Dati bibliografici
Autore: Angela Maria Icopino
Tratto da: "Tout est dit". Teoria, problemi, fenomeni della riscrittura
Editore: Bulzoni, Roma
Anno: 2010
Pagine: 21-36
«Riscrivere la parola d’altri è l’unico modo per cominciare a scrivere» .
Studiatamente apro questo mio saggio con una riscrittura dichiarata, una citazione ampiamente condivisibile: è inevitabile infatti utilizzare le parole altrui come fondamenta delle proprie, con la consapevolezza tuttavia di correre il rischio che questo aiuto si trasformi in un impedimentum a procedere su binari propri e originali.
Nella dialettica fra tradizione e innovazione della tradizione, la Commedia dantesca è un’opera cruciale, un unicum nella nostra storia letteraria. E anche in quella europea. Ma è indiscutibile che anche Dante abbia preso le mosse dalle parole di altri che scrissero prima di lui. Ciò che vorrei almeno in parte chiarire sono le modalità secondo cui si articola la riscrittura in Dante, rivolgendo una attenzione particolare al rapporto che intercorre tra il poeta e gli antecedenti della classicità latina.
Inoltre, in una sorta di parabola della riscrittura che va dall’antichità a Dante, vorrei aggiungere un altro punto, un ulteriore gradino, rappresentato – si potrebbe dire – da una sorta di ‘riscrittura della riscrittura’, e cioè dall’opera esegetica di un accorto e fine commentatore della Commedia dantesca, che operò nel Trecento, a ridosso della prima circolazione del poema.
Ma procediamo con ordine.
Ogni qualvolta ci si accinga a trattare della Commedia, inevitabilmente si chiama in causa Virgilio e il VI libro del suo poema, cui egli consegna la catabasi del pius Aeneas. Infatti, che l’Eneide sia, per dirla con Genette, l’ipotesto della Commedia è incontrovertibile. Il concetto di Commedia come ipertesto regge, ma va integrato con l’idea di una transvalutazione dei valori in senso cristiano , transvalutazione che permette all’autore di parlare di «poema sacro».
All’interno della Commedia, tuttavia, sul tronco principale dell’invenzione dell’Eneide si possono riscontrare seconde ma non secondarie suggestioni, riferibili ad altri poeti che su Dante esercitarono un’influenza comprovata.
Nel momento in cui Dante, attingendo manibus plenis al repertorio classico, inserisce all’interno della sua creazione temi, situazioni, personaggi di un passato letterario mitico, lo fa in un modo del tutto particolare. La riscrittura dantesca dei classici può manifestarsi sotto varie forme: si può andare dalla parafrasi più o meno fedele fino alla citazione alla lettera, magari, e piuttosto spesso, compendiosa. In Dante non si trova mai l’amplificatio di una fonte classica: al contrario il virtuosismo classicistico del poeta si esprime mediante un uso della fonte che accorcia piuttosto che espandere. Il linguaggio dantesco si obbliga ad un massimo di essenzialità: il metodo attraverso cui si realizza l’itinerario della riscrittura dei classici – ed è principio generale nella Commedia – è non analitico bensì sintetico. La tendenza, che va riconosciuta e analizzata, è a compendiare abilmente i propri modelli, mettendo in luce quei tratti che sono essenziali al racconto che si sta costruendo.
Dante cita quasi sempre ‘a memoria’ , considerata la scarsa possibilità di portare con sé dei libri o di consultare con assiduità biblioteche altrui: è naturale che l’insieme degli elementi si mescoli e poi si affacci così rimescolato alla sua memoria nel momento della creazione poetica.
Fermarsi a riconoscere i punti di contatto, in un inventario di prestiti, tra Dante e i suoi auctores e magari stilarne un elenco sarebbe procedura assai sterile, nonché incompleta e insoddisfacente.
Bisogna indagare alla ricerca di una logica che spieghi la capacità di ritenzione della memoria di Dante, bisogna capire se si tratti soltanto e casualmente di una propensione verso stilemi e moduli gustati e sperimentati nella lettura delle opere classiche o piuttosto se, proprio attraverso quei punti di contatto così chiaramente individuati, non risulti alla fine una particolare modalità di lettura, un sistema dell’imitazione, coerente con preoccupazioni di fondo che non siano affidabili esclusivamente all’inerzia o alla pigrizia di un orecchio abituato ad un dato libro che ci restituisca, un po’ a caso, i vari luoghi che lo abbiano colpito.
