Dati bibliografici
Autore: Antonio Cesari
Tratto da: Bellezze della Commedia di Dante Alighieri. Tomo I
Editore: Salerno, Roma
Anno: 2003
Pagine: 187-202
[...]
Rosa M. [230] Non so io, che cosa facessi mai bravamente. Tuttavia dirò. Li tre primi versi di questo canto rx riprovano ciò che io toccai di sopra: cioè che per essere ivi il concetto spresso in parole ricise, e strettamente aggiustategli addosso, riesce oscuro a’ più de’ lettori. Vuol dir il poeta che Virgilio, veggendo al pallore del volto l’animo di Dante invilito, per non iscoraggiarlo via più, restrinse, cioè ritirò dentro (più presto, che non avrebbe fatto senza questa ragione) il colore novellamente mandatogli in viso dalla mestizia e dall'ira, rasserenando il suo aspetto. [231] Ora l’azione di questo che dissi, Dante la dà figuratamente al colore della sua pallidezza; sebbene questa non fu altro che motivo a Virgilio di fare quello che fece. Così, fia piano ogni cosa. Ecco:
[1-3] [232]
Quel color, che viltà di fuor mi pinse,
veggendo il duca mio tornare in volta,
più tosto dentro il suo nuovo ristrinse.
Or siamo alla pittura pit espressiva che uomo facesse mai. Virgilio avea, come dissi di sopra, promesso a Dante, che un cotale sarebbe di corto venuto al loro aiuto. Adunque;
[4-6] [233]
Attento si fermò; com’uom che ascolta;
che l’occhio nol potea menare a lunga,
per l’aer nero e per la nebbia folta.
[234] Qui tutto si vede: il fermarsi, per sentire se nulla gli veniva agli orecchi; lo stare attento (e questo è l’atto del por mente ad una cosa; il che appare all’atto della bocca e degli occhi): finalmente, com'uom che ascolta: cioè, porgendo la persona e l’orecchio a quella tal parte, che si dice «origliare», ovvero «stare in orecchi».
Zev. [235] Bella eleganza ha la lingua latina, in dir questo medesimo. Ecco: Catul., Carm. LX: «Te (Hymen) cupida novus / captat aure maritus». Di qua tolse Plauto, a formar quell’altro bizzarro suo modo: «Viden’ tu illam oculis venaturam facere, atque aucupium auribus?» (Mil. glor., IV I).
Rosa M. [236] Così è: ciascuna lingua ha bellezze sue proprie di natii parlari. Dice che s’aiutava così con l’orecchie, perché la nebbia e ’l buio non gli lasciava oprar gli occhi a vedere lontano. Or come è espresso questo concetto? Che l'occhio non potea menare a lunga. Di sopra avea detto, che gli occhi gli «erano andati» alla cima della torre: e qui gli occhi non peteano menarlo. Vedi vaghezza di locuzione, e varietà mirabile! Che certo, avendo Dante dovuto infinite volte dir questa cosa del guardare checchessia, il disse sempre in modi e guise diverse. [237] Or quanto al menare degli occhi, ella è vaga forma, e tuttavia non esce della natura: perché in fatti, quando noi veggiamo alcuna cosa lontana, egli è come un toccarla, od un aggiugnerla con l'occhio. Or questo mostra che non possa avvenire altramenti, se non o venendo l’oggetto a noi, ovvero andando noi a lui; e certo noi l’immaginiamo cosi. Ed ecco donde venga questa figura dell’andare degli occhi, o del menare che gli occhi fanno la persona che guarda, all'oggetto. Ma il forte del quadro è ne’ tre versi che seguono.
[7-9] [238]
«Pure a noi converrà vincer la punga»,
cominciò ei: «se non... tal ne s’offerse...
Oh quanto tarda a me, ch’altri qui giunga!».
