche il paesaggio si conforma, come ora vedremo, secondo preoccupazioni precise, suggerite dalla situazione. Ma intento la città di Dite, cui devono arrivare (e questo cammino dalla porta d’Inferno a qui non è che un lungo approssimarvisi), incomincia a mandare le sue avvisaglie. La fantasia del poeta è in moto sia per quanto ricorda sia per quanto attende: con una chiarezza memorabile di moti, con una nitidissima arte del controcanto: come in una polifonia. E se l’abitudine, dopo l’opportunità del distintamente e chiaramente riflettere, consiglia di dipanare ad uno ad uno i fili della matassa, occorre ripetere che nella fantasia del poeta tutto si opera per suggestione immediata: la istantaneità della visione abolisce l’ordine temporale, e quella montagna che è la Commedia conserva in sé la storia delle sue stratificazioni concettuali, non però abolendo l’immediata sostanza del suo esistere. Hai dunque le avvisaglie dell’immagine della città: remoto il Nobile Castello, alto nel suo emisperio di tenebre: remoto pure quel luogo sospeso «d’ogni luce muto», quel paesaggio impossibile del secondo cerchio, quella ruina, quel turbine che ora è procella mugghiante, ora è misterioso alito di vita: i dintorni della città cominciano a farsi più precisi nel terzo e nel quarto cerchio: nel quindi già appariranno le mura rogge di Dite. Ma questa non è ancora condizione essenziale: essenziale è che il poeta, alla ricerca del suo ambiente e della sua ragione di vita, si definisce drammaticamente: lotta ed ansia che culmineranno prima e dopo le mura, navigando per la palude, resistendo ai demoni, nella perplessità di una vicenda che attende di essere risolta dall’inviato divino, e quindi, con nuova coscienza ricevuta da tale soccorso, nel contrasto con Farinata. Mentre la Città manda così le sue inquete avvisaglie a stimolar la coscienza del pellegrino per un esame conclusivo delle sue ragioni morali di vita, prosegue l’illustrazione della struttura predisposta, i paesaggi spirituali che la situazione determina: la desolazione infinita della pioggia sopra i golosi, vita monotona nella ripetizione degli stessi gesti; la «buffa» degli avari e dei prodighi: il fiumicello fangoso appiè di una piaggia maligna, e la palude, dell’accidia e dell’ira.
L’avventura si determina drammaticamente, all’incontro di così diverse direzioni; e Dante si definisce nell’atto di dar vita intensa alle creature che incontra. Ma non senza incertezza, finché la deliberazione pugnace del canto ottavo e l’incontro con Filippo Argenti lo avranno avvertito della necessità di prender parte. L'incontro con Ciacco rivela questa incertezza: non d’arte, ben intesi: perplessità psicologica, che attende d’essere abolita prima da Virgilio «benedetta colei che in te s'incinse», poi dal Messo di Dio: «tal ne s’offerse» . Ed ecco fra tanti moventi e intenzioni che s’assommano, immagini emblematiche, struttura che condiziona paesaggi, autobiografia politica, sorgono questi protagonisti: propedeutica a Farinata, ben inteso. Il primo è Ciacco. Mentre Dante passa «e ponavam le piante sopra lor vanità che par persona» (il tema sarà ripreso nella ghiacciaia infernale, con altri esiti), una di quelle s'alza, di scatto: «Riconoscimi, se sai». Come spesso in questi primi canti, lo stile è pregnante: «Tu fosti, prima ch'io disfatto, fatto» . Tenta un appiglio di vita, prima di addormentarsi: senza reagire, s'abbandona, quando Dante ha tentato una e due volte di aver da lui una nozione più precisa. Antagonista scarso, Ciacco: del quale è fin troppo facile offrire giustificazioni psicologiche: uomo di corte, buonvivente e godente, capace sì di dare un giudizio generico e moraleggiante sulle condizioni di Firenze, non di reagire: scarsa vita morale, la sua; e un torpore, che consegue al suo mediocre vizio, una naturalità crassa e inerte. Tra Paolo, con il suo silenzioso contrappunto patetico ed elegiaco, e Filippo Argenti, con la sua voglia rissosa, dopo il primo appello alla pietà, serve di tramite: ed anche di tramite serve, nella sua inerzia, al tempo, di tramite a Farinata nella sua impassibilità:
dopo lunga tencione
verranno al sangue, e la parte selvaggia
scaccerà l’altra con molta offensione…
Se non sopravvenisse quella misura assai lunga di tempo «alte terrà lungo tempo le fronti... », comeché indeterminata, verrebbe fatto di cercarvi conferma all’ipotesi dei sette canti; e certo, altro è l'impegno politico dal settimo in avanti, altro in questo: dove l’indeterminatezza è appunto il modo più frequente; ma, qual che ne sia dell’ipotesi, assistiamo al primo capitolo della Institutio Dantis in materia politica; e seguiamo un itinerario didattico affidato a sentimenti e risentimenti maturati nell’ambito della poesia . Certezze ne ha ancora poche e scarse, e la sua superficiale informazione di un uomo di corte, nemmeno pettegolo, vago alquanto nella eleganza un po’ ammanierata della sua persona storica (se è quel Ciacco dell’Anguillara di cui tanto si ragiona); non può decidere della sorte e dell'educazione di Dante: altri uomini di corte si attendono, da Marco Lombardo a Romeo di Villanuova; perché l'esemplare del personaggio si raddoppi autobiograficamente sul poeta. Il secondo capitolo di questa Insitutio è l’allegoria della Fortuna: la quale anch’essa puoi misurare da più di una visuale: dall’opposizione fra quanto dice nel Convivio, e questa giustificazione trascendentale di un disegno divino (ed è spiegazione intrinseca alla storia di Dante, maturazione di un pensiero teologicamente più ortodosso, accettazione di un dogma): ed anche puoi considerarla nella sua iconografia, definizione estetica di un concetto, secondo un metodo che sarà assai caro all’emblematismo del Rinascimento: anticipazione di una «impresa» o di una allegoria belliniana; e sarà facile intendere quanto di paganesimo cristianamente trasfigurato vi sia:
Vostro saver non ha contrasto a lei:
questa provede, giudica e persegue
suo regno, come il loro li altri dei...
ma ella s'è beata e ciò non ode…
Ricordo del canto della beatitudine impassibile di Beatrice «Io son fatta da Dio, sua mercé, tale che la vostra miseria non mi tange…» sopra una figurazione che dalle indicazioni tematiche è indotta a un ritmo classico di stilizzazione: trasfigurazione della pagana Fortuna non ancora Provvidenza; ma la lontananza divina e beata ove è posta, lascia in solitudine il poeta, che non può avere che provvisorio conforto dalla beatitudine in cui l’angelo si contempla. Nell’anima di Dante la evocazione di Virgilio, stupenda in sé, lascia un vuoto; e il paesaggio mutato dopo la ridda degli avidi peccatori, quella tristezza umida e palustre, la tetraggine dell’aria e del canto, lo definisce anche più solo. L’inno della gente vita dall’ira
tristi fummo
nell’aere dolce che dal sol s’allegra
portando dentro accidioso fummo:
or ci attristian nella belletta negra…
quasi l’incita ad una contrapposizione attivistica e ottimistica. Il terzo personaggio, Filippo Argenti, lo trova, finalmente, avversario, sciolto e violento nella battaglia verbale. «Vedi che son un che piango» doveva bastare a disarmarlo, comunque detto con rovello dal fangoso che aveva promosso l’inchiesta; ma l’antagonista, fatto ormai forte, che cerca in sé come l’ira diventi sdegno, come si santifichi a vita morale quel moto turbinoso del sangue, lo ferisce a fondo, lo ribatte d’un colpo di coltello:
Con piangere e con lutto,
spirito maledetto, ti rimani,
ch’io ti conosco, ancor sie lordo tutto .
«Io ti conosco»: per la prima volta affronta un personaggio mantenendo intera la concretezza del suo risentimento terreno: per la prima volta dichiara e condanna una intera sorte umana: per la prima volta la sua decisione di prender parte è fattiva.