L’utilizzo delle reminiscenze classiche in Dante si snoda lungo due binari: il modello si imita o si rievoca, se ne trae spunto per creare un personaggio o un episodio oppure, da un punto di vista più strettamente formale, se ne ricalca un’espressione in modo scoperto a guisa di esplicito richiamo.
Spesso accade che l’espressione ‘sottratta’ al modello sia poi costretta in un significato che si discosta da quello originario, e allora il poeta, in questo caso imitatore, gioca col testo antico, riempiendolo di nuove significazioni e riadattandolo così al nuovo contesto ; lo piega, con sottile arte, ad ideologie nuove «trasferendo valori semantici di parole del modello per inserirli in un contesto di altro spirito e contenuto» .
Ma tra imitazione e rievocazione c’è anche un’altra via, da Dante assai battuta, quella della semplice allusione: chi scrive – o riscrive – ricalca il nesso latino senza alterarne il senso, facendo un chiaro omaggio all’autorità di un grande modello.
«L’allusione è il mezzo, l’evocazione il fine» : evocare l’antecedente latino e dimostrare, magari, la propria superiorità.
Questa «arte allusiva» si distingue dalla imitazione pura e semplice «per una eco più diretta, per un più scoperto riferimento al modello, del quale presuppone nel lettore la conoscenza e il ricordo» : il testo nuovo si mette ambiziosamente in gara con il testo antico, invitando il lettore ad operare un confronto.
Ma fare lunghi discorsi critici senza riferimenti testuali è pratica sterile, oltre che assai noiosa. Entriamo, dunque nel ‘laboratorio’ di Dante, e vediamo da vicino, testo alla mano, come operi il poeta. La scelta è caduta su un episodio abbastanza stringato – si tratta di poche terzine, infinitesimali nell’economia dell’intero poema – ma secondo me assai esemplificativo del modus operandi dantesco.
Ci troviamo all’ingresso del basso inferno, alle porte della città di Dite, la sede del demonio, la Babilonia infernale con le sue «meschite» (Inf., VIII 70), di fronte ad un ostacolo che, in modo del tutto inaspettato, pare insormontabile. Dante e Virgilio, appena scesi dalla barca di Flegiàs, si rendono chiaramente conto che la situazione non è loro propizia. I diavoli, i «piovuti dal ciel» (Inf., VIII 83), guardiani delle mura della città, si oppongono vistosamente alla loro presenza e, di fatto, sbarrano loro il cammino. Anzi, sbattono letteralmente la porta in faccia al povero Virgilio, che avrebbe voluto protestare, secondo la consueta espressione, la ineluttabilità del viaggio e che invece torna sui passi, scornato e scosso.
Dante è spaventato e il suo duce, guida fin qui inappuntabile, appare quasi sconfitto.
Ed ecco che, in questo clima teso e assai drammatico, a complicare ulteriormente le cose appaiono, in cima alle mura, tre orrende figure: le Furie.
E altro disse, ma non l’ho a mente;
però che l’occhio m’avea tutto tratto
ver’ l’alta torre a la cima rovente,
dove in un punto furon dritte ratto
tre furie infernal di sangue tinte,
che membra feminine avieno e atto,
e con idre verdissime eran cinte;
serpentelli e ceraste avien per crine,
onde le fiere tempie erano avvinte.
E quei, che ben conobbe le meschine
de la regina de l’etterno pianto,
«Guarda», mi disse, «le feroci Erine.
Quest’è Megera dal sinistro canto;
quella che piange dal destro è Aletto;
Tesifón è nel mezzo»; e tacque a tanto.
Con l’unghie si fendea ciascuna il petto;
battiensi a palme, e gridavan sì alto,
ch’i’ mi strinsi al poeta per sospetto.
«Vegna Medusa: sì ’l farem di smalto»,
dicevan tutte riguardando in giuso;
«mal non vengiammo in Teseo l’assalto».
«Volgiti ’n dietro e tien lo viso chiuso;
ché se ’l Gorgón si mostra e tu ’l vedessi,
nulla sarebbe di tornar mai suso».
Così disse ’l maestro; ed elli stessi
mi volse, e non si tenne a le mie mani,
che con le sue ancor non mi chiudessi
(Inf., IX 34-60).
