Dati bibliorgafici
Autore: Cristoforo Landino
Tratto da: Comento sopra la Comedia. Tomo II
Editore: Salerno, Roma
Anno: 2001
Pagine: 543-575
[1-3]
Quel color che viltà nel cor mi pinse
veggendo el duca mio tornare in volta,
più tosto dentro el suo nuovo ristrinse.
In questo nono capitolo discrive el consiglio di Virgilio circa all’entrare della città, et e mostri infernali che vi sono, et per cui aiuto ventrorono, et finalmente dimostra con che supplicii vi sono tormentati gli eretici. Materia quasi nuova, et dove sono horribili peccati, e quali non meritano alchuna compassione perché non nascono dallo stimolo della carne, chome el disordinato amore, o golosità, o ira, ma da malvagia malignità d’animo perverso. Et benché in tutti e vitii gl’acti frequenti faccino habito, nientedimeno ne’ passati è più incontinentia che intemperantia. Ma in questi si vede una perversissima obstinatione. Et perché chi fa habito in questi è quasi impossibile che se ne possa ritrarre, però gli mette drento alla città cincta di mura di ferro. A dinotare che sia inexpugnabile, chome disopra dicemmo.
[1-3] Ma per tornare al texto, la sententia del primo ternario è che essendo Danthe impaurito, et per questo impalidito per la mutatione che havea veduto nel viso di Virgilio, et accorgendosi di questo, Virgilio ripremette lo sdegno et la perturbatione sua, et rischiarò la faccia, et riduxela al colore naturale, acciò che Danthe anchora lui ponessi giù la paura. Et certo ogni volta che la parte rationale nell’huomo piglia sbigottimento di non potere consequire alchuna chosa, la sensualità molto ne impaurisce. Et latentemente admonisce che qualunche è posto al governo et al reggimento de gli altri, debba spesso ne’ pericoli mostrarsi di buono animo, accioché non sbigottisca quegli che sono sobto el suo governo. Il che Virgilio tribuisce ad Enea quando dice: «spem vultu simulat, premit altum corde dolorem». Et ordina el texto: quel colore el quale la viltà, cioè la paura, pinse fuori, intendi nella faccia. Imperoché pallore nel volto non è se non manchamento di sangue, el quale per la paura fugge al cuore, et lascia le vene del volto vote; veggiendo el duca mio tornare in volta: quasi dica: sanza victoria et scacciato, perché diciamo uno exercito esser messo in volta quando superato da’ nimici volta le spalle; pit tosto dentro el suo nuovo restrinse: era nuovo in Danthe el colore pallido. Imperoché la paura l'havea facto diventare pallido. Era similmente nuovo in Virgilio el colore acceso, perché lo sdegno l’havea acceso nella faccia. Imperoché essendo ira ribollimento di sangue intorno al cuore, ribollendo discorre per tutte le vene, ma apparisce più nella faccia, perché quivi sono molte vene intercutanee, cioè sf in pelle che al tutto si manifestono. Ma veggendo Virgilio la paura di Danthe nascere dalla mutatione del volto suo, s’ingegnò di subito ristrigner dentro tal colore. Adunque quel colore che era in me, per paura nata da viltà ristrinse più tosto el nuovo suo, cioè di Virgilio. Imperoché Virgilio rimosse dal suo volto el color nuovo, i. el colore non naturale, ma el quale di nuovo era apparito per lo sdegno vedendo che per quello Danthe temea; et questo dixe a dinotare che ’l savio può anticipare in scacciare da sé le perturbationi dell’animo.
[4-9]
Attento si fermò com’huom ch’ascolta;
che l'occhio nol potea menare a Ilunga
per l’aer nero et per la nebbia folta.
«Pure a noi converrà vincer la pungha
— cominciò el — se non ... tal ne s’offerse.
O quanto tarda a me ch'altri qui giungha!».
[4-6] Attento si fermò: interviene che quando in luogo tenebroso aspectiamo alchuno, perché non vi vale l’occhio non potendo scorgere, usiamo l’audito, accioché per lo strepito o alchuno altro romore ci avveggiamo quando viene. El medesimo facea Virgilio, ma allegoricamente s'intende che quando l’intellecto per sé non può vedere el vero occupato dalle tenebre della ignorantia, attento aspecta inspiratione et aiuto divino; chom’huom ch’ascolta, poi che l'îra cessa, che l'occhio nol potea menare a llungha: assegna la ragione perché usava el senso dell’udire, perché el vedere non lo serviva da lungi; per l’aere nero: quanto più è difficile la chosa, tanto v'è piti nero aere, cioè tanto è maggiore obscurità d’ignorantia. Onde el psalmo chiede in questo el divino favore dicendo: «illuminare iis qui in umbra mortis sedent».
[7-9] Pure a noi converrà vincer la punga: accendesi lo ’ntellecto humano, quando perviene alla contemplatione di sì alte chose che non le può intendere per sé medesimo, ma quando poi piglia speranza, che per l’aiuto divino che anchora poterà. Et in conforto di sé et della ragione inferiore dice pure, quasi finalmente, a noi converrà vincer la punga, la gara dell’entrare nella porta. Il che è entrare nella cognitione; cominciò el, cominciò egli, se non, et se non, arrogi, potremmo vincere la punga per noi medesimi, saremo aiutati, tal ne s'offerse: i. tale offerse sé a noi; come huomo cogitabundo parla mozo, et non finisce l’oratione. Il che fa che Danthe dubita; ma questo pocho disobto exporremo; O quanto tarda a me, o quanto indugia, al mio parere, ch'altri qui giungha, cioè l’agnolo che io aspecto. Imperoché, chome dice Seneca, a chi ha frecta ogni gran celerità gli pare tardità. Allegoricamente lo ’ntellecto aspecta l’aiuto di Dio et la divina [fer] gratia, et maxime la preveniente, la quale non aspecta essere richiesta, ma spesse volte al buon volere precorre. Perché subito che el libero arbitrio nostro si dispone a eleggere el bene, la gratia preveniente l’addiriza per la buona via.
[10-15]
I’ vidi ben si chome e’ ricoperse
il cominciar con l’altro che po’ venne,
che fur parole alle prime diverse;
Ma non di men paura el suo dir dienne,
perch’io traevo la parola tronca
forse a peggior sententia che non tenne.
[10-12] Ricoperse Virgilio el principio del parlare, nel quale non dava certa speranza, con l’altro parlare che sequitò quando dixe: «se non ... tal ne s'offerse», le quali parole furono mozze. Imperoché bisogna supplire «tal ne s’offerse che ci farà vincere»; «tale», cioè si potente, et intende di Dio, «ne s'offerse», ci s'offerse, cioè ‘offerse sé a noi’. Et queste fisrono parole diverse alle prime, perché quelle dimostravono che lui potessi vincere, queste che havessi bisogno dello aiuto d’altri.
[13-15] Ma non dimeno per essere diverse non sono opposite o contrarie. Ma in somma dimostrano pit difficultà che non credette da principio, et dinota che lo ’ntellecto alchuna volta crede chon continuato discorso consequitare la cognitione della cosa che lui investiga. Dipoi s’accorgie che ha bisogno di maggior lume.
[16-30]
«In questo fondo della trista concha
discende mai alchuno del primo grado,
che sol per pena ha la speranza cioncha?».
Questa quistion fec'io; et que’: «Di rado
incontra — a me rispose — et che di nui
faccia ’l cammino alchun pel quale i’ vado.
Ver è ch'altra fiata qua git fui,
congiurato da quella Erithon cruda,
che richiamava l’ombre a’ corpi sui.
Di pocho era di me la carne nuda,
ch’ella mi fece entrare dentro a quel muro,
per trarne un spirto del cerchio di Giuda.
Quell’è ’l più basso locho e ’l più obscuro,
e ’l più lontano dal ciel che tucto gira:
ben so ’l cammin; però ti fa sicuro.
Dubitava forte Danthe non potere entrare nella città, et entratovi dubitava se Virgilio sapessi guidarlo pe’ cerchi inferiori, come l’havea guidato pe’ superiori. Et però domanda se alchuno del primo cerchio, nel quale stava Virgilio, per alchun tempo era sceso insino al basso. Dinota in questo che la ragione inferiore, perché non discerne gl’universali, dubita che anchora la superiore non gli sappia discernere. Et Virgilio accorgendosi del suo temere, per dargli conforto afferma lui esservi disceso, et in questo luogho, benché el nostro pocta sia differente da Virgilio. Imperoché lui finge che la Sybilla non volessi menare dentro a questa città Enea. Ma narragli le pene che v’erono. Et Danthe finge che Virgilio ve ’l menò. Nientedimeno sono simili in questo, che l'uno et l’altro dimostra la guida esservi stato altra volta. Virgilio la Sybilla, accioché Enea prestassi fede a quello che epsa ne narrava, et Danthe Virgilio, per rimuovere la paura la quale mostrammo di sopra. Vogliono alchuni che Danthe scrive questo essere fincto da Virgilio a dimostrare che spesso e savi fingono alchuna chosa non per ingannare, ma per introdurre. Et parte, chome habbiamo decto, in alchun modo imita Virgilio. Et se dicessi qual cagione ha mosso Danthe, che volendo imitare Virgilio, qui gli sia contrario, rispondo che non è contrario quanto pare. Dice Virgilio quando dimostra che la Sybilla non vuole condurre Enea drento a questa città: «nulli fas casto sceleratum insistere limen». Né altro intende dicendo che a nessuno buono sia lecito fermarsi in quella, se non che nessuno può esser buono che si fermi, cioè facci habito nel vitio. Ma parve alla Sybilla fussi meglio narrargli e vitii et tenerlo di fuori, i. dargli la cognitione di quegli sanza che lui ne faccia habito. Et Danthe finge che benché Virgilio ve lo conduca, nientedimeno non vi si fermi. Il che significa quel medesimo, cioè entrare nella cognitione del vitio, ma non ne fare habito. Et è questo più secondo la religion christiana, la quale crede che ciaschuno entri in questa città, cioè in alchuno modo pecchi. Onde David dixe: «omnis homo mendax»; et altrove: «septies in die cadit iustus». Ma non è pocho non ne fare habito.