Il mutamento che d’ora in poi interviene nel racconto meriterebbe d'essere circonstanziato analiticamente; se qui volessimo altro che offrire chiavi alla lettura, e linee all’intelligenza storica: non è nostro il commento. Trascorriamo dunque sulle contestazioni dedotte: sulla nuova drammaticità che il poeta consegue, deliberato ormai a gettarsi con tutto se stesso in quella che non è più avventura, ma giudizio; sulla diminuzione e minorazione di certi valori narrativi, che nello spazio aperto e disponibile dei primi canti si distendevano con più ricca misura: anche sullo scadimento del paesaggio, che perde la pittoresca allusività dei primi canti, e attende, per ristorarsi, le pause incantate degli idilli (soluzione classica dopo una esperienza romantica). E trascorriamo anche sull’ipotesi dei sette canti: che risulta essere un felice espediente di concretare in notizia di cronaca la storia di questo noviziato poetico che Dante persegue. Osserviamo invece la conclusione di tale primo capitolo: la pienezza della vita di Virgilio. Dall’atto che egli interviene a santificare il suo magnanimo sdegno contro l’Argenti, il suo comportamento è diverso da quel ch'era: il savio gentile parlava con distacco e con lontananza, prima; e le sue degne parole avevano un po’ sempre il carattere di quanto si discorreva camminando verso il Nobile Castello: «parlando cose che ’l tacere è bello, sì com’era ‘l parlar colà dov’era»: le pause, come tante volte in uno stile narrativo che accentua l’emotività in luogo dell’evidenza e della visibilità, eran colme di attese e di mistero. Ma ora è il maestro «accorto» che sospinge l’Argenti fra gli altri cani; e deciso a prender parte lui pur con Dante, sdegna la sorte di quei superbi iracondi condannandoli in fascio.
quanti si tengono or là su gran regi,
che qui staranno come porci in brago .
Intanto la città che ha nome Dite s’approssima, si discernono le torri e le meschite intorno e dentro la cerchia delle sue mura, si nominano i suoi cittadini, il suo esercito. Quel presentarsi di Virgilio e di Dante, soli, al cospetto di una città armata e difesa, quell’avviarsi circospetto ma solenne al parlamento segreto coi diavoli, dopo che Flegias gridando forte ha gettato l’allarme (forte è significato che s’addoppia), quella baldanza dell’andare, e la umiltà dimessa ma non vinta, anzi vittoriosa, nell’attesa fidente, del suo ritorno, hanno una precisa forza che il personaggio prima non aveva; ma Virgilio non era personaggio, prima: era un luogo comune, un topos cui ricorrere in ogni caso, quasi una «sorte» sempre aperta a ogni dubbio. D’ora in poi si raddoppia sul poeta, diventa non lui, ma una trasposizione transvalutata della sua persona, entra nel cerchio di quella creazione drammatica per cui un personaggio diventa un prolungamento del drammaturgo, pure e proprio acquistando autonomia di vita e di parola, Altro dica più minuta lettura; ma non vorremmo trascorrere senza annotare una circostanza, che ha peso storico immenso: Virgilio s’era mosso per l’investitura che la rivelazione, donna del cielo, gli ha dato; e sin qui è proposta dedotta, superbamente dedotta; ma a paragone con le prove e col male, Virgilio deve diventare qualcuno: eccolo ricorrere direttamente ad una fede carismatica, accettare l’indicazione e il soccorso da Dio stesso, nella seconda persona qui nominata. Il dramma spirituale con il contrasto
Questa lor tracotanza non è nova;
ché già l’usaro a men segreta porta,
la quale sanza serrame ancor si trova:
sopr’essa vedstù la scritta morte
(non ancora con il mimo, che sopravverrà nell’incontro coi Malebranche) fra i divoli dispettosi e i pellegrini dell’oltretomba, si conclude con una apparente sconfitta della ragione: anzi, con una vittoria, se il segno del volere divino si manifesta, e le si spalancano le porte della città ferrata.