Richiamando l’ipotesto per eccellenza (Aen., VI), e andando a rileggere – dato che la nostra capacità di trattenere a memoria non è più quella degli antichi – la descrizione del vestibolo dell’Averno, si troverà lì seduta, custode insonne, avvolta in un mantello insanguinato, proprio Tisifone.
Tisiphoneque sedens, palla succinta cruenta,
vestibulum exsomnis servat noctesque diesque.
Hinc exaudiri gemitus et saeva sonare
verbera, tum stridor ferri tractaeque catenae
(Aen., VI 555-58) .
Nel riscrivere l’antecedente classico, Dante ricalca il ruolo di guardiana ed il particolare del sangue che macchia la veste della Furia virgiliana, ma sente il bisogno di richiamare, nominandole a una a una, tutte e tre le creature infernali. Non considererei questa una amplificatio, quanto piuttosto una preoccupazione di restituire un dettaglio erudito. Il poeta vuole fornire un’informazione compiuta, affinché il lettore, che non ha più la familiarità che avevano gli antichi con i loro classici, possa, tempestivamente provocato, recuperare in toto un dato storico-erudito, appartenente ad una cultura precedente. È un atteggiamento enciclopedico, questo, che è proprio di Dante e che non rimane mero atteggiamento mentale, bensì diventa misura narrativa: è il suo modo di raccontare. E nella prospettiva dell’enciclopedismo dantesco il dettaglio diventa essenziale, l’insistenza sul particolare diventa d’obbligo, anche se, naturalmente, si tratta di un’insistenza discreta, che in nulla intacca l’effetto drammatico della scena.
Ma andiamo oltre la patina virgiliana e scaviamo intorno a questo richiamo. Alcune terzine prima dell’apparizione delle Furie, Virgilio, nel tentativo di tranquillizzare il discepolo, aveva narrato di una sua precedente discesa negli abissi infernali, «congiurato da quell’Eritòn cruda / che richiamava l’ombre ai corpi sui» (Inf., IX 23-24).
La menzione di Eritòne è un dettaglio importante, in quanto la maga tessala è personaggio della Pharsalia di Lucano, testo assai importante e presente in filigrana in molta parte della Commedia dantesca.
Senza voler aprire un excursus in merito, mi limito a dire che il lettore che colga e accolga la provocazione al testo lucaneo e lo vada a cercare e lo rilegga si imbatterà in una descrizione a tinte fosche dell’effera Erichtho e, inoltre, troverà qualche altra traccia lasciata dalle nostre Furie.
Eumenides Stygiumque nefas Poenaeque nocentum
et Chaos innumeros avidum confundere mundos
et rector terrae [...]
(Phars., VI 695-97) .
Le Eumenidi aprono le danze nell’invocazione che la crudele Eritòne fa delle più oscure entità infernali: esse sono appellate «la manifestazione più empia del regno dell’oltretomba».
Non è un caso che le si ritrovi in Lucano come già in Virgilio, perché Dante non lascia nulla al caso: trovandosi a descrivere un luogo che è quello più orrido, la città di Dite, la vera sede del demonio, per lui è naturale scegliere proprio per quel luogo la custodia più tremenda, già utilizzata in questo ruolo da Virgilio e indicata da Lucano come la manifestazione in assoluto più diabolica dell’al di là pagano.
Ma le orme lasciate dalle Furie non si fermano qui.
Leggendo e rileggendo questo passaggio di Inf., IX balza agli occhi un particolare assai vivido: le serpi che fungono da chiome alle appunto anguicrinite schiave di Proserpina.
Alla luce di quanto affermato sinora, risulta evidente che, per la costruzione di questo episodio, alla memoria di Dante si sono riaffacciati sia Virgilio che Lucano: non è peregrino pensare che, all’orecchio esperto di Dante, possa essere stato ‘sussurrato’ qualche altro suggerimento.
Una cupa descrizione della feroce Erinni, infatti, si ritrova anche nel primo libro della Tebaide staziana. Edipo invoca proprio Tisifone, che non appena ne sente le parole, solleva il capo dalle sulfuree onde stigie, dove sta facendo abbeverare i serpenti che ha per crine e si precipita verso Tebe:
Centum illi stantes umbrabant ora cerastae,
turba minor diri capitis; sedet intus abactis
ferrea lux oculis, qualis per nubila Phoebes
Atracia rubet arte labor; suffusa veneno
tenditur ac sanie gliscit cutis; igneus atro
ore vapor, quo longa sitis morbique famesque
et populis mors una venit; riget horrida tergo
palla, et caerulei redeunt in pectora nodi:
Atropos hos atque ipsa novat Proserpina cultus.