[16-18] In questo fondo della trista concha: in questa bassa parte dell'inferno, el quale ha discripto in forma di vaso, el quale da capo comincia chon più largo giro, et quanto va pit basso più ristringha; del primo grado: del primo cerchio, ove è el limbo, et dove pose l'anime de gl’huomini virtuosi, ma sanza fede, a’ quali per pena, cioè in luogho di pena, hanno cioncha, cioè moza, la speranza, come dixe di sopra «che sanza speme vivemo in disio». Cioncho è vocabolo lombardo, et significa ‘mozo’ et ‘diminuito’, et chosì lo piglia qui; ma in fiorentino cionchare significa ‘disordinatamente bere’.
[19-21] Io feci questa quistione: cioè questa domanda. Imperoché «querere» in latino significa ‘cercare’ et ‘domandare’; et quei, et quello, Virgilio, rispose dicendo, dirado incontra, rade volte interviene; incontrare significa ‘intervenire’ et ‘abbattersi’, che alchuno di nui, cioè di noi, faccia el camin pel quale io vado: dice che benché rade volte intervengha, pure alle volte interviene. Et allegoricamente dimostra che pochi son quegli che scendino nella meditatione de’ vitii per purgarsene.
[22-24] Ver è ch’altra fiata: dimostra lui esservi stato pocho dopo la morte scongiurato da Erithone. Et finge Danthe che Virgilio fingha questo per confortarlo chome habbiamo decto. Erithone fu, secondo Lucano, femina maga in Thesaglia, la quale a requisitione di Pompeo figliuolo di Pompeo Magno, ritrasse dello ’nferno una anima al corpo, et fecegli dire che fine havessi havere la guerra civile tra Cesare et Pompeo. Finge adunque Danthe che Virgilio finga questo di sé in conforto suo; et oltra a questo quadra a una antica opinione, che Zoroastre inventore di questa arte, la exercitassi per ha- vere cognitione della immortalità dell'anima et della natura et potentia di quella. Et dell’arte maga diremo di sobto quando di quel peccato si tracterà. Ma quanto al presente texto è da dubitare chome Danthe ponghi che l’anima di Virgilio fussi scongiurata et constrecta, conciosia che la nostra religione lo vieti, perché non vogliono e theologi che l’arte maga habbi questa forza. Il perché Aurelio Augustino scrive che quella Phitonissa della quale recita el primo libro de’ re, che parlava in persona di Samuel propheta, non era Samuel, ma un demonio, el quale fingeva d’essere Samuel. Ma rispondesi che non sono parole di Danthe né sua sententia, ma di Virgilio, el quale parla secondo l'opinione de’ poeti gentili, chome veggiamo in Homero, et in Lucano, et gli altri. Preterea accadendo a proposito, nota in questo luogo Danthe el quarto descenso dello ’nferno posto dagli antichi. Imperoché come di- sopra dicemmo, si scende allo ’nferno nel primo modo, quando l’anima partendo dal corpo in peccato capitale va in etherna dannatione. Nel secondo modo quando anchora nel corpo scende nell’habito del vitio. Nel terzo quando scendiamo nella contemplatione de’ vitii per purgarcene. Et secondo questi tre primi modi sempre scrive per tutta questa prima cantica. Et del quarto tocca in questo luogo, non perché l’appruovi, ma accioché non ne pretermetta alchuno.
[25-27] Di pocho era di me la carne nuda: la carne era nuda, cioè privata, di me, Virgilio; et optimamente di me, perché benché l’huomo sia d’animo et di corpo, nientedimeno perché l’huomo è decto dalla ragione et dall’intellecto, veramente l'animo è quello che è huomo, et el corpo è chome uno vestimento all’animo; dentro a quel muro, el quale tu vedi di ferro, per trarne una anima la quale era nell’infimo cerchio, nel quale è punito Giuda, et da lui è decto Giudeccha.
[28-30] Quello è el piti basso locho: se l'inferno scende insino al centro della terra, et questo cerchio è el piti basso, conviene che lui sia nel centro; et perché ogni centro è la più lontana parte che sia dalla circunferentia, però è più lontano da’ cieli; che tutto gira: el qual girando tutto in sé contiene; ben sol cammino: avedevasi che Danthe temeva che lui non sapessi el cammino per non vessere stato, et però conclude saperlo. Et forse finge Danthe che Virgilio fingessi esservi stato per dimostrare che moralmente e savi dicono spesso quello che non è non per ingannare, ma per confortare a perseverare nelle buone opere quegli che hanno preso alchuno sbigottimento.
[31-42]
Questa palude ch’al gran puzzo spira
cinge dintorno la città dolente,
u’ non potemo entrare homai sanz’ira».
Et altro dixe, ma non l’ho a mente,
però che l'occhio m'havea tutto tracto
ver l’alte torre alla cima rovente,
Dove in un puncto furon dritte rapto
tre furie infernali di sangue tincte,
che membra feminili havean et acto,
Et con hydre verdissime eron cincte;
serpentelli, ceraste havean per crine,
onde le fiere tempie eron avincte.
[31-33] Dimostra che questa palude, Styge, che spira, cioè che alita, el gran puzo, perché di quella surgono vapori et nebbie di cattivo odore, il che è naturale d’ogni pantano, ma anchora allegoricamente dalla tristitia del cuore nascon molti puzi, cioè molti vitii, cinge dintorno la città, di Dite, dolente, per varii et insopportabili tormenti che vi sono. Et certo e viti non lascion dopo sé altro che pentimento et dolore. Onde optime el Petrarcha: «penitentia et dolor doppo le spalle»; u' non potremo, dove non potremo, entrare sanz’ira: perché gl’adversarii soppongono. Né sia chi si maravigli che dimostri ira nel luogho dove si punisce l’ira. Imperoché qui el poeta vuole dimostrare che può essere ira, la quale non solamente non è vitio, ma è virtii, perché è giusta indegnatione a fare l'animo gagliardo a ogni honesta impresa. Perché chome habbiamo decto non è solamente nell'animo nostro quella parte che disidera el bene, cioè la concupiscibile, ma anchora quella che rimuove gl’obstacoli che impediscono el bene, et chiamasi irascibile.
[34-36] Et altro dixe, ma non l'ho a mente: dimostra lui essere stato tirato sì di subito dallo stupore di quel che vide, che per la subita turbatione dell’animo dimentichò molte chose che Virgilio havea decto. Et certo quando nasce un subito movimento nell'animo, tanto se ne perturba che dimenticha e precepti datogli dalla ragione. Et serve questo figmento d’oblivione a due chose. Prima a quello che habbiamo decto. Dipoi accadeva che Virgilio lo dovessi amaestrare di molte chose, le quali se havessi narrato faceva troppo lungho sermone. Adunque benché non narri, nientedimeno accenna all’auditore quello che lui debbi imaginare; però che l'occhio m'havea tutto tracto Ver l'alta torre: dico che in me venne oblivione di molte chose che Virgilio m’havea decto, perché l'occhio, cioè el veder mio, m’havea tracto tutto, cioè m'havea rapito tutto l'animo mio. Altra chosa è guidare, altra tirare. Imperoché di nostra volontà andiamo guidati, ma per forza andiamo tirati. Adunque la ragione ci guida, perché persuadendoci epsa, et mostrandoci tal via esser buona, fa che volontariamente la seguitiamo. Ma quando nasce in noi una subita perturbatione o d'ira, o d’odio, o d'amore, o di timore, benché giudichiamo quello che ci mostra tal passione non esser bene, nientedimeno siamo per forza da quella tirati. Che dice adunque Danthe, o vogliamo dire l'appetito sensitivo? Certo non altro se non che l’aspecto delle furie lo tirorono. Il che dinota che per forza lo conduxono chome incontinente. Ma dello ’ncontinente et intemperato si fe’ mentione di sopra nel primo canto, et similmente del temperato et del continente. Il perché indi trarrai quello che serve a questo luogho. Hora tornando al texto, vuole in questa fictione dinotare el poeta che la ragione amoniva la sensualità, ma la perturbatione lo tirava in contraria parte; m'havea tutto tracto, tirato tutto, perché una grande perturbatione occupa tutta la mente in forma che la ragione non V'è udita, ver la torre, inverso la torre, della quale dicemmo disopra, rovente, infocata, perché gran fiamma è nel furore et grande ardore.
[37-39] dove in un puncto furon dricte rapto Tre furie: le quali erono in habito et in acto di femine. Le furie secondo e poeti furono figliuole d’Acheronte et della nocte. Acheronte significa ‘privatione di gaudio’; et della privatione del gaudio nasce el furore. Et la nocte è obscura, et da cecità et obscurità di mente procede el furore. E nomi sono Alecto, Tisiphone, et Megera. Alecto significa ‘sanza quiete’, et la inquietudine è el principio del furore. Tisiphone in greca lingua suona ‘vendicatrice d’uccisione’, et questo è el rimorso della conscientia, del quale di sopra dicemo. Megera trahe sua significatione da ‘odio’, dal quale si perviene in extremo furore. Pigliano le furie pel disordinato apetito, el quale chome furia incende la mente humana, et acciechala, et falla precipitare sanza consiglio ne’ viti. Imperoché niente altro è amore, ira, odio, ambitione et tutte l’altre sfrenate cupidità, se non furore, el quale chome uno cavallo sfrenato traporta l’huomo et per fosse et per ripe insino che gli scaveza el collo. Chosi el precipite furore sanza ragione ne traporta l'animo. Onde non sanza cagion dixe dove in un puncto furon dricte rapto. Imperoché chome la ragione mena l'animo con discorso et maturità et consiglio, chosi per l’opposito lo infuriato appetito sanza alchun consiglio di subito ci tira; tre furie, chome habbiamo decto, Alecto, Tisipho et Megera, infernali: le furie habitono lo ‘nferno perché sempre sono ne’ vitii. O veramente dixe infernali, perché si truova anchora furore divino, del quale diremo in pit comodo luogho; chosa discripta da Platone et optimamente interpretata dal nostro platonico Marsilio Ficino; di sangue tincte: perché dalle furie nascono le discordie, et da quelle le guerre et uccisioni; che membra feminili havean et acto: haveano el corpo et l’aspecto di femina. Il che si finge perché la femina è molto pit accesa nel furore che el maschio. Onde et Virgilio quando Alecto volle fare che nella caccia d’Ascanio el cervio di Thyrrho pastore di Latino fussi morto, fa che ‘l furore fussi nelle cagne et non ne' cani. La cagione è che essendo minore animo nella femina, può meno resistere alle passioni et alle perturbationi.