La sosta davanti la porta della città di Dite riempie il canto nono: ch’è dei più varii e mossi; ma da quando due fiammelle s’alzano sulla torre di scolta, onde Flegiad accorra traverso la palude, all’incontro col Minotauro, che risolve la vicenda e introduce il cerchio della violenza (dove la natura maligna non solo cede a se stessa, ma si raddoppia sulla natura umana per compiere il male), un solo nodo si stringe, e una sola storia di dipana. Fin qui il paesaggio (quello della terra e quello dell’anima) era vago e disteso: lande e piagge e paludi; ma ora un ultimo tratto ci affaccia all’orlo dei precipizi, i tre dirupati salti dell’interno inferno. Fin qui luci eguali nella tenebra fonda, livide arie ed acque; ma ora il tema delle fiamme, rosse le mura e le torri, infocate l’arche come fornaci. E nelle anime l’incognito indistinto di un abbandonarsi inesausto all’impulso, prima, un esser vive di una forza che le trascorreva, come in Francesca; ma ora eccole intere e diritte, con la propria volontà interrotta volontariamente, ma audace. E l’opposizione dei damoni era di grida e di urla vane, prima, in quella immensa zona che si stende dalla porta infranta alle mura; ma d’ora in poi il combattimento è più serrato, e vuole, dopo l’intervento del Messo da Cielo, che l’ingegno soccorra: quell’ingegno, quell’accorgimento umano, quell’ausilio della ragione, che proprio da tali dannati era stato distorto ad un uso maligno. Di tale sosta, e dell’intermezzo drammatico che l’occupa, il nodo è l’assedio della città, dalla prima avvisaglia, quando Virgilio va a parlamentare coi Diavoli, al gesto magico e imperioso onde il Messo da Cielo apre la porta di Dite.
Virgilio, sconfitto, più s’innalza; e non è mai stato vivo e operoso come ora, da quanto la sua sapienza scendeva austera e forse mollemente dignitosa, a parlare: non egli s’identifica con la ragione, ma le appartiene, quanto la ragione a lui: pure sconfitto,
chiuser le porte que’ nostri avversari
nel petto al mio segnor, che fuor rimase
e rivolsesi a me con passi rari,
non egli è vinto, che combattuto più s’ innalza, e, umilmente dimesso, più è uomo. Il Messo dal Cielo l’esalta, che pure a loro non parla, ma è lì per loro, invincibile ausiliario. Sconfitta per un momento la ragione; e sconfitta la parola: di qui quel suo parlar smozzicato: «Se non... Tal ne s’offerse: o quanto tarda...» Ed assistiamo all’accenno, o forse alla tentazione, ma non al rito dello scongiuro. Il ricordo della maga tessala Eritone (anzi: «Eriton cruda»: la magia nera di cui lui stesso fu vittima, costretto a scendere per tutti i cerchi del dolente regno a richiamare uno spirito dal fondo della ghiacciaia infernale, dalla Giudecca, ha un’apparenza atroce: ripercorsa dall’apparir delle Furie, insanguinate) vale come tema continuo. Virgilio mago? . Al contrario: «se non...» può anche dire che gli s’affaccia alla mente il pensiero di scendere a paragone dei Diavoli servendosi delle leggi che soprannaturalmente li governano; ma la vittoria tocca qui a un cenno di un personaggio celeste; e quando occorrerà un rito di scongiuro, a richiamar Gerione dall’abisso di Malebolge basterà gettare, aggomitolato, il cordiglio che a Dante era servito male di cappio a prender la lonza. Non più scongiuri magici, ma segni carismatici. Di scongiuri, e di una seduzione terribilmente maligna sull’uomo, si servono bensì le Furie, le «meschine de la regina dell’etterno pianto» . Qui il mistero si affolta (e ancora una volta il torto è di volerne dipanare un senso solo) e il poeta stesso, quando chiude l’episodio, richiama indietro il lettore, coi versi famosi:
O voi ch’ avete li’ntelletti sani,
mirate la dottrina che s’asconde
sotto il velame delli versi strani!
L’eresia personificata, l’ateismo radice di tutti gli errori, e la seduzione della superbia intellettuale irrigidita nell’antitesi dogmatica alla perpetua creatività di Dio: tutto questo è la Medusa, la sua testa mozza, il Gorgon: e perché non la «regina» stessa, la «Donna che qui regge», la personificazione della luna, che ha pure un suo viaggio e un suo misterioso soccorso nell’itinerario del poeta? Ma al poeta importa stabilire un contrappunto al soccorso che altra volta gli venne dalla Donna del Cielo, dalla Vergine Maria, dalla prima Creatura: quel benigno s0ccorso, quel pietoso accorrere perché un viaggio si compia, quel caldo d’amore per cui splende e sfolgora in cielo la mistica Rosa, sono il contrapposto di questo atto meduseo, che impietra la volontà, che l’irrigidisce in una forma, che seppellisce la creatura nella tomba del suo stesso volere, che imbalsama nel finito il contorno della persona umana. E la mitologia, altra volta introdotta a significare la degradazione demoniaca della creatura angelica, e che più tardi tornerà a vivere nella letizia delle belle favole, quasi riconsacrata dalla riconquista cristiana della natura indenne, qui è antitesi del tema paradisiaco che aveva introdotto il canto secondo: così l’apparizione delle furie contrasta al canto delle donne nella corte del cielo.