Tum geminas quatit ira manus: haec igne rogali
fulgurat haec vivo manus aera verberat hydro
(Theb., I 103-13) .
Al v. 103, in posizione forte, in clausola, si legge cerastae ed il prelievo colpisce alquanto, dato che proprio il termine «ceraste» si legge a Inf., IX 41. Certo, potrebbe trattarsi di pura coincidenza, ma di accidenti e coincidenze in Dante se ne danno pochi: questo è un termine fortemente indiziato .
Azzardo l’ipotesi che, in un tempo in cui lo studio era assai più ‘mnemonico’ di quanto non lo sia oggi il nostro, in un’epoca in cui, non potendo possedere materialmente i libri e conseguentemente non potendo effettuare riscontri testuali, ogni lettura era finalizzata alla memorizzazione del testo letto, l’esametro staziano sia rimasto facilmente nella mente e nell’orecchio di Dante e che si sia riaffacciato a lui nel momento della descrizione delle tre furie infernali.
D’altronde, parliamo di un poeta – Stazio – che di certo occupa un posto importante nella rosa di autori di riferimento dell’Alighieri, un autore cui Dante ha tributato un posto speciale, potremmo dire, nella sua opera: pur nato «nel tempo de li dei falsi e bugiardi» (Inf., I 72) è stato salvato, cristianamente parlando .
Senza soffermarsi eccessivamente sulla sua figura , possiamo semplicemente dire che di certo egli ha avuto una grande importanza per Dante, dato il trattamento riservatogli, e che di certo le sue opere, la Tebaide e l’Achilleide (Dante non conosceva le Silvae), sono state ben presenti all’autore durante la composizione della Commedia.
Ma c’è un altro testo capitale per Dante, che capitale sarà per tutta la nostra storia letteraria: mi riferisco alle Metamorfosi ovidiane.
Nel IV Libro ritroviamo le «feroci Erine» (Inf., IX 45), colte nell’atto di «pettinarsi le nere serpi giù dai capelli», sedute davanti alle porte del carcere infernale, ancora una volta guardiane dell’oltretomba:
Nocte vocat genitas, grave et inplacabile numen:
carceris ante fores clausas adamante sedebant
deque suis atros pectebant crinibus angues
(Met., IV 452-54) .
Tisifone ci appare in tutto il suo orrore, avvolta in un mantello rosso che gronda sangue, con un serpente che le cinge la vita:
Nec mora, Tisiphone madefactam sanguine sumit
inportuna facem, fluidoque cruore rubentem
induitur pallam, tortoque incingitur angue
egrediturque domo
(Met., IV 481-84) .
Impressionante la descrizione: la Furia agita la chioma fatta di serpi, che sibilano, crepitano, le scivolano in parte sul petto in parte sulle spalle, vomitando saliva putrida e facendo saettare le lingue biforcute. Davvero atterrisce, spaventa, paralizza la mente: un’apparizione che porta alla follia.
obstitit infelix aditumque obsedit Erinys,
nexaque vipereis distendens bracchia nodis
caesariem excussit: motae sonuere colubrae,
parsque iacent umeris, pars circum pectora lapsae
sibila dant saniemque vomunt linguisque coruscant
(Met., IV 490-94) .
Dante ci restituisce una rappresentazione delle tre Furie viva, di profondo impatto, altamente drammatica: chi avesse bisogno di ulteriori particolari orridi, può andare a consultare i poeti latini di cui il nostro è debitore. Certo l’episodio dantesco ha un notevole valore scenografico, accresciuto da un preciso particolare coloristico: quel verde al grado superlativo delle idre, che spicca in posizione contrastiva con il rosso del sangue di cui le orride creature appaiono imbrattate; un dettaglio cromatico particolare e particolarmente carico dal punto di vista simbolico, che connota quella tragica e grottesca parodia della speranza che, a questo punto del viaggio, è rappresentata propriamente dalle Furie.