[239] La figura di queste due reticenze espresse nel punteggiare, scioglie il nodo, che parea aggroppare questo concetto. Stando Virgilio così origliando, come detto è, e non sentendo anche nulla, esce seco in questo parlare: ‘Certo noi abbiamo a vincere questa prova: se già non fossimo ingannati. Ma e’ non può essere: tal persona ci si offerse per soccorso, e sì leale, qual fu Beatrice, o Dio (che è il medesimo che sopra avea detto: «il nostro passo / non ci può tòrre alcun: da tal n'è dato»). Ma ben è una morte questo non venir mai chi s’aspetta’. Ecco netto ogni cosa, e bellissimo. [240] Quanto al punga per «pugna», egli è voce antica ed usatissima. Il Villani l’ha spesso adoperata ed è il solito tramutamento di lettere come da «pungere» in «pugnere».
E forse il «punga» era il proprio, mutato poi in «pugna», per più dolce pronunzia.
Zev. [241] Quel vostro comentator da Siena difende qui Dante del punga, per «pugna», affermando esser voce che ha di molti esempi eziandio fuori del verso; «a confusion (soggiugne) di chi ha scritto, sbeffando Dante male a proposito; questa è padronanza di rima!». Voi dunque, Filippo, farete di dire a lui medesimo che questa sferzata che dà agli schernitori di Dante la riservi per sé tutte quelle volte, che egli così prosontuosamente si fa beffe e staffila il nostro poeta.
Rosa M. [242] Io gli farò bene il dovere al bisogno, siccome ho fatto. Ma quel tarda, cosî neutro, che bell’uso ha egli! E risponde ad ‘un’ora mi si fa mille anni’; ovvero: ‘parmi un secolo’. L’avea usato anche al canto XXI: «Allor mi volsi, come l’uom, cui tarda / di veder quel che gli convien fuggire».
Zev. [243] Mai, frate sì, che voi siete conventato, cioè dottorato in Dante, del quale io con le mie mani vi «corono e mitrio» (Dante, Purg., XXVII 142). Ma or, che direte, Filippo, che già è nato uno, il quale di questa vostra bellissima e verissima sposizione di questo luogo di Dante, ha stampato; che voi solo de’ molti comentatori meritate lode, per la vostra piuttosto ingegnosa spiegazione, che vera?
Rosa. M. [244] Affé sì, io merito molta di lode, se la spiegazion mia non è vera, comeché ella sia però ingegnosa!
Torel. [245] Lasciatevi dire, che ne volete? Il mondo non può esser ingannato: e se gli uomini per qualche tempo si lasciano, o dal favore, o dall’autorità abbacinare e aggirare, la verità però viene a galla. E’ s'è veduto questa cosa così mille volte come una, e non falla mai. Ma che facciam, noi oggi? Noi siamo oggimai in questo ragionar nostro da forse due ore, e parmi di riposarci: e tuttavia non vogliamo uscire di qua, che non abbiamo veduto venir quel cotale, che cavi i due poeti da questo impedimento, secondo la promession di Virgilio. Egli è dunque da studiar il passo, e venire al quia.
Zev. [246] Deh sì, ch'io ne muoio. Voi vedete qui Dante, che avendo frantesi quelli smozzicamenti della sentenza di Virgilio, e le sue parole tratte a peggior sentenza ch’e’ non tenne, per assicurarsi meglio del suo timore, e che Virgilio l’avria cavato da quel tristo passo, dimanda copertamente al suo duc, se egli sia mai altra volta stato a quel viaggio che erano; ed egli risponde, che sì, un’altra volta: «Ben so ’l cammin: però ti fa sicuro»: cioè ‘ti rassicura’. Qui appariscono le tre furie, Megera, Aletto, Tesifone...
Rosa M. [247] Questi versi non sono (perdonimi vossignoria) da passar così a motto, che è troppo risentito quadro; e ci giovi almen recitarli:
[10-35]
Io vidi ben, sì com'ei ricoperse
lo cominciar con l’altro che poi venne;
che fur parole alle prime diverse.
Ma nondimen paura il suo dir dienne,
perch’io traeva la parola tronca
forse a peggior sentenzia, ch'e’ non tenne.
«In questo fondo della trista conca
discende mai alcun del primo grado,
che sol per pena ha la speranza cionca?».
Questa question fecio: e quei: «Di rado
incontra», mi rispose, «che di nui
faccia ‘l cammino alcun, per quale i’ vado.
Ver è, ch’altra fiata quaggiù fui
congiurato da quella Eriton cruda,
che richiamava l’ombre a’ corpi sui.