[40-42] et chon hydre verdissime eron cincte: dimostra che in luogho di cinctura et di capegli haveano varie spetie di serpi, perché non è pit pestifero veneno a gl’animi nostri et alla vita de’ mortali, che la furia. Hydra è serpe che habita l’acqua, chosì decta in greco, perché «hydor» significa ‘acqua’. Et dicono e poeti essere stato in Lerna palude di Thessaglia un serpente Hydra figliuola d’Echidna et di Tiphaone, la quale Iunone nutri contro a Hercole, et era sì indomabil monstro, che tagliatogli un capo ne nasceva septe. Ma Hercole non la potendo uccidere chol ferro, fu amaestrato da Minerva che l’ardessi; ceraste: sono serpi nella Lybia, le quali hanno corna, chosi decte perché «ceras» significa ‘corno’. Apparvono le furie nella sommità della torre perché el furore non può stare celato, né mai è sanza superbia et somma accensione.
[43-48]
Et que’, che ben conobbe le meschine
della regina dell’etherno pianto,
«Guarda - mi dixe — le feroci Erine.
Questa è Megera, dal sinistro canto;
quella che piange dal dextro è Alecto;
Tisiphon è nel mezo»; et taqque a tanto.
[43-45] Et que’, cioè Virgilio, el quale ben conobbe le meschine, le furie, le quali veramente sono meschine, cioè misere, perché se la tranquillità della mente arrecha somma giocondità, el furore arrecha l’opposito; et se la sapientia è sommo bene, la insania è somma miseria. Né è sanza cagione che Virgilio le conosca et non Danthe, perché lo intellecto è quello che conosce el furore, et la cagione onde procede, et non el senso, el quale occupato da tanta insania perde ogni lume, et non conosce el furore nel qual si truova; della regina dell'etherno pianto: di Proserpina regina dell'inferno; «Guarda — mi dixe — »: non basta che lo ’ntellecto conosca che pestilentia sieno queste furie, ma è necessario che le faccia note all’appetito accioché le fugha; Erine: chiamano e Greci le furie Eryne perché «eris» significa ‘contentione’.
[46-48] Questa è Megera dal sinistro canto: perché l’odio è peggio che [fa] la in- quietudine, ma pessimo è el tormento che dà Tisiphone, et però lo pone in mezo.
[49-54]
Chon l’unghie si fendean ciaschuna el pecto,
battiensi a palme et gridavan sì alto,
che mi strinsi al poeta per sospecto.
«Vengha Medusa et st ’l faren di smalto
- gridavon tutte riguardando in giuso -,
mal non veggiamo di Theseo l’assalto».
[49-51] Dimostra, per graffiarsi el pecto, et battersi a palme, la rabbia de’ furiosi, et dice che per le loro alte grida lui s'accostò a Virgilio per potere chol suo aiuto difendersi. Et certo all’empito del furore che nasce d’alchuna perturbatione non si difenderebbe la ragione inferiore sanza l’aiuto della superiore.
[52-54] «Vengha Medusa che ’l faren di smalto»: di Phorco dio marino et Ceto figliuola del mare et della terra nacquono secondo Hesiodo tre figliuole, Stheno, Euriale, et Medusa. Queste per comune vocabolo si chiamavano Gorgone, et le due prime furono immortali et Medusa fu mortale. Non haveano se non un occhio fra tutte et tre, et quello usavano a vicenda hor questa hor quella. Di Medusa arse Neptunno, et chon lei già si congiunse nel tempio di Pallade, la quale incontinentia concepé tanto odio verso di Pallade, essendo epsa idia della castità et della sapientia, che per vendecta e capelli di Medusa, e quali bellissimi haveano maxime commosso Neptunno all’amore, converti in serpicella; et diegli che qualunche guardassi diventassi saxo. Per queste intendono e poeti e beni terreni et momentanei, e quali se si desiderano, o per la propria necessità, o per usare honesta liberalità, sono virtri, et questo dimostrano le due immortali; ma se si disiderano per adempiere el disordinato appetito è sommo vitio, et questa è mortale. Et Neptunno l'ama, che significa el mare, et ponsi per l'appetito, perché l'appetito inobbediente alla ragione prepone le chose caduche et mortali alle celesti. Et ama maximamente e capegli, cioè el superfluo, et coniungesi chon lei nel tempio di Minerva, che è idia della castità et della sapientia, perché o con prudentia s’acquistano, o sobto spetie di qualche sanctimonia si commecte dolo et fraude per aquistarle. Et Minerva gli muta e capegli begli in serpicelle, perché la sapientia finalmente scuopre simili fraude, et dimostra el veleno loro. Muta Medusa gl’'huomini in saxi, perché la troppa et disordinata cupidità de’ falsi beni ciegli fa parere sî begli che in quegli diventiamo stupefacti, et ad ogni altra chosa siamo ciechi, et sordi, et quasi insensati. Dicono Medusa essere stata uccisa da Perseo con la spada di Mercurio et con lo scudo di Minerva, el quale perché era cristallino potea per quello vedere Medusa et non essere veduto da Ilei. Perseo si pone per l'huomo savio, el quale con la spada di Mercurio, cioè con eloquente doctrina, uccide Medusa, perché conosce et fa conoscere ad altri che le riccheze, et signorie, et dignità, et potentie, et simil chose, le quali lo ignorante vulgo et tutti gli stolti stimono essere sommo bene, sono caduche, presto manchano, et sempre generano scandolo, et perturbationi, et miseria nella vita humana. Et quando l’uccide si nasconde drieto allo scudo di Minerva, perché oppone la ragione et la sapientia tra sé et questi falsi beni, la quale lo difende in forma che non gli possono nuocere né tirargli ad amargli. Sta adunque bene Medusa nella città dove si puniscano sì atroci scellerateze, perché se non fussi la immensa cupidità de’ beni mondani, gl'huomini harebbono sf elevate le menti, che verebbono in vera cognitione di Dio, et quello desiderando non diventerebbono impii contra Dio, et non commetterebbono alchuno di quegli enormi errori che si puniscono dentro alla città di Dite. Per questo e demonii chiamono Medusa contro di noi. Imperoché la temptatione diabolica non ci può vincere se non incitandoci tanto alla cupidità de’ beni temporali, che noi diventiamo insensati a ogni virtuosa operatione; che mal veggiammo: cioè vendicammo. «Veggiare» significa in lingua fiorentina antica ‘vendicare’, et deriva da «vendicare » per sincopa et per mutatione del .d. in .g; in Theseo l'assalto: cioè se havessino vendicato la ingiuria ricevuta da Theseo, chostui al presente non hareb- be ardito di venire anchora lui vivo nel nostro regno. Ft allegoricamente intendi che chome nel male, similmente anchora nel bene può assai l’exemplo. Adunque se le furie disideratrici del male havessino punito Theseo del venire vivo, cioè di venire per purgarsi de’ viti, Danthe non l’harebbe sequi- tato. Theseo fu figliuolo d’Egeo re d’Athene, et da Ilui si narrano molti monstri domati simili a quegli d’Hercole. Haveano gl'Atheniesi et e Megaresi uc- ciso per invidia Androgeo figliuolo di Minos crethese, et Minos gli vinse, et in vendecta del figliuolo impose dura legge, che ciaschuno anno septe giovani atheniesi a chi la sorte toccassi andassino in Creta per essere divorati dal minothauro. El quarto anno tocchò a Theseo, ma con l’aiuto d’Ariadna figliuola di Minos uccise el minothauro et tornò libero in Athene. Fu huomo di gran consiglio, et non di minore animo. Fu el primo secondo Plinio che trovò le confederationi et leghe. Fingono e poeti che insieme chon Perithoo andò all'inferno per rapire Proserpina. In questa favola scripse Coluccio Salutato fiorentino, huomo doctissimo et preceptore di Leonardo Aretino, sobtilissima allegoria. Imperoché fingendo e poeti esser disceso all'inferno Hercole, Enea, Theseo, Perithoo, Amphierao et Orpheo, dimostra in questi exprimersi varie spetie di chose appetibili. Il che accioché meglio intenda, ripetiamo che la vita humana è o activa o contemplativa. La contemplatione saddiriza al vero. L’activa al buono. Non che non sia una medesima cosa vero et buono, perché ciò che è buono è vero, et ciò che è vero è buono. Ma el vero è in quanto è conoscibile, et el buono in quanto è desiderabile. Adunque la contemplativa tende al vero, l’activa al buono. Ma el bene è di tre spetie, cioè honesto, utile, et voluptuoso. Honesto è vero bene. Onde gli stoici posono el sommo bene nelle virti. Voluptuoso è quello che fé che gli epicuri affermorono la voluptà esser sommo bene. Utile è l’oppinione del vulgo. Questo intendendo el nostro Coluccio, vuole che ’l bene speculativo et la cognitione del vero sia expressa in Homero per Hercole, et in Virgilio per Enea; et similmente el bene honesto, pure che la doctrina sia determinata. Ma quando fussi incerta, chome negli academici, tale descenso figura per Amphierao, e ’l voluptuoso figura per Orpheo, Putile per Theseo et Perithoo, et in questo piglia Theseo per l’anima et Perithoo pel corpo, et come questi furono sommi amici, chosi l’anima e ’l corpo chon somma amicitia si congiungono. Et dimostra la ragione per Theseo et la sensualità per Perithoo, chose certo degne della doctrina sua et dello ’ngegno. Ma perché sono prolipse, et a questo luogho non molto appartenenti, le pretermetto. Assai sia che si dolgono e demonii non havere punito Theseo che ardissi vivo, cioè speculando, scendere allo ’nferno, pel cui exemplo Danthe habbi preso el medesimo ardire. Imperoché se non hanno ritenuto chi scese allo ’nferno per la cognitione dell’utile, chosa al tutto vulgare, et nella quale non dimostra alchuna divinità della ragione, danno baldanza a Danthe che non poteranno ritener lui scendendovi per la cognitione del vero et dell’honesto, chose celesti, et sempre accompagnate dal divino favore.