La demoniaca malia della Medusa è vinta da un atto semplicetto: voltarsi, e chiudersi gli occhi con le mani, ed altre mani soccorrevoli s’aggiungano loro a fare schermo. Ora non c'è più bisogno di tentar la via di altri incanti, dopo la vanità dell’incanto diaboli: già la natura, percorsa da quello Spirito sopra l’acque, si riscuote tonando, fuggono l’anime distrutte innanzi al Messo da Cielo, la Sua mano rimuove dal volto l’aer grasso che stagna sulla palude. Prima opra, poi parla: eloquente, parla; e come le Furie avevano allegato la vittori su Teseo, ora egli ricorda la vittoria di Ercole: dove l’eloquenza è conferma di una verità effettuata. E senza parlare ai poeti, ritorna per la «strada lorda», per la palude popolata dalle anime iraconde: lui, il magnanimo sdegnoso. Qui valga l’episodio anche a riassunto dei quadri che il poeta dipinse: ché più grandi e pervasi d’anima, più solenni e superbi paesaggi spirituali non aveva prima dipinto, né più poi dipingerà. E delle creature angeliche che poi introdurrà nella Commedia, questa è la più umanamente ferma e scandita, la più poderosa ed evidente: ritratto d’angelo sopra un paesaggio immenso. La commedia demoniaca a atroce dei diavoli «dispettosi», dal tranello di Flegias alla tentazione di Medusa, è in contrappunto con questo dramma innalzato a vertici superbi. Lui scomparso, pare che la nube luminosa dove s’è celebrato l’incantesimo si dissipi, e tutto ritorna ad una tonalità mediocre e distesa, che bene è allusa dalla gran campagna piena dell’arche di fiamma; eppure l’accento poetico non cade sui sepolcri, benché ogni sottolineatura strutturale soccorra l’immagine: tutto è in attesa di Farinata.
Ora torna presente, vinto l’assedio di Dite, il tema della città; e il tema della città richiama a Dante, irresistibilmente, la concretezza dei suoi ricordi fiorentini, l’immagine viva della città di cui andava in cerca, della quale immagine quella voragine infernale era un esempio contraddittorio e tremendo. La superbia dei costruttori di Città (da Caino in poi?) si deduce rigorosamente dalla loro volontà di eternarsi con mezzi terreni, respingendo l’idea di una vita spirituale che soccorra la vita terrena e della città terrena. Anche le indicazioni geografiche, come dall’uno all’altro confine d’Italia, a chiuder la terra della civiltà cittadine, gli servono: da Arli a Pola; e se i sepolcri sono scoperchiati, se il loro custode è invisibile, la presenza del tema apocalittico ne riceve impulso: il tempo è ancora sospeso, sulla terra dei mal vivi: potranno scoperchiarsi le tombe e risorgere la vita: potranno riempirsi d’altri tributi. «Simile qui con simile è sepolto» . L’abitudine dell’intelligenza cattolica, propensa, fin d’allora, al catalogo esatto delle colpe, e ai giudizi energici degli errori, gli rende conto della superbia ateistica che pervade tanti aspetti della civiltà cittadina; e la sua attesa, ripresa all’inizio del canto decimo, con un desiderio confessato «la gente che per li sepolcri giace potrebbesi veder», quella sua volontà pregnante di far giudizio morale attraverso la storia, sarà appagata dalla apparizione di Farinata. Al termine del discorso di Farinata, un breve elenco di protagonisti della storia del Duecento:
Qui con più di mille giaccio:
qua dentro è ’l secondo Federico,
e ’l Cardinale; e de li altri mi taccio,