Di poco era di me la carne nuda;
ch’ella mi fece ’ntrar dentro a quel muro,
per trarne un spirto del cerchio di Giuda.
Quell’è ‘l più basso luogo e ’l più oscuro,
e ‘l più lontan dal ciel che tutto gira.
Ben so ‘l cammin: però ti fa sicuro.
Questa palude che ’l gran puzzo spira,
cinge d'intorno la città dolente,
u’ non potemo entrare omai senz'ira» ['senza venire comechessia all’armi con questi maladetti].
Ed altro disse, ma non l'ho a mente:
perché l’occhio m’avea tutto tratto
(modo simile a quel di sopra: «che l’occhio nol potea menare a lunga»)
[36-39]
ver’ l'alta torre, a la cima rovente:
ove in un punto vidi dritte ratto
tre furie infernal di sangue tinte,
che membra femminili aveano ed atto
(questo atto, sono ‘i reggimenti’, o ‘l’atteggiarsi):
[40-42] [253]
e con idre verdissime eran cinte;
serpentelli e ceraste avean per crine,
onde le fiere tempie erano avvinte.
Che pennelleggiar di forte e paurosa pittura! Per poco te ne senti un gielo nel corpo.
[43] [254]
E quei, che ben conobbe le meschine
(‘ancelle’: voce della Fiandra, dice il Mazzoni. «Meschini», nomina Dante altra volta i diavoli servigiali: Inf., XXVII 115)
[44-51]
della regina dell’eterno pianto;
«Guarda», mi disse, «le feroci Erine.
Quest’è Megera dal sinistro canto:
quella che piange dal destro è Aletto:
Tesifone è nel mezzo »; e tacque a tanto.
[255] Con l’unghie si fendea ciascuna il petto;
batteansi a palme; e gridavan sì alto,
ch’io mi strinsi al poeta per sospetto [‘mi raccostaI’].
Tutti questi tocchi vibrati cercano il sangue.
[52-53] [256]
«Venga Medusa; si ’l farem di smalto»,
dicevan tutte riguardando in giuso.
Questo guardar giù facea intendere a Dante, che parlavan di lui.
[54]
«Mal non vengiammo in Teseo l'assalto».
[257] Questo cenno così riciso alla favola di Teseo è tutto appropriato all'ira feroce delle Furie: e volean dire: ‘Mal facemmo a non vendicarci di Teseo, facendo a lui pagare l’oltraggio a noi fatto da Ercole, che lo trasse d'inferno!’. (Bello quell’in Teseo, per ‘sopra Teseo’!). ‘Che a baldanza di esso, cotestui è or venuto vivo quaggiù. Almeno facciamlo di pietra, mostrandogli il Gorgone’.
[55] [258]
«Volgiti indietro, e tien lo viso chiuso.
Bello questo uscire exabrupto, che Dante fa fare a Virgilio, senza dir prima: «Disse il maestro»! per far intendere lo studio affettuoso di campar Dante di pericolo, lasciando i preamboli.
[56-57]
Che se il Gorgon si mostra e tu ‘l vedessi,
nulla sarebbe del tornar mai suso».
Torel. [259] Nulla sarebbe, ec. senza voler sapere, se questo nulla sia aggettivo, o sostantivo; basta bene il sapere, e ricordarselo, ch’egli è modo di dire proprio della lingua nostra, che vale: ‘non esser possibile’, o simil cosa, come si vede agli esempi dal Vocabolario allegati.
Rosa M. [260] Bene osservato!
[58-60]
Così disse il maestro, ed egli stessi
mi volse: e non si tenne alle mie mani,
che con le sue ancor non mi chiudessi.