[55-60]
«Volgiti in drieto et tieni il viso chiuso,
che se ’l Gorgon si mostra et tu ‘l vedessi,
nulla sarebbe di tornar ma’ suso».
Chosi dixe el maestro; et elli stessi
mi volse, et non s'attenne alle mie mani,
che chon le sue anchora non mi chiudessi.
[65-57] Optimamente admonisce la ragione el senso che non riguardi tal mostro, accioché da quello non sia convertito in saxo, come allegoricamente exponemmo.
[58-60] Ma perché la sensualità benché ammonita fussi non basterebbe per sé medesima alla difesa se la ragione superiore non la corroborassi et afforzificassi, però finge che Virgilio l’admonisce che con le proprie mani ci cuopra gl’occhi; et non contento ad questo lo cuopre con le sue. Per le mani s’intendono l’operationi. Adunque se e demonii mostrassino Gorgone a Danthe, cioè tentassino la sensualità mettendogli innanzi e dilecti de’ beni terreni, lui vincto da quegli non tornerebbe mai in su, perché ne farebbe habito. Il perché fa mestiere che prima la sensualità et la ragione inferiore si cuopra con le proprie mani, cioè usi ogni buona operatione che gli è possibile, et sobtomettasi alla superiore. Dipoi che la superiore lo cuopra chon le sue, cioè la difenda chon le virtà che ha in sé.
[61-63]
O voi ch’avete gl’intellecti sani,
mirate la doctrina che s’asconde
sobto el velame de gli versi strani.
Perché in tutta questa comedia dell’inferno non è capitolo che habbi più profonda allegoria che questo, però el poeta capta attentione da gl’auditori, et admoniscegli che notino l’allegoria la quale è in epso.
[61-63] O voi ch'avete gl’intellecti sani, cioè sapienti. Imperoché chi non fussi di grande intellecto indarno mirerebbe; mirate, diligentemente considerate, la doctrina che s'asconde Sobto el velame, sobto el figmento, de gli versi strani, i. diversi, ne’ quali altro suonano le parole, et altra è la sententia che v'è nascosta. Imperoché vuol dimostrare che come ne’ vitii che procedono per incontinentia et intemperantia resiste la ragione per sé medesima con la gratia gratis data, onde bastò Virgilio contro a Charone, a Minos, a Cerbero, a Plutone, a Phlegias, a Philippo Argenti, chosi hora a entrare nella speculatione di più gravi vitii procedenti da malitia et da efferità, non bastando la ragione con la gratia gratis data, bisogna spetial gratia di Dio chiamata da’ theologi gratia gratum faciens. Et è molto pit difficile l’entrata perché non un solo demonio, ma molti vi sono a guardia. Il che significa che simili peccati hanno molte et diverse spetie et radici, et mille modi et arti di nuocere. Adunque Virgilio non può placare questi demonii, ma ègli chiusa la porta in sul pecto. Le furie sono le radici della superbia et dell’invidia, et hanno serpenti in luogho di ca- pegli. Il che dinota malitia, fraude et inganno. Onde Virgilio scrive d’Alecto: «mille nocendi artes». Impediscon Danthe, il che theologicamente significa che ’l demonio non vuole che l’huomo vivo, cioè procedente chon ragione, entri nella cognitione del peccato, perché sa che conoscendolo se ne guarderebbe. Ma si el morto, cioè colui nel quale la sensualità è superiore alla ragione. Chostui è morto, perché non sono pit in lui operationi humane, ma al tutto bestiali. Accostasi Danthe a Virgilio per sospecto delle furie. Imperoché quando l’appetito si sobtomette alla ragione non può mai essere assaltato dalle furie, le quali nascano da ardentissima et sfrenata cupidità delle chose illecite. Et quelle vedendo non gli poter nuocere chiamavono Medusa, cioè l’aescavano chon lusinghevoli dilecti delle chose mondani, alle quali se ci lasciamo pigliare, chome disopra dicemmo, diventiamo saxi. Molti vogliono che Medusa significhi oblivione et ignorantia, et questa fa l'huomo diventar pietra, cioè indurato et obstinato, et per questo la ragione rivolge la sensualità a drieto dal peccato, et fagli porre le mani al viso, cioè ritornare dal vitio alle buone operationi. Et anchora vi pone le sue, che sono le speculationi intellective. Et questo fu sufficiente rimedio che ’l vitio non offendessi Danthe, ma non bastò alla cognitione di quello. Et però aspecta l’angelo che gli dia entrata.
[64-72]
Et già venia su per le turbide onde
un fracasso d’un suon, pien di spavento,
per cui tremavon amendue le sponde,
Non altrimenti facto che d’un vento
impetuoso per gl’adversi ardori,
che fier la selva; sanza alchun rattento
Li rami abbatte schiancta et porta fuori;
dinanzi polveroso va superbo,
et fa fuggir le fiere et li pastori.
Era già Danthe armato contro a’ nocimenti delle furie et delle gorgone. Hora resta che con l’aiuto dell'angelo entrino nella città. Discrive adunque l'avvenimento suo. Discrive chome da Virgilio fu amaestrato Danthe che lo riverisse. Discrive chome lui chon la verga apri la porta. Riprese e demonii di loro arroganza, et poi se ne tornò, et Virgilio et Danthe entrorno et quel che vidono.
[64-66] Et già venia su per le turbide onde: dimostra la venuta dell'angelo el quale disopra interpretammo per la gratia di Dio. Questo veniva su per l’onde di Styge, a dinotare che el lume da Dio ricevuto in questa parte era per la cognitione delle chose infernali; un fracasso d'un suono: cioè tal suono quale suole essere in un fracasso; et proprio fracasso diciamo un gran suono el quale proceda da ruina et spezamento di chose, perché frangere significa ‘rompere; pien di spavento: accordasi cho’ theologi, e quali dicono che ogni visione che procede da Dio da principio spaventa et in fine rassicura. Possiamo anchora intendere che quando per la venuta della divina gratia entriamo nella cognitione de’ grandissimi vitii, et cognosciamo quanta crudel peste et quanto grave pericolo sieno all’animo nostro, per tal cognitione nasce terrore, consternatione di mente non piccola, ma piena d’orrore; per chui tremavono amendue le sponde: cioè l'una et l’altra ripa della palude. L’Imolese interpreta che questo che viene per aprire la porta sia Mercurio, dio della eloquentia, et acutamente accomoda el texto a questa allegoria. Ma chi diligentemente raguarda el proposito di Danthe, facile conosce che non può essere altro che la gratia divina già di sopra decta.
[67-69] Non altrimenti facto che d'un vento: optimamente aguaglia l'angelo che è incorporeo al vento, el quale è sì tenue corpo che rimane invisibile; et oltra questo dimostra con quanta celerità descende la gratia divina alla ben disposta volontà; che fier, el quale fiere, cioè ferisce, impetuoso per diversi ardori: el quale piglia el suo impeto da gli ardori diversi da llui, cioè contrapostogli. E venti sono generati da vapori caldi et secchi, et elevati dalla terra insino alla regione dove consistono le nuvole. Et quivi ripercossi da gli ardori superiori sono spinti per lato, et ripercuotono l’aria, et la parte percossa ripercuote l’altra, et quella l’altra di mano in mano, perché vento non è altro che aria ripercossa, et quando gli ardori sono pit adversi tanto el vento è impetuoso. Sono anchora certe spetie più impetuose in forma che si possono dire quasi folgori, chome sono procella, ecnephia, typhone, turbine, prester, la natura et distinctione de’ quali perché è prolipsa la lascio in drieto.
[73-81]
Gli occhi mi sciolse et dixe: «Hor driza el nerbo
del viso su per quella schiuma antica
per indi ove quel fumo è piti acerbo».
Chome le rane innanzi alla nimica
biscia per l’acqua si dileguon tutte,
fin ch’alla terra ciaschuna s'abbica,
Vid’io più di mille anime distructe
fuggir chosi dinanzi d’un ch'al passo
passava Styge con le piante asciutte.
Ha descripto l’impeto della venuta dell'angelo. Hora pone che Virgilio chome prima perché non vedessi Medusa gl’havea chiusi gli occhi, chosî per l’opposito al presente glien’apre perché vegha l'angelo. Imperoché è officio dell’intellecto nostro reggere in forma l'appetito che habbia chiusi gli occhi a ogni perturbatione, et chosì aperti a ogni spiratione divina. È molto lontana la sensualità dalla divinità, ma lo intellecto è in quel mezo, et in molte chose per sé medesimo regge el senso. Et in quelle nelle quali per sé non è sufficiente a reggerlo, almancho lo dispone a ricevere quello che per gratia divina lo reggerà.