In poche terzine, quindi, risalendo alle fonti e rileggendole con pazienza e attenzione, è stato possibile riconoscere e sottolineare la compresenza di quattro grandi poeti latini, in una sorta di sovrapposizione, di stratificazione, di corto circuito della memoria classica che connota molte parti dell’opera dantesca. È stato un percorso a ritroso nella fucina dell’artista che ha permesso di individuare con precisione e di identificare senza errore gli ingredienti alla base di un episodio così breve in sé eppur così denso e così ‘materiato’ di reminiscenze classiche, che Dante utilizza piegandole ad una nuova scrittura e ad un nuovo significato.
Passiamo ora dal testo (la Commedia) al metatesto (i commenti). I commenti possono anch’essi essere considerati delle riscritture. Forse meno ‘nobili’, forse non sempre giudiziosamente orchestrate, magari non pienamente condivisibili. Ma rimangono una forma di riscrittura che ha una certa importanza, dato che preziosi si rivelano per l’intelligenza del testo di riferimento.
I testi antichi sono quelli più frequentemente e riccamente accompagnati dai commenti, in quanto la distanza cronologica (e magari anche geografica) tra emittente e ricevente necessita di essere colmata. Meglio ancora sarebbe parlare di «distanza epistemica» , per comprendere oltre alla distanza cronogeografica anche quella, assai importante e difficoltosa da valutare, culturale.
Quando uno scrittore crea, opera un’analisi della realtà, la sua realtà, a lui contemporanea, e fa poi confluire tale analisi in una sintesi rappresentata dal testo creato.
Il commento deve percorrere la strada in senso inverso, cogliendo cioè la sintesi e superando il filtro da essa rappresentato per poi restituire almeno qualche momento dell’analisi che è all’origine dell’atto di creazione del testo.
Un percorso, questo, ancora più necessario quando si abbia a che fare con testi redatti centinaia e centinaia di anni fa, in un momento storico così lontano e appartenenti ad una cultura così diversa, ormai, dalla nostra e così fortemente caratterizzata e caratterizzante, proprio come nel caso di Dante.
Come metatesto esemplare, ho scelto quello di uno tra i migliori primi esegeti della Commedia: Guido da Pisa.
Guido, frate carmelitano, vissuto tra Due e Trecento, uomo di chiesa, assai colto, elegante, acuto, ci ha lasciato un commento saldamente strutturato ed articolato della cantica infernale.
Per ogni canto abbiamo un capitolo in cui troviamo una breve esposizione dell’argomento, magari con l’indicazione della divisione interna in parti; poi si legge la deductio textus de vulgari in latino, che non è una vera e propria traduzione bensì un’ampia parafrasi, una prosaicizzazione che è al contempo una trasposizione linguistica, insomma. Dopo di ciò, l’autore si dedica alla expositio lictere: e qui Guido fa sfoggio della sua cultura risolvendo puntualmente e con dovizia di particolari i principali problemi interpretativi. A chiusura, ma non sempre, si può trovare un apparato dedicato ad arricchire ulteriormente il commento, composto di notabilia, comparationes e vaticinia.
La prima osservazione di carattere generale che si possa fare è che mentre Dante tende a sintetizzare e compendiare le sue fonti in una riscrittura densa e pregna, i commenti, per loro stesso statuto, tendono invece ad ampliare: nel caso specifico, per 133 versi ci sono 14 pagine di fitta stampa (mi riferisco all’edizione citata, a cura di Vincenzo Cioffari, l’unica al momento disponibile).
Mi tornano alla mente alcune osservazioni continiane in merito al commento moderno , osservazioni in cui lo studioso sottolineava la necessità di sobrietà e di gusto, di una certa razionalità, di un principio di economia, insomma, che informasse l’apparato esegetico, al fine di offrire al lettore un sussidio, un incentivo, uno stimolo alla lettura del testo: mi sono chiesta se un simile discorso possa essere applicabile anche a un testo come le Expositiones, ma il concetto di economia come ‘parsimonia’ non mi è parso funzionare granché. Per una motivazione semplice: quel testo obbedisce a ‘leggi economiche’, se così vogliamo definirle, decisamente diverse.