[261] La magnifica espression dell’affetto di Virgilio che è qui, non lascia por mente alle licenze, che il poeta si prende quanto a grammatica. Virgilio con amore pit che di padre, non si tiene contento d’aver ammonito Dante di tener chiusi gli occhi; e temendo, non forse il timor medesimo, o altro glieli facesse aprire, per fuggire il pericolo, secondo che porta natura, egli medesimo lo voltò indietro. E quantunque Dante avesse già messo le mani sugli occhi, non si tenne contento né eziandio a questo: ma alle mani di lui soprappose anche le sue. [262] Ma quanti crediam noi di que’ che lessero Dante, aver notato quest'arte qui, di far intendere senza dirlo, che esso Dante al comando di Virgilio avea già postesi le mani agli occhi? Eccolo: non si tenne alle mie mani; senza più. A queste minute particolarità è da tener l’occhio in questo poeta, le quali esprimono tutto al vivo essa natura, notando i più segreti e meno osservati movimenti e sensi dell’animo, in qualunque stato o circostanza l’uomo si trovi, che meglio non fa d’ogni fibra e nerbolino del corpo il miglior notomista: nel che dimora l'eccellenza della poesia, e della eloquenza.
Torel. [263] Oh come ben diceste, Filippo mio! Così fossero più molti, che a queste bellezze di Dante ponessero mente! Che ed essi diverrebbero a siffatto magistero migliori poeti che egli non sono; e non li sentiremmo sempre lodare in Dante; e non saper lodare altro che la Francesca d’Arimini, e l’Ugolino. Ma come spiegate voi questo: non si tenne alle mie mani, che, eccetera?
Rosa M. [264] Se mal non veggo, così: alle mie mani non si tenne, che, ec. ‘non potè contenersi (eziandio al veder ch'io mi tenea le mani agli occhi)’; ‘non n’ebbe assai, che non vi mettesse eziandio le sue’. Ovvero quest'altro: ‘non si fermò, come contento, alle mie mani, sì che non, ec.’.
Zev. [265] Voi avrete però votato il sacco. Il che io non dico già, perché io mi penta d’avervi sentito parlare sopra questo luogo tanto sentitamente; ma però che ogn’ora mi si fa mill’anni, d’essere alla venuta dell'angelo. Ehi, Giuseppe, questa è cosa da voi.
Torel. [266] Da me e da voi sarà, se non questa, certo altra faccenda che noi siam determinati di dare a voi, forse pit presto che uom non si crede. In questo mezzo della venuta delle Furie, e delle cose dette e fatte, già l'angelo aspettato da Virgilio era giunto. Prima di venire a questo, gitta Dante questa sentenza, sopra le Furie, e ’l Gorgone che impietriva chi lo vedesse:
[61-63] [267]
O voi ch’avete gl’intelletti sani,
mirate la dottrina che s’asconde
sotto ’l velame degli versi strani.
[268] Ecco: l’amore viziato delle cose mondane cava l'animo di sua natura e ragione: e ’l modo da cessare il pericolo, è rivoltar da loro gli occhi e le spalle. Ora venendo all'angelo, come l’altra volta, venendo esso per passar Dante all’altra riva d’Acheronte, mandavasi innanzi un fracasso simile al temporale; così ora qui uditelo, o piuttosto vedetelo:
[64-72] [269]
E già venia superle torbid’onde
un fracasso d’un suon pien di spavento,
per cui tremavano ambedue le sponde:
non altrimenti fatto, che d’un vento
impetuoso per gli avversi ardori,
che fier la selva e senza alcun rattento
gli rami schianta, abbatte e porta fuori;
dinanzi polveroso va superbo,
e fa fuggir le fiere ed i pastori.
Zev. [270] Non mi ricorda aver letto in altri poeti descrizione di temporale, che a questa possa rassomigliarsi; non quella di Virgilio nel primo delle Georgiche, né di Lucrezio; quantunque cotesto secondo nelle descrizioni tocchi tanto viva e minutamente ogni parte principale, che quasi con guizzi risentiti fa risaltar la pittura (lib. I 275). [263] Ora quantunque costui abbia di tratti vivissimi come udiste, che fanno sentire quasi le botte che dà il vento ne’ fianchi del bosco, e le folate e i tifoni, che ne portano via e sorbiscono quanto trovano, nondimeno questo di Dante, fatte tutte le ragioni, mi par un dipingere più operoso e quasi di getto. [271] Quel per cui tremavano ambedue le sponde, è verso che va, come a crolli e scosse di vento. Egli potea dire: «perché ambedue tremavano le sponde», che era bellissimo verso e sonante; ma egli ha però un andar di pian passo, senza trabalzamenti. Quell’impetuoso fa sentir l'urto del vento; quel ferir della selva, fiaccando ogni ostacolo; quell’abbattere e schiantar i rami, e di peso portarneli fuori in aria; e da ultimo quel venirne innanzi superbo, quasi a testa alta, con neri nuvoloni di polvere che fanno scappar via pastori ed armenti, mi pare (certo lo sento) cosa più paurosa.