[73-75] Gli occhi mi sciolse, rimovendo le sue mani et le mie per la ragione già disopra decta, et dixe: «Driza el nervo Del viso»: quasi ‘desta la potentia visiva’, ponendo el nervo per la potentia. Imperoché le forze corporee consistono ne’ nervi. O veramente dixe nervo perché nella croce de’ nervi optici, e quali venghono dal cierebro agl’occhi, consiste la potentia visiva; per quella schiuma antica: se lui commovea l’acque bisognava che ne nasciessi schiuma; et dixe antica, non perché quella fussi antica, essendo nata di nuovo movimento, ma anticha cioè dell’antica palude. Alchuni dicono anticha schiuma, cioè biancha, perché ogni schiuma è biancha, et chome e Latini dicono «canas pruinas», i. ‘canute brinate’, cioè bianche, perché el pelo del vecchio è bianco, chosi Danthe dixe anticha schiuma quasi canuta schiuma, cioè biancha. Ma quadra bene che dica Styge essere anticha palude, perché la tristitia è anticha nella generatione humana, conciò sia che ’l primo huomo Adam subito che fu caduto nel peccato cadde in mestitia et merore. Non venne l’angelo volando sopra la palude, ma venne per la palude, benché la passeggiassi sanza bagnare le piante. A dinotare che tale gratia era aiuto alla cognitione de’ vitii et non delle virti; ove quel fumo più acerbo: più vehemente et più obscuro. Imperoché tal gratia viene non per luoghi luminosi, perché quegli vede lo ’ntellecto per sé medesimo, ma per gli obscuri, e quali sanza lei non vede lo ’ntellecto. O veramente la fa venire per luogho obscuro, perché tal gratia viene latentemente, né per cammino si conosce.
[76-78] Chome le rane: optima comparatione dalle rane, animale palustre, all'anime poste nel pantano. Et è conveniente chosa a dire che l'anime dannate fughino la gratia di Dio, perché tutti quegli che hanno facto habito del vitio, et di quello prendono voluptà, si fanno ineptissimi a ricevere la divina gratia, perché «in animam malivolam non introibit spiritus sapientie». Adunque farsi inhabile a ricevere la gratia di Dio è fuggirla. Preterea come e salvati sono confermati in optima volontà, chosì e dannati non possono più non essere obstinati nel peccare; biscia: serpe, et è figura chiamata onomatopia, cioè fictione di nome, perché biscia è nome fincto a similitudine di quello strepito che fa la serpe quando va scudisciando et strisciando con velocità; si dileguano: dileguare significa sparire; vocabolo tracto dal latino «deliquesco», che significa ‘struggersi’, perché chi si dilegua esce subito d'occhio, chome la neve quando si strugge; s’abbica: s'accumula. Bica è un cumulo in similitudine di quella che e Latini dicono «meta», la quale è forma tonda et a ppoco a ppoco surgendo s’appunta. Et in questa forma accumula l’agricultore e covoni del grano. Onde abbicare è accumulare.
[79-81] distructe: dannate. Imperoché l’anima privata del suo bene si può dire disfacta; fugir dinanzi ch'al passo: al luogo dove era el passaggio; chon le piante asciutte: perché la gratia di Dio et chi con quella contempla non si può bagnare nella palude della mestitia et dell'odio. Cioè non si coinquina ne’ vitii e quali lui contempla. Et ordina el texto chosì: «vid’io più di mille anime fuggirsi dinanzi ad uno ch'al passo passava Styge con le piante asciutte, chome le rane si dileguano per l’acqua innanzi alla nimica biscia sin che tutte s'abbicano alla terra».
[82-90]
Dal volto rimovea quell’aer grasso,
menando la sinistra innanzi spesso;
et sol di quella angoscia parea lasso.
Ben m’accors’io che gl’era dal ciel messo,
et volsimi al maestro; et quel fé segno
ch'io stessi fermo, et inchinassi ad esso.
Ah quanto mi parea pien di disdegno!
Giunse alla porta, et chon una verghetta
l’aperse, che non vhebbe alchun ritegno.
[82-84] Sequita in discrivere quello che faceva l’angelo, et dimostra che lui chon la man sinistra cacciava l’aer grasso, cioè la nebbia. Il che significa che due chose opera nell’intellecto humano la divina gratia. Imperoché prima rimuove ogni nebbia d’ignorantia dal volto, et intendi dagli occhi della mente, preparandoci alle virti chol purgarci da’ vitii. Il che è prima virtù et primo acto di sapientia, perché rectamente dixe Oratio: «virtus est vitium fugere et sapientia prima Stultitia caruisse». Dipoi rimosso la nebbia, cioè el vitio et la ignorantia, et per questo diventati mondi, come vedrai nel purgatorio, facilmente c'induce nella cognitione di Dio et della verità. Onde la sapientia nello evangelista dice: «beati mundo corde, quia ipsi deum videbunt». Sono beati adunque quegli che hanno el cuor mondo, perché vedranno Dio, i. potranno salire alla contemplatione delle chose divine. Ma perché maggior difficultà è questa prima opera, cioè levare la ignorantia et mondare la mente, che dipoi inducere la cognitione, però dixe menando la sinistra innanzi spesso, perché bisogna fare frequentissimi acti virtuosi innanzi che ne consequiti l’habito; et aggiugne che sol di quella angoscia parea lasso: perché ogni nostra difficultà et straccheza et tedio è nel purgarci da’ vitii et rimuovere l’ignorantia. Imperò che dipoi facto che habbiamo già habito della virtii, nessuna chosa benché difficil sia ci straccha, o ci pare laboriosa. Perché chi ha facto habito della virti piglia piacere et voluptà d’exercitarla. Et quanto è maggiore la difficultà, tanto pit ne ghode, chome nelle nostre Disputationi più apertamente dimostrai nel quarto di Virgilio: «at puer Ascanius mediis in vallibus acri Gaudet equo iamque hos cursu iam preterit illos Spumantemque dari pecora inter inertia votis Optat aprum aut fulvum descendere monte leonem». Et più apertamente lo dimostrerremo quando accaderà explicare che le virti morali sono di quattro spetie. Adunque parea lasso solamente d’havere a rimuovere la nebbia dinanzi al volto, i. rimuovere la ignorantia dell'animo, et dice che questo facea chon la sinistra, quasi dica: con la mano pit ignobile, perché d’i due acti quello era anchora pit ignobile. Imperoché havendo a fare due opere, prima levare la ignorantia, dipoi con la vergha aprire la porta che mette nella cognitione, doveva a questa seconda opera chome più nobile riserbare la man dextra. Preferea rimuovere la ignorantia è rimuovere e vitii e quali sono notati per la sinistra, et aprire la porta è inducere cognitione delle virti notate per la mano dextra.
[85-87] Ben m'accorsi io che gli era dal ciel messo: io m'accorsi che gli era mandato da Dio. Il che dinota che anchora la ragione inferiore s’accorge quando la mente è illuminata dal divino splendore. Ma innanzi che vengha non lo prevede chome la ragione superiore; et però pose di sopra che Virgilio l’aspectava. Ma parrà forse a molti che havendo da principio dimostro el poeta che in tutta questa sua peregrinatione è guidato dalla divina gratia, la quale essendo triplice significò per tre donne, sia superfluo che dipoi sobto varii velami in molti luoghi le pongha, et ripete chosi in questa cantica chome nell’altre. Ad che rispondo che benché el principio et tutto el progresso sia aiutato dalla divina gratia, nientedimeno in molte difficultà, che in gravi et varii casi che occorrono, conviene che più expressamente apparisca el divino aiuto. Perlaqualchosa chome optimo theologo in ciaschuna maggior difficultà le pone, et chome optimo poeta sempre varia la inventione et la fictione. Il che è somma laude ne’ sacerdoti delle muse, et in tale virtii non veggo poeta alchuno che preceda el nostro. Et se io non fussi fiorentino ardirei di dire che in questo nessuno l’equipera né pareggia. Ma torno al texto: et volsimi al maestro, perché bisogna che sia instructa da la superiore, et que’ fé cenno: quasi dica: con cenno m’ammoni. Il che dinota che Danthe, o vogliamo dire la ragione inferiore et la sensualità, era tanto obediente alla superiore che ogni minimo cenno bastava. Et accennommi ch'io stessi cheto, imperoché non sta alla ragione inferiore adimandare o fare alchuna disputa circa alla cognitione et alla scientia, la quale è ne gl’universali, essendo quella solo ne’ particulari. Ma né anche Virgilio parla, perché dove la cognitione viene per gratia revelante non vi si affaticha molto lo ’ntellecto; et inchinassi ad esso: cioè al presente et sanza indugio; chi inchina fa riverentia, et significa lo ‘nchinare cedere al superiore et esser prompto a sobtomettersi et a ubbidire. Il che debba fare la ragione inferiore, et chosi gli dimostra la superiore.