gli interrompe la curiosità, aperta dal goloso Ciacco, maldestro ingordo di beni terreni; ma appunto l’apparizione di Farinata ci chiarisce un modo tipico della fantasia dantesca: la sua indagine lavora sottilmente intorno ai temi che più gli son cari; intorno al tema della città, instancabilmente; e la figura e forma d’Inferno è proiezione di quel ricordo; ma a un tratto il suo procedimento mentale si capovolge e illumina tutta una figura e lascia che il suggerimento fantastico, la vita di conoscenza promossa dalla rivelazione poetica, investa tutta la zona prima percorsa da quella riflessione. Se la fondazione della città, coi suoi attributi di grandezza e di dominio, e l’intima violenza delle operazioni politiche, e quello sforzo perduto di tradurre in virtù i vizi (poi venne anche Vico a riflettere su questo tema), fosse operazione maligna, si discuteva; e toccò all’umanesimo, specie all’umanesimo italiano, riattribuire la benignità di un servizio provvidenziale all’opera dei politici: finché Machiavelli, compiuto il ciclo, ricapovolse in una sfera disancorata dalla Provvidenza quell’attività, la cui grandezza temeva andasse perduta nella vicenda delle guerre d’Italia. Ma la dottrina resta in secondo piano, nella mente di Dante: fatto uomo concreto, sospesa in un cielo eterno l’immagine della gloria, purificatosi con la morte mistica dalla seduzione dell’amor terreno, deviata verso la notizia delle sorti di Firenze la presenza della cupidigia ingorda, inchinata reverente la Fortuna guida e custode della ricchezza e della grandezza (qui giova ripercorrere la storia fin qui narrata, tanto è saliente questo culmine della vicenda) e purificato in sdegno l'ira nell'incontro con l’Argenti, ora è uomo, uomo solo, uomo eterno, alla ricerca e all0incontro di altri uomini. Ancora, finché vi sono uomini vivi in cammino verso il destino trascendentale che li soccorre, la sorte dei superbi negatori di Dio che si son seppelliti nelle loro arche orgogliose, non è del tutto segnata: vivranno; sia pure nell’immortalità fittizia della storia: un’ombra di loro vivrà perenne.
Di Farinata, tutti lasciano che parli la poesia. Di quanto s’innalzi l’inno dell’amor di patria dal dramma di quell’antagonismo fra il campo ghibellino e il discendente dei guelfi, che s’appresta a superare ogni divieto d’ira di parte, e a diventare altissimo giudice della città che l’ha sbandito, ogni lettura dà il metro. Quell’ateo che visse magnanimamente e con una sua chiusa, superba, ma fermissima forza caritativa operò il bene della patria, ad altra immortalità non crede se non quella delle geniture:
chi fuor li maggior tui?
E Dante, che aveva già percorso l’itinerario sulla nobiltà, e che aveva negato che nobiltà sia in dignitàe ereditaria, e che era giunto a un individualismo che richiedeva la investitura divina sulla dignità perenne della persona, accetta di discutere. Immobilmente discutono, senza infingimenti, a volto aperto, ogni colpo cavallerescamente annunziato:
non gliel celai, ma tutto gliel’apersi…
Ebbene, quella genitura è destino d’esilio: generare, in quella rissa cittadina tremenda, val quanto aumentare il numero degli esuli. Qui il tema proposta da Farinata subisce una impetuosa svolta dall’apparizione di Cavalcanti; e al tema dell’amor di patria si oppone il tema dell’amor di padre: trepido, dolente amore, che non solleva dritto il protagonista, in quel gruppo da cui tanto apprese il linguaggio fiorentino e toscano della statuaria e della pittura monumentale, ma solo in ginocchio supplicando:
mio figlio ov’è? perché non è ei teco?
amore che d’abbatte se appena lo coglie il dubbio della morte del figlio, come se quell’anima, viva pur dopo morta, tanto serbasse delle sue credenze in vita da credere che il figlio sia del tutto morto, pur morto; ma
non fiere li occhi suoi il dolce lome?
lontano dal sole benigno il destino di morte è insopportabile a Cavalcante. Il dramma compie a questo punto il terzo passo chiuso l’episodio dei Cavalcanti; e dopo l’amor di padre s’avanza e pieneggia il tema dell’amore di patria. L’accento dei due è diverso, data e segnata anche per Dante la sentenza d’esilio:
Che tu saprai quanto quell’arte pesa,
dice Farinata; e Dante:
Deh, se riposi mai vostra semenza…
ma dall’immobilità affocata delle tombe lo sguardo di Farinata si allontana verso il futuro: «cotanto ancor ne splende il sommo duce!» . È il secondo eroe che, accettando la condanna, libera la sua umanità finita a paragone di Dio, di cui si ricorda.