Torel. [272] lo medesimo me ne sento i brividi. Ma voi leggete, e porta fuorie Egli c'è chi la chiama «lezione barbara, e indegna d’ogni poetastro»; e mantiene che s'abbia a leggere, i fiori: cioè, «i principi, e la bella speranza del frutto» e dice d’essere stato il primo a spiegar questo luogo.
Zev. [273] Granmercè. Quanto a me, io ne sento ben altro. Dopo aver detto che il vento schianta i tronchi, e rompe i rami, che gran fatto è poi, che egli ne porti anche i fiori; i quali già ne portò con tutti i rami, e non darebbon più frutto? Dove il dire che non pur gli abbatte, ma e ne li porta fuori del bosco, dice ben troppo pit. Adunque infino a tanto che maggior numero di codici, e di maggior fede di que’ tre o quattro, che ho veduto io, non ci dia di meglio, io mi starò pure con fuori. Ma seguite pure avanti.
Torel.
[73] [274]
Gli occhi mi sciolse [...]
(deh! bellissimo ed efficace parlare!): cioè, ‘levò le mani sue dalle mie, e le mie dagli occhi; e cosî libero mi rendette il vedere’;
[73-75]
[...] e disse: «Or drizza il nerbo
del viso, su per quella schiuma antica,
per indi ove quel fummo è pit acerbo».
[275] Vogliam noi dire che Dante accennasse qui al nervo ottico, organo della vista? Nol credo. Nel parlar poetico, e in ispezieltà di Dante, è da rilevar la sentenza più per ragione di giusto senso, che di fisica. Or se nerbo importa sforzo, ed attuosità di azione, dee aver voluto che s’intendesse: ‘aguzza la vista al possibile’. E quella schiuma antica, vien dall’eterno nabissar che faceano i dannati in quella fecciosa palude: e ’l fummo pit acerbo, è il più fitto e denso, che veggendolo, fa sentire agli occhi il bruciore. [276] Or questo senso che agli occhi dà il fummo, l’espresse Dante nel Purgatorio, XVI 6: «né a sentir di così aspro pelo». Questo è il parlar afforzato e pien di vita e nerbo, che ha reso Dante il primo poeta del mondo. Or che era quello, che levava dal pantano quel fummo si grosso? Le anime, che spaventate dinanzi all'aspetto dell'angelo, spicciavano cacciandosi sotto la belletta, e però quivi levavano con quel quasi sobbollire il vapore più grasso. Notate similitudine:
[76-78] [277]
Come le rane, innanzi alla nimica
biscia, per l’acqua si dileguan tutte,
finché alla terra ciascuna s'abbica.
[278] Non era in tutto il mondo cosa, che meglio sprimesse l’atto del dileguarsi sotto, che dissi, dell'anime. Ed è ben magnifica pittura cotesta, di far vedere il passo così seombrato a quel gran potente che ne veniva. Quel si abbica, è ‘tocca la terra di sotto’, ad essa saprapponendosi, che prima si spaziavan per l’acqua: da «bica», che è ‘ammonticellamento’, ‘mucchio’. Adunque, Come le rane, eccetera; segue:
[79-81] [279]
vid’io più di mille anime distrutte
fuggir così dinanzi ad un, ch’al passo
passava Stige con le piante asciutte.