Per prima cosa, il commento è redatto in latino, la lingua dei dotti: bizzarro da capire per noi, ma la traduzione del testo dantesco, il passaggio dall’una all’altra lingua, è un passaggio che abbassa il livello del testo, con l’intenzione di renderlo maggiormente comprensibile. In questo caso, inoltre, la trasposizione linguistica avviene in contemporanea con la prosaicizzazione del testo di partenza, con la sua ‘riduzione’ in un’ampia parafrasi, una ‘riduzione’ che finisce per diventare una amplificazione della fonte originaria. L’espansione è ottenuta o semplicemente conseguita con una moltiplicazione di particolari, con inserimenti metadiegetici che allargano il testo iniziale e ne svelano e rivelano la struttura di fondo. Si tratta di episodi estranei alla linea di base del soggetto iniziale, ma che permettono di allargarlo e di specificarlo, di riferimenti che rendono maggiormente intelligibile l’‘enciclopedia’ dello scrittore che presumibilmente ingloba elementi ignoti ad un lettore medio. All’interno di questa casistica va inserita anche la individuazione delle fonti, il riconoscimento e la segnalazione delle intertestualità.
Eventuali ulteriori interventi, definibili come extradiegetici, sono finalizzati a chiarificare ulteriormente il testo di partenza, ma a chiarirlo secondo il sistema di valori del commentatore stesso.
La mia scelta non è caduta a caso su un commento trecentesco, nato quindi nella stessa temperie culturale del testo di riferimento. Come non a caso ho scelto un esegeta che fu, oltre che un grande intellettuale, anche e soprattutto un uomo di Chiesa. E la casualità poco ha a che fare con la decisione di analizzare un episodio assai circoscritto ma profondamente impregnato di riferimenti alle fonti classiche.
Mi rendo conto che il discorso sembra farsi contorto, ma cercherò di chiarirlo con una digressione di natura storico-culturale.
Al tempo in cui Dante scrive si è già concluso il processo di assimilazione, graduale e calibrata, del mondo classico da parte della cultura medioevale ufficiale, quella del Cristianesimo.
Si è trattato di un processo lungo e controverso, cominciato al tempo dell’Apologetica e della Patristica con protagonisti come Ambrogio, Girolamo, Agostino, inizialmente caratterizzato da interessi ‘grammaticali’ e proseguito a fasi alterne con intenti più libreschi ed eruditi nei secoli VIII e IX, con la Rinascita Carolingia, e giunto poi a più complessa maturazione ed articolazione nei secoli seguenti, e che ha permesso di trovare la giusta formula per una difficile convivenza tra due culture così innegabilmente diverse tra loro.
La Rivelazione realizzata dall’incarnazione di Cristo costituiva per l’ideologia cristiana una vera e propria frattura nella storia dell’umanità: prima di essa non vi erano che tenebre e peccato. Solo dopo la venuta di Cristo comincia la vera storia dell’uomo, quella della sua salvazione.
È ovvio che il primissimo atteggiamento del Cristianesimo di fronte al mondo classico sia stato di antitesi e di polemica contro il paganesimo e contro tutta la sua cultura.
Tuttavia, superato questo primo momento di rifiuto in nome dell’ideologia cristiana che opponeva valori a valori, cristianesimo a paganesimo, con uno scontro radicale dal quale uscivano sconfitti i grandi classici ed i moralisti del pensiero antico, perché macchiati della colpa dell’essere comunque pagani, già a partire dal IV secolo con Lattanzio e poi più decisamente con Agostino comincia ad urgere il bisogno di conservare una tradizione di pensiero e di confrontarsi con la grande poesia e filosofia classica, anche per differenziarsene. E questo bisogno ha la meglio sulla fiera contrapposizione dei secoli precedenti .
In questo processo fondamentale fu l’azione di Agostino che, introducendo il concetto di ‘provvidenzialità’ nella storia e tentando, grazie ad esso, una nuova interpretazione della storia romana e della cultura classica, creò l’accessus per la cultura cristiana a quegli autori pagani in cui si scorgevano in stato embrionale i principi della nuova religione, non chiari perché mancanti della illuminazione della Rivelazione. Insomma, si era trovato il modo di adattare alle contemporanee esigenze cristiane l’antico mondo classico, ottenendo così un canone di auctores alla cui auctoritas rifarsi con citazioni, allusioni, commenti o anche opporsi con riletture e revisioni .
È in questo clima che Dante scrive la Commedia. Ed è in questo clima che vive e opera Guido, dimostrando una profonda conoscenza tanto degli auctores classici quanto delle Sacre Scritture.
