Dati bibliografici
Autore: Giorgio Petrocchi
Tratto da: Il Purgatorio di Dante
Editore: Rizzoli, Milano
Anno: 1978
Pagine: 76-87
Ove si faccia eccezione per l’ambiguo ritratto di Catone, custode dell’Antipurgatorio, laica figura sacerdotale di cui si dirà a suo luogo, custodi, «portinai» delle cornici del Purgatorio sono, come già s'è detto, gli angeli, rispondenti solo in parte ai diavoli che sovraintendono ai cerchi infernali: in parte, poiché i diavoli hanno per lo più figura di personaggi mitologici reinseriti nel simbolismo del primo regno con funzioni di artefici di pena o, quanto meno, di vigili strumenti della giustizia di Dio affinché i dannati non si sottraggano alla perennità delle pene. Dell’angelologia tuttavia occorrerà tenere più ampio discorso a proposito del Paradiso (poiché è nella terza cantica che viene trattato il problema delle gerarchie celesti, delle proprietà degli angeli, della loro funzione di tramite tra Dio e l'umanità); per il Purgatorio basti dire che la presenza dei vari angeli è sempre sottoposta ad un profondo processo di variatio narrativa, pur nella indubbia ripetitività dell'atto di cancellare una delle sette P sulla fronte del poeta. Ha una sua «storia» più lunga l'angelo che è a guardia del vero e proprio Purgatorio; dapprima impedisce l’ingresso dei poeti, poi, fatto edotto da Virgilio dell’eccezionalità del viaggio di Dante, e dinanzi alla richiesta di misericordia rivoltagli dallo stesso Dante, dopo essersi battuto tre volte il petto, incide le sette P e apre la porta del Purgatorio con le due chiavi (l’una d’oro, a simbolo dell’autorità che Iddio ha concesso ai suoi ministri, l’altra d’argento, a simbolo della sapienza e della prudenza necessarie al sacramento della confessione). Un altro angelo, simbolo dell’umiltà, cancella la prima P, e così nelle altre cornici: l'angelo della misericordia nel passaggio dalla seconda alla terza; l’angelo della pace al termine della terza, l'angelo della sollecitudine nella quarta; l’angelo della giustizia che li avea volti al sesto giro; l'angelo della temperanza nel girone dei golosi; infine (altra prova delle continue innovazioni narrative che Dante opera all’interno della struttura della cantica), nella cornice dei lussuriosi v'è un angelo al di qua del muro di fuoco, ed è l’angelo della carità custode della cornice, e v'è poi un altro angelo al di là delle fiamme, ed è il guardiano che custodisce il passaggio, a forma di ripida scala, che dal settimo girone porta al Paradiso terrestre. Tutte queste figure angeliche creano situazioni narrative e liriche affatto diverse da momento a momento, innovando di continuo le strutture espressive delle parole e delle immagini, in un vasto affresco celestiale che ha i colori e i suoni, tutti, della seconda cantica, con le più varie modulazioni, coi ritmi più diversi, con un affascinante giuoco di quadri poetici che non è tra le cause secondarie della poesia purgatoriale, del «tono» di dolcezza e di finitezza cromatica e melodica.
Nel quadro della simbologia purgatoriale si possono individuare alcuni nuclei centrali: il primo e più rapido è nella valletta dei principi, il più ampio, vario e composito si sviluppa nel Paradiso Terrestre, e ha il suo esemplare maggiore nelle due apparizioni, di Matelda e di Beatrice, il suo momento politico nella profezia del Cinquecentodieci e cinque. Anche di recente ci viene ricordato (da F. Forti) come la scena dell'arrivo del serpe nella valletta non sia stata centralizzata a sufficienza nell’allegoria generale del Purgatorio, se non per quel che attiene all’aspetto più comprensibile della mala striscia, il serpente che ha tentato Eva e che ora viene discacciato dagli angeli, cioè dalla Grazia divina. La funzione tentatoria del serpe è stata estesa a tutto il processo di purgazione delle anime: nel qual processo il momento della tentazione (sul quale tanto si erano trattenuti gli scrittori sacri del Medioevo) è indispensabile per la conoscenza del vizio e il raggiungimento della virtù, «momento effettivo dell’espiazione cristiana, che implica, nella contritio cordis, la meditazione del peccato e della virtù opposta ad esso, coll’odio del primo e l’amore della seconda, i quali comprovano insieme la metanoia del cristiano» (Forti, Magnanimitade p. 89). La scena non è rappresentata davanti a tutte le anime del Purgatorio e nemmeno dell’Antipurgatorio, ma soltanto dinanzi ai principi negligenti, e pertanto simboleggia i conflitti e le lacerazioni ai quali sono sottoposte le terre d’Italia per l’infingardaggine dei regnanti e per l'indifferenza o la lontananza dell’imperatore; dunque la «sacra» rappresentazione della battaglia del serpente e degli angeli ha un significato tanto religioso quanto politico.