[280] Gran forza di quel distrutte e ben vale ‘disfatte’, come altri dice; ma non però che importi, ‘sciolte del corpo’, che sarebbe un dare in nonnulla (essendo cosa comune, non pur alle anime de’ dannati l'essere sciolte del corpo, ma eziandio a quelle del Purgatorio; e se ciò poco è, a quelle altresì de’ beati); ma nel senso, che di sopra Dante avea detto: «non mi lasciar così disfatto». [281] Ma questo al passo, che vorrà dire? «Dov'era il varco del fiume», spiegano alcuni. Non saprebbe piacermi. Che varco, o non varco? L'angelo passava securamente per tutto; e questo era cosa da lui. Diremo dunque con altri che passava a piede, co’ suoi passi, non in barca: e così in due cose mostrava la sua virtù, nel passar da sé, senza esser portato; e nel non bagnar pure le piante nel loto.
Rosa M. [282] Egli è sottosopra quel di Virgilio, dove la guerriera vergine Camilla venendo a cavallo, andava così leggera e rapida, che non facea alle spighe piegar pure la cima.
Torel. [283] Verissimo. I gran poeti, cioè le gran menti s'abbattono spesso a vedere insieme nelle medesime cose il meglio e ’l pit bello.
[82-84]
Dal volto rimoveva quell’aer grasso,
menando la sinistra innanzi spesso;
e sol di quell’angoscia parea lasso.
Un aggiunto quest’è assai vago in questa pittura, che la fa spiccar bene, e mostra la dignità del personaggio a quel pochissimo movimento. Dante avea preso qualche esperienza di simili aiuti celesti da Dio mandatigli: e però:
[85-87] [284]
Ben m'accorsi ch'egli era del ciel messo,
e volsimi al maestro; e que’ fé segno
ch'io stessi cheto, ed inchinassi ad esso.
Zev. [285] Anche qui è un tratto maestro, forse poco osservato. Volsimi al maestro: questo è l’atto della viva natura, che un uomo nuovo e rozzo, sopravvenendo cosa mirabile, si volge alla sua guida, dicendogli: «Che fo io adesso?». Ma queste parole non dice Dante, contento di dir pure: Volsimi al maestro, che il resto l’intende bene chi legge: ed è bello artifizio, lasciar così a’ lettori da supplire qui e qua. Torel. [286] E infatti il maestro l’ha inteso, e l’ammonisce di quello che avea a fare.
[88]
Ahi quanto mi parea pien di disdegno!
Anche qui il poeta dice quello che non esprime, ma il lettore sel vede da sé, ponendo |rsi] ben mente. Essendo tuttavia l'angelo a qualche distanza da Dante, egli s’accorse ben lui esser messo di cielo, ma non ravvisò le fattezze di lui. Fattosi alquanto a lui più da presso, poté riconoscerne il sembiante e l’atto degli occhi (ne’ quali soprattutto si paiono le passioni dell'animo); ed allora sclamò: ‘Ahi! che ira aveva egli nel viso!’. Notate ora virtù e potenza dell’angelo.
[89-90]
Giunse alla porta, e con una verghetta
l’aperse; che non vebbe alcun ritegno;
come fosse stata di ragnateli. [287] Ecco, con un fuscellino abbattuta la forza di mille diavoli. Qui un tratto di eloquenza terribile, da attutire l'orgoglio di que’ superbi; e senza il «disse» o ’l «cominciò», fa come sopra di tratto parlar l'angelo, mostrando anche in ciò la foga del suo disdegno.
[91-93] [288]
«O cacciati del ciel gente dispetta»,
cominciò egli in sull’orribil soglia,
«ond’esta oltracotanza in voi s’alletta?
[289] Per abbassar loro orgoglio, la prima cosa rinfaccia loro la maggior vergogna che mai avessero, come dicesse: Razza di canaglia plebea, che essendo cacciati di cielo, potete ancora ritener tanto di oltracotanza”. Ma quell’otracotanza, che forza di concetto e di suono! Quanto era men «tracotanza»! Allettare è “ricettare’; come sopra, canto II 122.
[94-99] [290]
Perché ricalcitrate a quella voglia,
a cui non puote il fin mai esser mozzo;
e che più volte vha cresciuto doglia?
Che giova nelle fata dar di cozzo?
Cerbero vostro, se ben vi ricorda,
ne porta ancor pelato il mento e ’l gozzo».