Ma per capire come si intersechino queste due culture nella mente e nel commento guidiani, è necessario leggere direttamente il testo .
Tractaturus autor de sexto circulo, in quo heretica pravitas est sepulta, primo ponit tres infernales Furias se vidisse eiulantes, flentes, et alta voce Medusam vocantes. Ad quorum omnium notitiam est notandum quod iste tres Furie gerunt typum et figuram heretice pravitatis.
Nella parafrasi delle terzine relative all’apparizione delle Furie, Guido da subito collega le tre creature infernali all’eresia punita di lì a poco nel poema, mostrando una preoccupazione di tipo allegorico: Aletto è la prava cogitatio, Tisifone la prava elocutio e Megera la prava operatio. Ma la preoccupazione di tipo allegorico la possiamo ritenere condivisa pressoché da tutti i commentatori preumanisitici, proprio in virtù di quanto sopra affermato.
Ma, a testimonianza della sua vasta cultura, Guido opera continui richiami, all’interno della sua expositio, che rimbalzano dalla cultura pagana a quella squisitamente cristiana, con citazioni tratte dai Vangeli, da Giobbe o dal Libro dei Re per passare con nonchalance a citazioni di Ovidio e Lucano e per richiamare infine Isidoro e le sue Ethymologiae, che avalla, proprio in relazione alla figura delle Furie, un’interpretazione allegorica delle tartaree sorelle:
Et de istis tribus furiis ait beatus Ysidorus, VIII° libro Ethymologiarum {Etym. VIII. ii. 95}: Aiunt pagani tres furias crinitas serpentibus, propter tres effectus qui in animis hominum multas perturbationes gignunt: ira, que vindictam cupit; cupiditas, que desiderat opes; libido, que appetit voluptates. Que ideo furie appellantur, eo quod stimulis suis mentem feriant et quietam esse non sinant. Et secundum istam intentionem non referuntur iste furie solum ad hereticos, ut in superiori expositione patet, sed etiam ad omnes universaliter peccatores, qui istis passionibus tanquam furiis agitantur. Sed autor videtur primam intentionem habuisse ex quo ipsas Furias collocat in meniis civitatis, ubi stant heretici tumulati, ac etiam propter interpretationes tam in diffinitionibus quam in versibus superius assignatas.
Quando Guido si accinge a commentare i particolari della descrizione delle mostruose sorelle, quei particolari che sono stati precedentemente sottolineati come indicativi di una sovrapposizione della memoria classica nella riscrittura dell’episodio, egli identifica con precisione le fonti classiche, espandendo i riferimenti anche ad autori che non sono da me stati menzionati ma che non posso negare abbiano fatto parte di quella che ho definito ‘enciclopedia’ dantesca:
Serpentelli ceraste aven per crine . Cerastes est serpens parvus et cornutus, et dicitur a ceros, quod est «cornu». De quibus cerastibus illud idem sentit Statius ubi loquitur de Thesiphone, primo libro Thebaydos, dicens: Centum illi stantes umbrabant hora ceraste {Theb. I. 103}. Et Seneca, primo libro Tragediarum: Seva Thesyphone caput / vallata serpentibus {Hercules Furens 984-985}. Et Claudianus libro primo, ubi loquitur de Alecto {In Rufinum I. 41-43}, ait: Alecto stetit in mediis vulgusque tacere iussit, et obstantes integrum repulit angues; perque humeros errare dedit. Et eodem libro, ubi loquitur de Megera {In Rufinum I. 118} ait: Illa ubi ceruleo crines connexuit angue. Et signant isti serpentes cornuti venenosam hereticorum nequitiam, qua tanquam cornibus inpugnant agnitam veritatem.
Il richiamo a Stazio è preciso e puntuale. Non viene richiamato Lucano in questo caso specifico, ma più e più volte è stato citato nell’ambito di questo capitolo. E non è ricordato neanche Virgilio, ma l’importanza dell’autore dell’Eneide non è per questo sminuita né disconosciuta: egli è presente, al fianco di Dante viator, nella discesa della voragine infernale e poi nell’ascesa della montagna purgatoriale, come accanto a Dante auctor, nel suo scriptorium, nella stesura del suo poema, pagina dopo pagina. Una presenza talmente chiara e patente da divenire – come dicevo all’inizio – un po’ scontata, sia per noi sia per il commentatore pisano. In più, invece, si legge una citazione di Seneca tragico, con l’Hercules Furens e un riferimento a Claudiano dell’In Rufinum .