[88-90] Ah quanto mi parea pien di disdegno: ricordasi l'angelo dell’anticha battaglia la quale fu tra’ buoni et e rei in cielo, et della superbia di Lucifero et de’ suoi sequaci, et dell’obstinatione loro. Il che gli muove giustissimo sdegno. Et allegoricamente la divina gratia, la quale soccorre al nostro intellecto, conviene che faccia empito contro all’ignorantia, la quale è quella che gli chiude la porta, et habbia sdegno che l’huomo nato a contemplatione delle chose divine sia vietato dall’ignorantia potervi pervenire. Et non dice era pieno, ma parea, non a Virgilio ma alla sensualità, perché nessuna alteratione può essere nelle actioni divine; ma pare alla sensualità, la quale crede che in Dio sieno le perturbationi che sono in lei, et che non punisca sanza ira et non perdoni sanza misericordia. Il perché, chome dirà altrove el poeta, e sacri theologi attribuiscono a Dio le passioni le quali non sono in lui, perché altrimenti non potrebbono e nostri sensi comprendere le sue opere; venne alla porta et chon una verghetta L'aperse: non errono quegli che dicono el poeta haver voluto per questa verghetta dimostrare quanto gli fu facile aprirla. Ma se non erro è da intendere in questo luogho che ’l poeta havendosi proposto imitare Virgilio et gli altri antichi poeti dove non gliel vieti la christiana theologia, finge qui l'angelo mandato da Dio, la qual chosa è consentanea alla nostra religione, ma per ornare el luogho con fictione poetica gli dà la vergha di Mercurio. Et in questo modo né pone semplicemente Mercurio, chome parve all’Imolese, perché parrebbe idolatria; né si parte al tutto dalla fictione poetica, et dàgli la verga chome a Mercurio. Ma qui la vergha significa la potentia, la quale è nella gratia di Dio in reggere et amaestrare l'animo humano. Porta la vergha, cioè lo sceptro, tal gratia. A dinotare che all’imperio suo nessuno può resistere, et che ogni diabolica forza et fraude cede, et quella ci apre la porta alla cognitione dell’intime chose.
[91-105]
«O cacciati dal ciel, gente despecta
- cominciò egli in sull’horribil soglia -
ond’esta tracotanza in voi s’allecta?
Perché ricalcitrate a quella voglia,
a cui non puote el fin mai esser mozo,
et che più volte v’ha cresciuto doglia?
Che giova nelle fata dar di cozo?
Cerbero vostro, se ben vi ricorda,
ne porta anchor pelato el mento e ‘l gozo».
Poi si rivolse per la strada lorda,
et non fé motto a noi, ma fé sembiante
d’huomo cui altra cura stringha et morda
Che quelle di colui che gli è davanti;
et noi movemmo e piedi in ver la terra,
securi apresso le parole sancte.
Aperta la porta, dà conveniente parole all’angelo, et contispondono allo segno che dimostrava havere.
[91-93] O cacciati dal cielo: questa è invectiva, et è in genere demonstrativo, ove vitupera sommamente l’operationi de’ demonii dal principio alla fine. Et comincia da exclamatione, nella quale è somma gravità et vehementia nel riprendere. Et dimostra che per haver voluto opporsi alla volontà divina Lucifero et gl’altri non solo furono cacciati dal sublime cielo, ma anchora rovinati nella pit infima parte. Né solamente perderono la preeminentia et el sommo honore, ma restanne in extremo obprobrio et vilipensione, perché dove eron prime creature sono diventate ultime. Et però dixe gente despecta, cioè disprezata da Dio et da tutte l’altre sue rationali creature; in su l’horribil soglia: dimostra per questo che l'angelo non entrò dentro, et in qualche parfgaijte si conforma al decto della Sybilla nel sexto di Virgilio: «nulli fas casto sceleratum insistere limen»; ond’esta, onde, cioè da qual ragione, esta, cotesta, fracutanza, superbia. Quasi dica: da nessuna. Imperoché è somma stultitia insuperbire a chi non excelle gli altri per qualche cagione, et voi sete da tanta alteza caduti nell’infimo fondo, et quanto al sito, et quanto alla conditione et dignità. Adunque sta male a ciaschuno esser superbo, ma peggio a voi.
[94-96] Perché ricalcitrate a quella voglia?: dimostra la stultitia loro prima a temptare chose manifestamente impossibili. Imperoché a tutti è noto che nessuno può obstare alla divina voglia. Dipoi a temptare chose dannose. Et finalmente che queste due chose sieno lo pruova per exemplo inducendo el caso di Cerbero; Perché ricalcitrate: perché vi contraponete, et è translatione da cavallo o simile animale, el quale non volendo ubbidire chi lo guida gli trahe di calcio; a quella voglia, alla quale non può mai essere mozo el fine, cioè la quale non può essere impedita che non arrivi al fine proposto, et che più volte v’ha cresciuto doglia?: perché ogni volta che o in cielo o in inferno vi siete contraposti ne siete stati vincti et puniti.
[97-99] Che giova nelle fata dar di cozo?: dicemmo di sopra del fato, et per quello che quivi dimostrammo diremo nelle fata, cioè nella divina providentia, el cui ordine non si può né mutare né muovere. Adunque che giova cozare, cioè repugnare, a quello che ha ordinato la divina providentia? Cerbero vostro: è certo de gl’infernali spiriti Cerbero, perché la indigentia et el bisogno delle chose appartenenti alla salute del corpo, per la quale lui è figurato insieme chon l’altre diaboliche temptationi, c'impedisce la contemplatione della verità. Ma perché contro a questo è unico rimedio provedere alle chose necessarie et scacciare da sé le superflue, però et Virgilio chon pocha pultiglia, et Danthe cholla polvere, lo pasce. Ma Hercole, el cui descenso allo ’nferno pocho di sopra narrammo, chon le cathene lo traze fuori dell’inferno. Il che dinota che la virtà heroica, la quale e poeti fingono in Hercole, non solamente fa stare contento el corpo alle chose necessarie, ma al tutto lo riduce in sua potestà et fasselo servo. Onde Paolo dixe: «castigo corpus, et in servitutem redigo». Ma di Cerbero pit distesamente scripsi nel sexto canto; ne porta ancho pelato el mento e ’l gozo: perché essendo stato strascinato da Hercole per le cathene che havea a’ suoi tre colli, è ragionevole che la cathena gl'havessi levati e peli dal gorgozule et dal mento. Né si convenia all’agnolo o più lungha oratione o d’altra qualità. Però fu brieve et vehemente nel riprenderlo. Fu brieve accioché non paressi che gli stimassi pit che loro meritassino. Fu acerbo nel parlare perché chosi si richiedeva alla loro superbia.
[100-5] Poi si rivolse, decte le parole se ne ritornò indrieto, per la strada lorda, cioè bructa, per la quale era venuto, et non fé motto a noi, ma fé sembiante: similitudine et vista d’huomo che sia strecto et morso da maggior cura che non è quella di colui el quale ha innanzi a sé. Et per questi versi dinota che l’officio di chi è mandato dal suo superiore è chon quanto più brevità può fare quanto gli è imposto. Et dipoi ritornarsene per la diricta sanza intraprendere altra cura. Et allegoricamente dimostra che la divina gratia non si ferma in un solo, ma sempre si distende ne gli altri; et noi movemmo e piedi: aperta la porta della cognitione all’intellecto speculativo dalla divina gratia, quello guidando l’inferiore entra nella speculatione, perché diventa sicuro et rimane pieno di speranza confortato dal divino aiuto.
[106-33]
Dentro ventramo sanza alchuna guerra;
et io, c'havea di riguardar disio
la condition che tal forteza serra,
Chom'io fu’ dentro, l’occhio intorno invio:
et veggio ad ogni man grande campagna,
piena di duolo, et di tormento rio.
Sì chome ad Arli, ove Rhodano stagna,
et chome a Pola, appresso del Carnaro
ch’Italia chiude, et suoi termini bagna,
Fanno e sepolcri tutto el loco varo,
chosì facevon quivi d’ogni parte,
salvo che ’l modo v'era più amaro;
Che tra gli avegli fiamme erono sparte,
per le quali eron sf del tutto accesi,
che ferro più non chiede in verun’arte.
Tutti li lor coperchi eron sospesi,
et fuor n’uscivon sf duri lamenti,
che ben paren di miseri et d’offesi.
Et io: «Maestro, quai son quelle genti
che sepellite dentro da quell’arche
si fan sentir cogli sospir dolenti?».
Et egli a me: «Qui son gl’heresiarche
co’ lor sequaci, et d’ogni secta, et molto
più che non credi son le tombe carche.
Simile qui con simil è sepolto,
e monumenti son più et men caldi».
Et poi ch’alla man dextra si fu volto,
Passamo tra’ martyri et gl’altri spaldi.