[291] Egli è ben agevole a sentir la forza di questa imperiosa eloquenza, senza notarvene ogni particolrità. Ma che dure mazzate a que’ superbi non sono que’ modi vilificativi, eletti in vero studio: ricalcitrate, dar di cozzo! Come parlerebbesi a muli, o a becconi. Quanto a Cerbero, io non l’intenderò mai altro, che per Lucifero maggiore, incatenato e infrenato da quel gran Possente: «morsus tuus ero, inferne».
Rosa M. [292] Questo è bene toccare il punto per diritto e per rovescio!
Torel. [293] Notate da ultimo la fine di questo grande atto. L'angelo tutto crucciato per l’oltraggiosa caparbietà de’ demonî, fornito suo ufizio, ben sicuro che non ne faranno altro, dà la volta senza far motto a Virgilio né a Dante, tutto occupato ne’ suoi pensieri. Forse pensava di tanta oltracotanza di que’ demonî, la quale dopo tanta confusion ricevuta da Dio, quando prima di calcio li traboccò di cielo, non era né invecchiata né affievolita. Che dignità! Che bello sdegno!
[100-5] [294]
Poi si rivolse per la strada lorda:
e non fé e’ motto a noi; ma fé sembiante
d’uomo, cui altra cura stringa e morda,
che quella di colui che gli è davante:
e noi movemmo i piedi in ver la terra
sicuri, appresso le parole sante.
[295] Ma oggimai è da por fine a’ nostri ragionamenti, ne’ quali questa volta o il troppo diletto, o la materia ci tenne anche troppo, che già ne dee esser valico il mezzodi.
(Fine del dialogo terzo)
[1] Tornati alle lor case da’ loro ragionamenti i tre sopraddetti, e ridottisi la sera, chi ad un crocchio, chi ad un altro, com'erano usati, siccome avviene delle cose, delle quali l’uom ragionò con piacere, vennero raccontando alle persone, chi questa chi quella osservazion fatta a tale, ed a tale altro luogo di Dante, facendo notare le pit belle particolarità; e parte amplificandole, e facendovi sopra di nuovi comenti: di che que’ che gli udirono prendeano ismisurato piacere. E perocché lo studio di Dante non era troppo usato, anzi egli nella comune opinione era passato per iscrittore duro, avviluppato ed oscuro al possibile, parea loro essere fuori del mondo, a sentirlo commendare sì altamente come e’ facevano. [2] Nondimeno, perocché i tre erano in opinione di saggi e sentiti uomini, non potean fare che alcun poco non entrassero nel lor sentimento; e per questa via non si mettesse in loro non legger desiderio di porsi a studiar quel poeta, se mai venisse lor fatto di trovarci nulla di quel tanto di bello, che agli altri sî altamente udivano predicare. [3] Intanto passata la notte, i tre che si consumavano di tornare al consueto esercizio, come la terza fu scoccata, si furono (secondo l'usato degli altri dì) raccolti nella camera del signor Giuseppe; e l’un di loro così cominciò.
Zev. [4] Io rido che i signori e le signore nostre, i quali fino a ieri erano attesi a troppo altro che a Dante, da ier sera in qua sieno entrati nel maggior desiderio di voler essi pure veder la cosa. Tante ne dissi io loro del nostro poeta, che parevano smemorati.
Torel. [5] Volete voi altro? Il medesimo è altresì a me intravvenuto. Staremo ora a vedere, se elle sien pesche, o nocciuole, che daran bene il frutto, se sono da vero.
Rosa M. [6] Anzi io credo poter dire, che questa pesca oggimai arà il nocciolo: tanto ne vidi io accesi e caldi gli animi di que’ molti, a’ quali io contai delle cose per noi qui ragionate, che al tutto sono deliberati di mettersi a questo studio. Ora se egli il facciano (che non dovrebbe fallire), la cosa del dover questo poeta loro piacere mi par bella e fatta; e, come dissi, il fiore ha già bello e legato.
Zev. [7] Fatto sta, se egli lo intendono; ovvero vogliano farselo bene spiegare, dove essi trovassero nulla di oscuro e di forte, che ne troveranno ad ogni piè sospinto, mi pare a me.
Rosa M. [8] Egli il faranno: parmene esser certo. Chi vuole il fine, vuole i mezzi altresì.