Nel corso della processione mistica (sulla quale tra breve ci fermeremo) Beatrice (Purg. XXXIII 37-45) profetizza a Dante che l'aquila che lasciò le penne al carro non resterà per sempre sanza reda, senza un effettivo titolare, poiché verrà un cinquecento diece e cinque, / Messo di Dio, che ucciderà la meretrice (la sede pontificale) e il gigante (il re di Francia). Dante, scriba Dei, auto-proclamatosi profeta dei tempi nuovi, avrebbe in questo misterioso personaggio, il cui numero, DXV, letto in ordine diverso, darebbe DVX, «dux», una seconda figurazione del Veltro, sebbene con una diversa precisazione di particolari, incentrati nella missione imperiale di questo Messo di Dio, chiamato a uccidere, per rinnovarla, la Chiesa, e ad esercitare la potestà di pace e di giustizia in terra. Il momento di redazione di questi ultimi canti, verso il 13 12, e quello di revisione, il 1315, possono consentire un'’identificazione del Dux tanto in Enrico VII, quanto in Cangrande della Scala, o, meglio ancora, in una misteriosa potestà della quale Dante non sa né può dir di più, se non che verrà, perché il mondo non può restare troppo a lungo in questo stato di prostrazione e degenerazione, il messaggio di Cristo deve compiersi, l'umanità tutta dovrà volgersi ai voleri di Dio, i quali sono stati fermissimi tanto nell’istituire la sua Chiesa, quanto nel proclamare la necessaria continuità dell’Impero Romano.
La presentazione emblematica, allusiva eppur in un cerchio affatto indeterminabile, vaghissimo, di Matelda ha indotto gli studiosi a forzare il testo alla ricerca dell’identificazione storica, anziché a sconsigliare o relegare in un angolo non importante la necessità dell’investigazione. Se Dante ha voluto esprimersi per enigmi, il volerli risolvere ad ogni costo è andare contro le intenzioni dello scrittore, soprattutto quando non esiste una prova, interna o esterna, concretissima della persona storica: la contessa Matilde di Canossa (cui credevano il Lana e Pietro di Dante), santa Matilde regina, santa Matilde di Hackenborn, Matilde di Magdeburgo; e s'è giunti persino a formulare ipotesi fuori della denominazione Matelda-Matilde, cioè Maria Maddalena o altri personaggi delle Sacre Scritture e della agiografia medievale. Se dobbiamo respingere seduzioni di «realtà» storica, ciò non significa che dietro il simbolo di Matelda venga fatto divieto di scorgere il riflesso d’un’esperienza giovanile del poeta che trovi il grande corrispettivo e risolvente nel personaggio di Beatrice, cui Matelda è strettamente connessa anche nella fabula simbolico-narrativa del Paradiso terrestre, in un parallelismo Lia-Rachele da un lato, Matelda-Beatrice dall’altro, che consente di risolvere altre cruces della processione mistica. In tal senso sono stimolanti le pagine del Contini, là dove sottolinea una «solidarietà onomastica nella prima quanto nella seconda coppia», in modo da poter sostenere «l'opinione di chi tende a ravvisare in Matelda una delle amate subalterne di Dante, verosimilmente una di quelle della Vita nuova», in netta opposizione al diniego del Barbi che in Matelda s’identificasse una delle «fiorentinelle» amate dal poeta in gioventù.