Dicemmo di sopra che fuori della città di Dite ha posto l’auctore e peccati che procedono da incontinentia, dove la sensualità si lascia invescare alle voluptà del corpo, e quali perché non procedono da malitia, né da efferità d'animo, ma da fragilità de’ sensi, meritano molto minore punitione. Hora dentro a Dite ove sono parati pit gravi supplicii pone e peccati e quali procedono da irrationale et disordinata elevatione d’animo, per la quale né riconosce veramente Dio per superiore, né degna sobtomettersi all’humane et divine leggi, et a giusti principi, et a chi per probità et sapientia gli va innanzi, la quale generalmente si può chiamare superbia, dalla quale procedono tutti e peccati. Imperoché secondo Augustino ogni peccato è dipartimento da Dio, et non volere a quello sobtomettersi. Et però pone le due torri che significano Iactantia et Arrogantia; et le furie, che significano e vehementissimi moti et ardentissime cupidità; et Medusa, che significa la voluptà che se ne piglia. Onde ne nasce habito indelebile. Et quasi quel medesimo si dinota per le mura del ferro. Et in questa città pone el sexto, el septimo, l’octavo et el nono cerchio; de’ quali particularmente diremo nel luogho debito. È adunque superbia immoderata cupidità d’avanzare et soprastare a gli altri; ma accioché meglio si distingua el peccato, diremo che questa cupidità del superchiare è o naturale o non naturale. Se naturale è o spirituale o personale. Se spirituale non è peccato ma giusta voglia; né merita riprensione chi desidera esser piti giusto o più forte de gli altri, et avanzare tutti in scientia et in sapientia. Né similmente sarà vitio se fia personale, perché può giustamente voler l’huomo esser superiore a tutti e bruti, perché la dignità dell'humana spetie lo merita; et Dio ne’ precepti dati al primo huomo dixe: «dominamini piscibus maris». Ma se è innaturale è peccato, et diciamo essere innaturale quando cerchiamo soprastare a gli altri huomini, perché la natura ci ha prodocti a vivere in consortio et compagnia, donde nascano le rep. Né può durare tale compagnia ove non sia una universale equabilità; et non comandò Dio che noi signoreggiassimo gl’altri huomini. Sarà adunque vitiosa tal cupidità d’essere superiore a gli altri huomini disiderando tale excellentia per sé medesima et per nostro rispecto; ma disiderandola per giovare a gli altri huomini per mantenere la giustitia et conservare la equabilità tra sobtoposti, onde nasce la tranquillità, et non prevalersene in alchuna chosa, non sarà peccato, ma merito. Né è da pretermettere che la superbia è o interiore o exteriore; et interiore è o nell’affecto, o nell’intellecto; et nell’intellecto è in quattro modi. Primo quando l’huomo presume haver da sé ciò che ha di bene. Secondo quando da Dio, ma per suoi meriti. Tertio quando giudica essere in virtù quello che non è. Quarto quando spregiando altri disidera parere quello che non è. Nell’affecto è alchuna volta presumptione. Alchuna volta ambitione. La presumptione è quando presummiamo quello che non si debba o innanzi al tempo, o sopra le proprie forze. L’ambitione consiste o in signoria, o in magisterio, o in semplice excesso in alchuna delle gratie date per gratia, chome sono riccheze et simili. La superbia exteriore si considera o dalla cagione che la produce, o dalla chosa in che consiste. Nel primo modo consideriamo se nasce o da bene di natura, o da bene di fortuna, o della gratia. E beni naturali sono o del corpo o dell'animo. Nel corpo sono gagliardia, belleza, destreza, velocità, grandeza et simili. Nell’animo sono sottiglieza d’ingegno, velocità, buona memoria, potentia di sostenere exercitio spirituale, et naturale aptitudine. E beni della fortuna sono quegli che sono di fuori di noi et ci possono esser tolti, chome sono riccheze, dignità, dominio, gloria, et fama. Se consideriamo el suggietto, vedremo se è in huomo privato, o publico, o in sacerdote, o in laico, et simili. Compagne di superbia sono curiosità, levità, superchia letitia, arrogantia, difensione del peccato, simulata humiltà, licentia nel peccare. Le figliuole sono irreverentia, heresia, inobedientia, vanagloria, hypocresia, iactantia, pertinacia, discordia, invidia. Ad tutti questi vitii che procedono da efferità et maligno ingegno pone le pene in questi quattro cerchi posti dentro alle mura di Dite, et sono convenienti al vitio. Sono ne’ cerchi bassi a dinotare che etiam nella vita humana quegli che troppo s'inalzono sono depressi et abbassati almancho dalla viltà del peccato; et sono in grave et molesto puzo, perché el superbo genera nausea et stomacho et puzo a tutti gl'huomini et ad sé medesimo, perché desiderando sempre pit alto grado pare che quello dove è gli puta.
[106-8] Dentro v'entrammo sanza guerra: sanza repugnantia, havendo el divino lume st illuminato l’intellecto che ogni difficultà et obscurità cessava; etio: Danthe, cioè l'appetito, el quale è quello che muove l'animo alla investiga- tione, chome sopra dicemmo; et però dice che havea disio di riguardare che conditione, cioè che stato et fortuna, havessi quel luogho.
[109-11] l’occhio intorno invio, giro con gli occhi, et veggio gran campagna: gran pianura; et pel grande spatio del luogho dimostra gran multitudine di peccatori.
[112-14] Arli: è città in Provenza posta alla foce del Rhodano non lontana da Vignone più che tre leghe; chiamasi in latino Arelate, et della copia de’ sepolchri che sono intorno a quella riferiscono tale historia. Combatté Carlo magno in questo luogho chon gran numero di pagani, et riportonne cruentissima victoria, perché molti christiani vi furono morti; et disiderando Carlo riconoscere e corpi de’ suoi da quegli de’ nimici per socterrargli, la sequente mattina trovò gran copia di sepulture, et tutti e christiani havevono nella fronte scripto el nome loro. Il perché furono sepulti in tali avelli. Ma più tosto è da credere che la consuetudine anticha facessi tali sepolchri; Pola: è città in Capo d'Istria vicina al golfo nel mare Adriatico decto Carnaro. Questo è circa a quaranta miglia, et è molto pericoloso pel vento Austro, el quale in quella regione è decto similmente Carnaro; ch'Italia chiude: perché quivi finisce Italia et e liti del Carnaro sono e termini d’Italia. Né truovo hystoria che narti l'origine di tali sepulture. Credo che per lunga consuetudine sieno multiplicati.
[118-20] che ferro piti non chiede in veruna arte: erono si infocate le sepulture, che nessuno artefice più infuocha el ferro quando ne vuole alchuna chosa fabricare, et indurvi nuova forma. Perché in questo luogho si punisce l’heresia, noteremo che heresia è vocabolo greco, et significa ‘electione’. Imperoché l’heretico si parte dalla comune opinione overo fede, et da sé medesimo elegge quello che vuol credere. Diremo adunque heresia essere electione di propria oppinione contro alla terminatione della appostolica chiesa. Et brievemente diremo essere heretico qualunque ha opinione diversa dalla vera religione. Il che non può essere sanza somma arrogantia, perché troppo attribuisce al suo senno chi si divia dalla comune oppinione di molti doctissimi. È adunque una delle figliuole della superbia. Sono alchuni che in questo peccato interpretano le furie, ponendo Alecto per la mala cogitatione, Tisiphone per mala publicatione di tale cogitatione, et Megera per mala operatione, et Medusa quando appruova apertamente la sua falsità. Ma tale alleghoria non mi pare da preporre a quella che disopra posi; nientedimeno ciaschuno appruovi quella che giudica che meglio quadri.
[126-29] Heresiarche, i. principi delle heresie, furono molti. Ma pigliando el principio onde lo piglia Gratiano, diremo el primo essere Simon mago, el quale Piero ne gli Acti de gli apostoli maladixe, perché tentò con pecunia comperare la gratia dello Spirito sancto. Da lui sono decti simoniaci quegli che vendono o comperono le chose sacre. La heresia loro è che la creatura non sia facta da Dio; ma da una certa virti superna. Menandriani pigliano el nome da Menandro, mago discepolo di Simone. Dicono el mondo non esser facto da Dio, ma da gli angeli. Basiliadi da Basilide, el quale non vuole che Iesù Christo patissi. Nicolaite da Nicolao, diacono insieme con Stephano constituito da Piero apostolo, el quale lasciò la moglie in suo arbitrio che si congiugnessi a chi gli piacessi; et instituì la mutatione del matrimonio. Gnostici vollono chosi esser chiamati per excellentia di scientia. Chostoro dicono l'anima esser natura di Dio, et Idio essere buono et captivo. Carpocratiani da Carpocrate, el quale dixe Christo essere solamente huomo, et nato di maschio et di femina. Cherintiani da Cherinto: questi observano la circuncisione, et dicono che mille anni doppo la resurrectione saranno in voluptà di carne. Onde in greco sono decti ciliaste, et in latino maciliste. Nazarei confessono Christo, et nientedimeno vivono secondo la legge del vecchio testamento. Ophite decti dal serpente, el quale in greco è decto «ophis», adorono el serpente, et dicono che lui induxe la cognitione della virtù. Valentiniani credono che Christo niente di corpo prese di Maria, ma entrò in lei chome per canale o bucciuolo. Appelle, onde sono Appellite, volle che uno angelo fussi dio della legge d’Isdrael, et afferma esser di fuoco, et dixe Christo non essere stato Dio in verità, ma huomo in fantasia essere apparito. Arconciati vogliono che l'universo creato da Dio sia opera de gli archangeli. Adamiate imitando Adam nudi orano et nudi stanno insieme maschi et femine. Caiani adorano Cain. Sethiani dixono Seth figliuolo d’Adam esser Christo. Melchisedecchiani dicono Melchisedec sacerdote esser stato non huomo ma virti di Dio. Artotyrite sono nominati da «artos», i. ‘pane’, et «tyros», i. ‘formaggio’, perché offerano ne’ sacrifici pane et formaggio, affermando che e primi huomini celebrorono sacrificio de fructi della terra et del bestiame. Aquarii solamente acqua mectono nel calice del sacrificio. Severiani, decti da Severo, non beono vino, né credono el vecchio testamento et la surrectione. Alogi, i. sanza verbo, perché in greco «a» significa ‘sanza’ et «logos» ‘verbo’, perché non credono Dio verbo, et non credono l’Apocalypse. Pauliani da Paolo, el quale non dixe Christo essere stato sempre, ma havere principio da Maria. Manichei da Manicheo persa, el quale pose due nature et due substantie, una buona et una rea, et l’anima nostra derivare da Dio chome da certo fonte, non acceptano el testamento vecchio, el nuovo acceptano in par- te. Antropomorphite credono