Mi si consenta un’ultima osservazione.
Se si va a leggere il breve ma denso Prologus che Guido premette alle sue Expositiones, si evince una chiara anche se non dichiarata conoscenza della Epistola a Cangrande. Chiunque conosca l’Ep. XIII non faticherà ad identificare l’origine della seguente affermazione:
Circa primum nota quod subiectum huius operis est duplex, scilicet licterale et allegoricum. Si enim accipiatur licteraliter, dico quod subiectum huius operis est status animarum post mortem simpliciter sumptus […].
Nell’Epistola si legge:
Est ergo subiectum totius operis, litteraliter tantum accepti, status animarum post mortem simpliciter sumptus. Nam de illo et circa illum totius operis versatur processus (Ep., XIII 24).
Altrettanto facilmente un lettore accorto potrà ascrivere all’Epistola la dottrina dei quattro sensi (letterale, «che sempre dee andare innanzi»; allegorico, «la veritade ascosa sotto bella menzogna»; morale, da cercare nelle scritture per l’insegnamento ai discepoli, e l’anagogico o sovrasenso, relativo «alle superne cose de l’etternal gloria») che Guido enuncia sempre nel Prologus, che è poi quella che si può leggere nel secondo trattato del Convivio dantesco :
[…] est sciendum quod ista Comedia continet quatuor sensus, quemadmodum et scientia sacre theologie. Currit enim in hoc poesia cum theologia, quia utraque scientia quadrupliciter potest exponi; imo ab antiquis doctoribus ponitur poesia in numero theologie. […] Primus namque intellectus sive sensus quem continet Comedia dicitur hystoricus, secundus allegoricus, tertius tropologicus, quartus vero et ultimus dicitur anagogicus. Primus dico intellectus est hystoricus. Iste intellectus non se extendit nisi ad licteram, sicut quando accipimus Minoem iudicem et assessorem Inferni, qui diiudicat animas descendentes. Secundus intellectus est allegoricus, per quem intelligo quod lictera sive hystoria unum significat in cortice et aliud in medulla; et secundum istum intellectum allegoricum, Minoes tenet figuram divine iustitie. Tertius intellectus est tropologicus sive moralis, per quem intelligo quomodo me ipsum debeo iudicare. Et secundum istum intellectum, Minos tenet figuram rationis humane, que debet regere totum hominem, sive remorsus conscientie, qui debet malefacta corrigere. Quartus vero et ultimus intellectus est anagogicus, per quem sperare debeo digna recipere pro commissis; et secundum istum intellectum Minos tenet figuram spei, qua mediante penam pro peccatis et gloriam pro virtutibus sperare debemus. De illis autem personis quas ibi ponit hoc accipe, quod non debemus credere eos ibi esse, sed exemplariter intelligere quod, cum ipse tractat de aliquo vitio, ut melius illud vitium intelligamus, aliquem hominem qui multum illo vitio plenus fuit, in exemplum adducit .
Mi pare fuor di dubbio che, alla luce di quanto esposto, una siffatta lettura della Commedia prevedibilmente avrebbe portato ad una amplificazione del testo di partenza, con richiami, rimandi, spiegazioni, etimologie (magari alle volte bizzarre), considerazioni di varia natura. E di fatto così è stato.
Il frate pisano ci ha tramandato una riscrittura dell’Inferno dantesco ricca e variegata, preziosa all’epoca ma ancora più preziosa oggi per noi moderni, che abbiamo ormai perso familiarità con quel patrimonio culturale medioevale così particolare, così composito, così anche – alle volte – contraddittorio. E soprattutto il grande merito che si può e si deve ascrivere a Guido è l’aver riconosciuto in Dante il rinnovatore della poesia classica e l’aver messo grande impegno nel leggerlo proprio con la scorta dei classici, suggerendo così a noi un metodo di lettura che ha permesso di svelare il sostrato su cui il pensiero moderno dantesco, ricco e vitale, si è inserito, ammantandosi di forme proprie del passato e creando un ponte di continuità tra il nuovo mondo e l’antico. Anzi, superandolo.