L'attesa di Beatrice (e della città celeste) suggella l’incontro di Farinata. Ma da una tomba all’altra trascorrendo, si ferma ad un avello solitario: non più «simile con simile» vi è sepolto; né la processione diabolica dei papi simoniaci, l'uno capovolto sull’altro, come nel terzo di Malebolge; ma la solitudine disperata del supposto monofisita Anastasio II: senza il dogma della duplice natura di Cristo, ogni speranza d’immortalità è perduta. Ma dove il pontefice, investito di autorità alla salvezza delle genti, ha fallito nel suo magistero, soccorre Virgilio, l’Etica di Aristotile e la Bibbia sacra. Il canto, dottrinale, poco rivela, alla lettura, delle suggestioni fantastiche attive nell’intelligenza del poeta; ed anche la contrapposizione che qui ci si offre, tra il magistero di Virgilio e la tomba, che bestemmia con l’ira dell’epigrafe, se diventa attiva in una prospettiva storica non preveduta dal poeta, che non pensa a una contrapposizione di chiesa e di laicato, resta occasionale: non meditata appunto; e la chiarezza un po’ ammanierata e scolastica delle distinzioni, propria del colloquio ammaestrativo di Virgilio, anzi che farci assistere alla conquista in atto della verità, dispone un riassunto topografico di un luogo e di uno spazio ormai fermi nella mente: dove si perde il moto più singolare della fantasia dantesca, la suggestione delle tre Bestie che luna dall’altra movendo invadono i cerchi infernali. Qui non è la Lonza che induce il Leone e la Lupa: non la Cupidigia che si raddoppia di Violenza e di Frode; e nemmeno la triade di Dite che al termine infimo del viaggio infernale, s'ammucchia nelle tre facce immonde, la suggestione del male che ingoia l’universo terrestre, attraendo giù in basso, verso il centro della terra, rotolando a valle, le creature umane: manca quel dinamismo drammatico che forma il quadro e la scenografia intellettuale certo, ma novissima e feconda, dell’inferno; e che. con il suo moto ritroso, come se si continuasse (ma volontariamente, e con la faccia animosamente volta in avanti) il moto cui la Lupa aveva costretto il Poeta, è il tema del poema meno dichiarato e, fra i temi di scelta intellettuale, più attivo: quello che aiuta la rispondenza finale fra l’inizio del viaggio e l’ultimo approdo, la contemplazione delle persone di Dio, uno e trino. Di una conciliazione, ancora, il poeta sì preoccupa: fra la dottrina della filosofia teista di Aristotile e la dottrina della Chiesa: quando si tratta di offrire i testi, che Dante non dovrebbe scordare nel muovere le sue richieste, per potere più chiaramente dedurre dalle notizie offerte la figura completa dell’Inferno, ecco Virgilio citare Aristotele (la «tua» etica: quell’Etica a Nicomaco che con l’Eneide e la Consolazione di Boezio è uno dei testi più letti da Dante); ed ecco; quando si tratta di discutere la teoria dell'usura (non per nulla la civiltà borghese s’appoggia su quel fondamento che pur era pilastro della civiltà cittadina), la filosofia chiama in soccorso il libro sacro del Genesi .
Ma il canto, che pur serve di guida alla città di Dite, nei suoi ordini vari, meglio è letto come suggello del dramma fin qui svolto; e alla pienezza dell’acquisto risponde la chiarezza dell’esposto. Non tutto vi si riassume, solo una parte: torto è nostro, se all’agevolezza di tale deduzione ragionativa da un mondo d’immagini abbiamo supposto la razionalità esclusivamente geometrica di tutto il mondo dantesco; e una struttura matematica sulla quale cresca e fiorisca uno sterile prodigio di poesia.