che Idio habbia forma d’huomo, et di qui hanno preso el nome, perché «antropos» significa ‘huomo’, et «morphi» forma’. Eraclite da Eraclio non ricevono se non monaci, dannano e matri- monii, non credono che e parvoli habbino el regno del cielo. Fortiniani da Fortiniano vescovo in Gallogrecia, dixono Christo esser nato di Maria et di Ioseph per coppula carnale. Acciani dicono el figliuolo esser dissimile al padre et lo spirito al figliolo. Origeniani da Origene dicono che el figliuolo non può vedere el padre né lo spirito sancto el figliuolo; affermano anchora che l’anime peccorono nel principio del mondo, et secondo la diversità del cielo insino alla terra hanno preso diversi corpi; et per questo dicono esser facto el mondo. Noetiani non ponghono in Dio tre persone ma una sola, et dicono padre et figliuolo et Spirito sancto essere nomi d’officio et non distinctione di persone. Onde sono chiamati patripassiani, perché vogliono che anchora el padre habbi patito. Sabelliani sono denominati da Sabellio discepolo di Neoto, et sono nel medesimo errore. Arriano vescovo d’Alexandria distinxe la essentia del figliuolo dal padre contro al decto del Signore, che dixe: «Ego et pater unum sumus». Macedonio vescovo non vuole che lo Spirito sancto sia Idio. Apolinariste da Apollinare, el quale dice che Christo prese el corpo humano, ma non l’anima. Princiani dicono che la substantia dell’humana carne fu facta dal diavolo. Donato venne di Numidia et sovverti tutta l’Affrica dicendo che ‘l figliuolo è minore che ’l padre, et lo Spirito sancto minor che ’l figliuolo. Bonosio vescovo, et da llui Bonosiani, dicono che Christo non fu figliuolo proprio di Dio, ma adoptivo. Circumcellioni s'uccidono con le proprie mani per morire martiri. Priscilianisti in Hispagna feciono secta mixta de gli errori de’ gnostici et priscilianisti. Paterniani dicono che le parti inferiori del corpo sono facte dal diavolo. Arabici furono heretici in Arabia, e quali affermavono l’anima morire col corpo, et nel dì del giudici risucitare l’uno et l’altro. Tertulliano sacerdote cartaginese dice l’anima essere immortale ma corporea, et l'anime peccatrici dopo la morte convertirsi in demonii. Nictagee dicono fare contro a Dio chi consuma la nocte in vigilie havendola facta Dio per riposo. Pelagio monaco prepone el libero arbitrio alla divina gratia affermando che basta la volontà a fare e comandamenti di Dio. Nestorio vescovo di Gonstantinopoli afferma che Maria non fu madre di Dio; ma solamente dell’huomo. Il perché altra persona fa della carne, et altra della deità; et pone Christo separato, che uno sia el figliuolo di Dio, et un altro el figliuolo dell’huomo. Eutice abate constantinopolitano niegha Christo dopo l’humana assumptione esser di due nature; ma vuole che solo la divina rimangha in lui. Acephalite, i. sanza capo, perché «a» significa ‘sanza’ et «cephale» ‘capo’, decti chosi perché non si truova capo et inventore di questa secta, niegono in Christo esser proprietà di due substantie, ma vogliono che nella persona sua sia una sola natura. Questo medesimo errore fu in Theodosio et Gaine, e quali dal perverso popolo d’Alexandria in uno medesimo dî furono ordinati vescovi. Fanno adunque in Christo di due una sola natura, come Euticio et Diascore. Ma e Theodosiani la pongono corropta, e Gaioniti incorropta. Da’ Theodosiani procedono Agnoite, decti chosi dalla ignorantia, perché affermano che la divinità di Christo fu ignorante di quello che era scripto dovere adivenire del di et hora ultima; né si ricordono che in persona di Christo dice Isaia: «dies iudicii in corde meo». Tritonite dixono non tre persone essere in uno dio, ma essere tre idii contro a quello che è scripto: «audi Isdrael Dominus deus tuus unus est deus». Sono anchora alchuni che non vogliono che Christo nascessi del padre non ab eterno, ma con principio di tempo. Alchuni non credono che el discendimento di Christo allo ’nferno liberassi gl’huomini. Alchuni credono che l'anime nostre dopo la morte si convertino in demoni, et anchora in ogni animale. Alchuni ponghono innumerabili mondi sequitando l’oppinione di Democrito. Alchuni pongono l’acqua coeterna a Dio chome Thalete milesio. Alchuni vanno scalzi. Alchuni non mangiono con gl’huomini. Restono molte altre secte, le quali se tucte narrassi potrei pit tosto esser dannato di curiosità che lodato di diligentia. Ma notissima è l’oppinione de’ fraticegli molto propinqua alla nostra età, et forse non ancora spenta. Malignissimi sono e paterini, e quali oltre a molti altri errori e quali hanno comuni cho’ Manichei, dicono l'anime nostre essere spiriti maligni infusi ne’ corpi dal diavolo. Dicono che l’anima et el corpo di Christo et di Maria furono creati in cielo incorruptibili, et che mai non mangiorono né beverono cibo corporale. Dicono che ’l baptesimo non è necessario. Che l’eucaristia non è corpo di Christo, ma semplice pane et vino in memoria del vero corpo. Preterea che ’l matrimonio non è sacramento, né è in stato di salute chi è in quello. Non vogliono che alchuno confessi e peccati suoi particularmente; ma solamente confessi sé esser peccatore, et che basti che el paterino gli ponghi la mano in capo. Il che chiamano consolatione. Dicono che e nostri corpi non hanno a risucitare. Non usano segno di croce; ma dicono essere idolatria venerare quella. Non vogliono che alchuno si difenda in forma che chi l’assalta possi essere offeso. Affermano esser peccato mortale uccidere alchuno animale excepto che pesci et pulci et pidocchi. Item giurare per qualche cagione. Niegano esser peccato fare usura se si fa sanza fraude. Dicono che in Toscana la vera chiesa è la fiorentina, la quale si distende da Pisa ad Arezo a Montepulciano et a Grosseto. Queste heresie benché tra loro sieno discrepanti, nientedimeno tutte congiurano contro all’appostolica fede. Tutte da gli appostoli et altri sancti huomini et concilii sono dannate. Et in somma qualunche altrimenti intende la sacrosancta scriptura che non richiede el senso dello Spirito sancto, dal quale procede la scriptura, benché non si parta dalla chiesa, nientedimeno si può chiamare heretico. Et debbonsi tutti gli eretici excomunicare secondo quello: «frater qui corripitur ab ecclesia et non obedit sit tibi sicut ethnicus et publicanus». Pe’ sepulchri intendi l’animo dell’heretico essere sepulto nella obstinatione sanza redemptione. Imperoché chome la virti della fede ci partorisce gratia, la quale ci è fida guida alla salute, chosi la incredulità spegne nel cuore ogni divino lume. Onde rimagniamo in durissima obstinatione; et per questo pone le sepulture di saxo. Né sanza cagione pone l’heresia dopo la superbia. Imperoché dicendo Salamone: «initium omnis peccati est superbia», dice lo expositore che di quella nasce l’heresia. Et Hieremia: «arogantia tua et superbia cordis tui decepit te». Perché invero la heresia non nasce da ignorantia, ma da superbia, volendo l'huomo acquistare auctorità et gratia per essere inventore di chosa nuova. Stanno nelle sepulture per la cagione già decta. O veramente perché gl'heretici hanno occulte le loro credulità, et loro congregationi et sinagoghe fanno in luoghi occulti et nascosi. Di qui Iob: «de industria recesserunt a deo et vias cius intelligere noluerunt». Fa anchora a questa figura de’ sepolchri quello che dice el psalmista: «in co paravit vasa mortis et sagictas suas ardentes effecit». Dove dice la chiosa: e vasi della morte sono gl’heretici, e quali scpelliscono l'anime loro. Et altrove: «nunquid narrabit aliquis in sepulcro misericordiam tuam». Et altrove: «sepulchrum patens est guttur eorum». Imperoché chome del sepolchro aperto esce gran fetore, chosi della bocca di costoro escono fetide opinioni, perché sono induriti nelle loro opinioni. El fuoco dinota lo smisurato amore hanno havuto a sé medesimi et alla propria opinione. O veramente una extuatione et fluctuatione continua che è nell’heretico, et uno accieso furore che benché sia indurato nella sua opinione, nientedimeno vedendosi discordare dalla opinione d’una innumerabile copia d'huomini, che et per sanctità poterono [gg] havere divina revelatione del vero; et per varia et molta doctrina son di molta auctorità, non possono mai acquiescere. Adomanda adunque Danthe chi sono e sepulti nell’arche, cioè e sepolchri, e quali intende che vi sieno, perché ode e loro sospiri e quali nascano da somma angustia d’animo. Et chosi certamente chi non acquiesce alla comune oppinione nell’andare ricercando con la mente quello che paia pit vero al suo stolto intellecto è sempre in anxietà et angustia; Et egli ad me, intendi, dixe: qui, in questi sepolchti, sono gli heresiarche, cioè e principi delle secte heretiche, e quali chon brevità habbiamo di sopra narrato, et molto sono carche, cioè ripiene, le tombe, le sepulture, pit che non credi: a dinotare che tra gl’huomini sono pit heretici che altri non crede. Adunque per non dir sempre un medesimo vocabolo, il che ingenera fastidio al lectore, usa questa variatione, la quale arreca seco ornato et giocondità dicendo hor sepolchro hora archa hor tomba hora avello.
[130-33] Simile qui con simile è sepolto: chome a dire e manichei chon Manicheo, et priscilianisti con Prisciliano et chosi gli altri; Et poi ch'alla mie dextra si fu volto: qui pone che Virgilio volse alla man dextra; et poi dimostra che poco dopo alquanto viaggio volse a sinistra. Il che dinota che el viaggio prese a man dextra, perché andavono per haver cognitione del peccato, et non coinquinarsene ma purgarsene, la quale actione è virtuosa. Poi volse a sinistra, a dinotare che benché l’operatione sia virtuosa, nientedimeno la materia et el suggecto è vitio. Adunque sapientemente prende el viaggio sinistro da man dextra; martiri: «martyres» in lingua greca sono ‘testimonii’. Ma perché quegli e quali hanno voluto più tosto patire pena et morte che rinnegare la christiana religione sono stati optimi testimonii quella esser vera, però sono stati chiamati martiri, cioè testimonii della nostra vera fede. Questa è la propria significatione del vocabolo. Ma perché tale testimonianza hanno facto chon gravi tormenti et aspre morti, per questo spesse volte pigliamo martyrio per pena et tormento, et così qui. Chosì el Petrarcha quando dixe: «brieve soccorso a sì lunghi martyri»; et gli altri spaldi: tal vocabolo non è molto trito né a molti noto. Onde alchuni dicono spaldi significare le mura. Altri dicono che spaldo in lingua romagnuola significa quello che noi diciamo lo spazo, et e Latini dicono pavimento.