Zev. [9] Sia con Dio. Ma noi che badiamo anche di entrare a’ nostri ragionamenti? Noi siamo di Dante ad uno de? passi più belli e magnifichi, in opera di eloquenza singolarmente.
Torel. [10] Voi volete dire di Farinata, eh?
Zev. [11] Di questo appunto; ed è cosa da voi, se il vero è vero.
Rosa M. [12] Il sig. dottore si crede portarla netta, di assegnare le parti a lei ed a me, cessandosi frattanto egli da questo carico: ma non gli verrà fatto sempre com’egli spera. Io ho appostato bene una materia da lui; e le prometto, sarà invano il fare sue scuse, spendo egli, come alunno, anzi conventato di madonna Giustizia, che secondo i suoi ordinamenti, le cose sono da distribuire con giusta eguaglianza infra tutti, si che ciascuno abbia il suo.
Zev. [13] Ah, ah, ah. Io ho bene una mano di argomenti presi dalle Pandette, e dal Codice Teodosiano, e dalle note fattevi dal Gottifredo,! che daranno al bisogno delle eccezioni ragionevoli al vostro principio. Ma lasciam ire per al presente. Ehi Giuseppe, voi vedete che io m'ho gli orecchi levati per ascoltarvi.
Torel. [14] Voi siete molto prode avvocato nella vostra causa. Tuttavia io son al piacer vostro, e di Filippetto. Aperte già le porte della città di Dite dall’angelo, ed entratovi Dante con Virgilio:
[106] [15]
Dentro v’entrammo senza alcuna guerra;
trovasi in una vasta campagna; e cercandone con gli occhi la condizione, cioè la maniera e ’l modo del tormento che ivi era, la vede in ogni parte quasi seminata tutta d’avelli:
[107-11]
ed io ch’ avea di riguardar disio
la condizion che tal fortezza serra;
com'io fui dentro, l’occhio intorno invio,
e veggio ad ogni man grande campagna,
piena di duolo e di tormento rio.
Volendo egli porre sotto gli occhi a’ lettori la forma precisa del luogo e delle sue parti, la mente sua universale trovò di presente un luogo ben noto, che dovea rassembrarla:
[112-17] [6]
Si come ad Arli, ove ’l Rodano stagna;
sì come a Pola, presso del Carnaro,
ch’Italia chiude e i suoi termini bagna,
fanno i sepolcri tutto il loco varo;
così facevan quivi d’ogni parte,
salvo che ’l modo v'era più amaro.
Chi non vide Arli né Pola corre tosto col pensiero ad alcun sagrato, o cimitero; dove i colmi, o alzate della terra fanno per tutto vario, e quasi ondato, ed ammonticellato il piano del campo, ma vera troppo peggio:
[118-120] [17]
Che tra gli avelli fiamme erano sparte,
per le quali eran sì del tutto accesi,
che ferro più non chiede verun’arte.
Tutto è dipinto.
Zev. [18] Questo ultimo verso come lo spiegate voi?
Torel. [19] Così, a mio parere: ‘erano tanto accesi, quanto è il ferro arroventato, che non dimanda all’arte, né può ricevere un arroventamento maggiore’: perché divenuto il ferro candente per la forza del fuoco, ha ricevuto l’ultimo sforzo dell’arte, oltre il qual non si va.
Zev. [20] Mi piace.
Torel.
[121-23] [21]
Tutti li lor coperchi eran sospesi;
e fuor n’uscivan si duri lamenti,
che ben parean di miseri e d’offesi.
Dante sa da Virgilio, quivi esser puniti gli eresiarchi co’ lor seguaci, compartiti ed accumulati ne’ sepolcri secondo sua setta:
[124-33] [22]
Ed io: «Maestro, quai son quelle genti,
che seppellite dentro da quell’arche,
si fan sentir con gli sospir dolenti?».
[23] Ed egli a me: «Qui son gli eresiarche
co’ lor seguaci d’ogni setta, e molto
più che non credi son le tombe carche.
Simile qui con simile è sepolto;
e i monimenti son più e men caldi».
E poi ch’alla man destra si fu volto,
passammo tra i martiri, e gli alti spaldi,
della città di Dite. Leggete ora, Filippo, questo principio del canto X.