Dati bibliografici
Autore: Giorgio Padoan
Tratto da: Enciclopedia Dantesca. Vol. III
Editore: Treccani, Roma
Anno: 1970
Pagine: 78-79
Aletto, Megera e Tisifone (in D. Tesifón, dn), sarebbero nate dal sangue di Urano, quando il dio fu mutilato dal figlio Crono. Erano considerate dai Greci dee della vendetta, perseguitanti incessantemente, togliendo ogni pace, coloro che si fossero macchiati di omicidio (essendo esse evidentemente la personificazione mitologica del rimorso); ma quando il colpevole otteneva dagli dei la purificazione, le Erinni divenivano Eumenidi (cioè benevole).
D., in If IX 38, le designa come furie; e subito dopo, per bocca di Virgilio, come Erine (v. 45).
Nei poeti latini più familiari a D. (quelli che perciò qui più interessano) le Erinni perdono quasi il loro carattere di spietate vendicatrici per assumere dichiaratamente la funzione di dee della discordia, che aizzano gli uomini alle guerre e spingono alla follia omicida: le Furiae appunto (il nome latino è loro attribuito accanto al greco, senza distinzione), figlie della Notte, dall'aspetto orrendo e anguicrinite, la cui sede, in quanto forze distruggitrici e nemiche dell'uomo, è il Tartaro. Virgilio descrive Tisifone su una torre delle mura tartaree (Aen. VI 554-556) assegnandole il compito di flagellatrice dei rei (vv. 571-572), e Ovidio (Met. IV 453-454) pone le tre F. alle porte di ferro del carcere infernale: collocazione che ha indubbiamente influito sulla fantasia dantesca; tanto più che Virgilio sembrò collegarle anche allo Stige appellando quel fiume infernale ‘amnis severus / Eumenidum’ (Aen. VI 374-375; e cfr. Phars. VI 733, dove le F. sono dette "Stygiae canes"; tali appellativi, naturalmente, sono in realtà generici per indicare l'Averno in generale). Quando escono dalle sedi infere (per lo più su richiesta di Giunone e in forma di mostri alati), le F. seminano l'odio e il sangue tra gli uomini (cfr. Aen.II 337). La più terribile pare essere, sulla scorta di Aen. VII 323-571, Aletto, "cui tristia bella / iraeque insidiaeque et crimina noxia cordia": talmente malefica da essere in odio persino a Plutone e alle sue stesse sorelle; è Aletto che con le sue arti malvage, seminando sospetti, ire, desideri di vendetta, spinge gli Italici alla guerra contro i Troiani. E Tisifone nel racconto ovidiano instilla nella mente di Atamante la follia che lo porta a uccidere la moglie e i figlioletti (cfr. Met. IV 447-511). Megera invece è priva di una precisa caratterizzazione, e appare sfuocata rispetto alle altre due sorelle: che Virgilio appunto abbina (col nome di "Dirae": cfr. Aen. XII 845 ss.) attribuendo loro il compito di spargere il terrore durante guerre e pestilenze.
D. fa comparire le feroci Erine d'un tratto ritte sull'alta torre delle mura che separano lo Stige dalla città di Dite (If IX 37-54): femmine sozze di sangue (cfr. Aen. VI 555, Met. IV 481-484), dalle membra pullulanti di idre (cfr. Aen. VII 329 e 447, Met. IV 490-494), con serpentelli e ceraste al posto dei capelli (cfr. Aen. VII 346-347 e 450, Met. IV 454, Theb. I 103-104, 115, ecc.), in preda a furibonda ira si battono con le palme delle mani e si graffiano fieramente il petto (cfr. Aen. VI 555, Met. IV 483-484 e soprattutto Theb. 1103-113); la "luctifica" (Aen. VII 324) Aletto piange di rabbia. La presentazione dunque segue assai dappresso le descrizioni dei poeti latini: e tuttavia in D. la scena riesce particolarmente viva, ricca di vigore drammatico e di valore scenografico (si pensi a quel vivido opporsi coloristico delle idre verdissime al sangue di cui le F. sono insozzate, e a quella torre rovente che spicca sullo sfondo infernale). Nel tentativo di atterrire D. e di distoglierlo dal suo viaggio esse gridano forsennatamente (cfr. Aen. VI 572, Theb. II 52-53) invocando minacciosamente l'intervento di Medusa e recriminando che sia rimasta invendicata l'offesa recata all'Inferno da Teseo (cioè, con linguaggio figurale, Cristo; v. ERCOLE; TESEO).
È assai discussa la funzione delle F. nella struttura dell'Inferno dantesco, se esse presiedano al cerchio quinto (cioè agl'iracondi tuffati nello Stige) o al sesto (cioè agli eretici). Il poeta si limita a dichiararle meschine / de la regina de l'etterno pianto, cioè serve di Proserpina (intendendo evidentemente in quella Giunone, che nei poemi latini richiede sovente i loro servigi, "Iuno infera", cioè appunto la "regina Erebi" Ecate-Proserpina: cfr. Aen. VI 397, Met. V 543, Theb. I 85, ecc.), la donna che qui regge ricordata da Farinata (If X 80). Si noti che nella Farsalia Erittone minaccia di venirle a scovare tra le tombe e i sepolcreti (cfr. Phars. VI 734-735). In realtà non pare che le F. dantesche assolvano a una funzione precisa (e però per la venuta del messo, che ha fatto fuggire tutti i demoni, la situazione è particolare: nessun guardia face, If X 9): piuttosto esse sono presentate come aralde di Medusa, che è il simbolo dell'ostinazione eretica, e se assumono un qualche significato allegorico esso dovrà essere ricondotto a questo preciso dato di fatto. Invero l'esegesi secolare si è sbizzarrita alla ricerca di significati riposti; chi, come lo Scartazzini, vi vuole raffigurata la mala coscienza (il Marcazzan precisa: i rimorsi della coscienza), pensando forse alle Erinni greche; chi, come il Pascoli, la triplice malizia (con forza, con frode, con tradimento); chi ancora, come il Fornaciari, l'invidia. È una selva selvaggia d'interpretazioni, che per lo più rimangono però esterne alla lettera e allo spirito del testo dantesco. Tra le spiegazioni dei commentatori trecenteschi, più vicini alla cultura cui D. attinse, l'interpretazione più consentanea alla descrizione dantesca e al valore simbolico del Gorgone è avanzata da Iacopo Alighieri (e ripresa da Pietro e dall'Ottimo): Aletto è la "prava cogitatio", Tisifone la "prava elocutio", Megera la "prava operatio", preludenti all'eresia. Comunque, questa o altra interpretazione ben poco aggiunge al drammatico episodio in cui le F. appaiono e alla viva rappresentazione di queste terribili e paurose personificazioni del male: il cui significato generale, ben chiaro nella lettera, non ha bisogno di "oscura glosa" allegorica.
G. Pascoli, La mirabile visione, in Prose, II, Milano 1952, 1283-1285; S. Santangelo, L'allegoria del c. IX dell'Inferno, in " Siculorum Gymnasium " IV (1951) 159-165 (rist. in Saggi danteschi, Padova 1959, 143-149); M. Marcazzan, Il canto delle Furie, in " Humanitas " VII (1952) 1131-1145 (rist. in Lett. dant. 153-172); L. Pietrobono, Il C. IX dell'Inferno, in " Responsabilità del Sapere " XI (1957) 185-200 (rist. Torino 1959).