Il rapporto tra il protagonista e la bella donna, provenga esso da un remoto ricordo, o sia effetto d’una costruzione simbolica che tragga nascita addirittura dal decennale della morte di Beatrice (cioè significhi per il personaggio una mera presenza ideale che completi quella di Beatrice), spiega le ragioni dell'apparizione di un’«altra» donna prima e accanto alla beatissima, il perché del salmo Delectasti cantato dalla donna soletta, che solo più tardi s'inserisce, guidando Dante, vicino alle quattro belle, le ancelle di Beatrice (Purg. XXIX 103-104), fa bere a Dante le acque del Letè e dell’Eunoè. Matelda è, dunque, una «guida», una ripetizione del simbolo di Lia, figura della vita attiva, e una ministra liturgica (simbolo della Chiesa cui è stato affidato da Cristo il compito di amministrare i sacramenti da Lui istituiti). Si può privilegiare uno dei tre compiti di Matelda, sottolineando in modo particolare l'accostamento a Lia e quindi parlando di una vita attiva «perfetta», ovvero ponendo in maggiore risalto la funzione culturale: immersione nell’acqua (nuovo battesimo), e dissetamento dell’anima con l’acqua (un rito non inconsueto, poiché legato alla pratica sacramentale: quantunque qui il rito risulti inventato e orchestrato appositamente per un pellegrino d'eccezione qual è il poeta. Ha scritto il Pézard: «l’anima non potrebbe sposarsi a Dio in mistiche nozze senza l'aiuto di una paraninfa, che è appunto Matelda. Le acque lustrali sono le memorie finalmente ritrovate dall’anima della sua natura divina». Quale ministro rituale e simbolo dell’azione carismatica, Matelda è una ravvivatrice della virtù, facendo riemergere la coscienza morale dell’uomo ad un livello di auto-conoscenza e costringendo (con l'immersione, con la potazione) a purificare la coscienza ora tutta cognita, tutta impegnata nello sforzo di mortificazione ascetica e di purezza spirituale. All’interno di questa esegesi del simbolo, e non per sostituzione d’una figura ad altra, possono ancora trovare spazio altre ipotesi: Matelda come la Sapienza personificata, ovvero come la Filosofia (in un rapporto, quindi, non acclarabile rispetto ai simboli della Donna Gentile e di Virgilio), o la felicità temporale, o infine l'innocenza originaria che godé l’uomo nel Paradiso terrestre prima del peccato originale, ovvero (qui entra il modo di leggere Dante tipico di Giovanni Pascoli) l'Arte nel senso propugnato da s. Tommaso. Tutti questi complessi interrogativi, ognuno dei quali non è del tutto privo di qualche favilla d'ammissibilità, non debbono peraltro vietarci di godere la figura poetica del personaggio, in quell’incantato paesaggio pittorico e musicale della divina foresta e di tutto il panorama figurativo del Paradiso terrestre, realizzato, come ebbe a scrivere il Croce, «in una nuova forma di squisita perfezione, in cui il fascino della gioventù, della bellezza, dell’amore e del riso si esalta in ogni immagine».
Nel racconto del viaggio nel Paradiso terrestre Matelda ha inoltre un’altra funzione, la quale per sé sola non sarebbe sufficiente a spiegare il simbolo che la bella donna esprime, anche nel caso in cui si volesse far coincidere in Matelda tanto il valore della vita attiva quanto quello della vita contemplativa (Lia che va intorno tessendosi una ghirlanda di fiori, e la sorella Rachele che non si disgiunge mai dal suo specchio). È la funzione dell’attesa di Beatrice, il rito preparatorio del ritorno del poeta alla sua stessa origine emotiva e concettuale, la «messa dei catecumeni» celebrata da una donna prototipica sì, ma destinata a dileguarsi, sebbene lentamente, da un territorio dottrinario che d’ora in poi dovrà essere occupato soltanto da Beatrice. Tutti i primi sessantatré canti della Commedia (sessanta multiplo di sei e di tre, e tre numero perfetto) altro non sono che una faticosa preparazione al ritorno di Beatrice, ma dalle fiamme dei lussuriosi all’apparizione di Matelda il ritmo che precede il ritorno della dilettissima, si fa più incalzante. Scoprire i tempi di questo ritmo nella complicata simbologia della processione mistica, è anzitutto affidare un reale valore poetico allo scenario così sovraccarico di figure e riferimenti allegorici, diviso nei due atti della processione mistica, al cui centro vibra la requisitoria della riapparsa Beatrice contro il traviamento del poeta.
Gli elementi che compongono eventi e personificazioni del rito, non offrono insormontabili difficoltà all’esegesi; lo sciogliersi del velame allegorico è piuttosto nel rapporto che lega tra di loro gli elementi stessi, dai sette candelabri d’oro, accesi alla sommità, con cui inizia la processione, e che rappresentano i sette doni dello Spirito Santo, ai susseguenti ventiquattro seniori biancovestiti, procedenti a due a due, con in capo corone di gigli, ed esaltanti la bellezza di una donna, eccelsa tra tutte le figlie di Adamo: sono i libri dell'Antico Testamento. Subito dopo vengono quattro animali, ciascuno dei quali è fornito di sei ali e ha una corona di fronde verdi: i quattro Evangeli, le cui corone sono il segno del trionfo della parola di Cristo, e le sei ali simboleggiano la vastità della potenza speculativa. I quattro animali stanno ai lati d'un carro che è trainato da un grifone, un mostro col corpo di leone, la testa e le ali d’un’aquila, protese in alto. Il triunfal veiculo è la Chiesa trionfante e militante; il carro ha due ruote, che possono essere intese come i due Testamenti (quantunque essi fossero già stati rappresentati), o come la vita attiva e la vita contemplativa; il grifone è Cristo, la cui parte leonina simboleggia la potenza, e quella aquilina la sapienza (Cristo nella sua duplice natura: divina e umana). Le tre donne alla ruota destra sono la Fede (quella vestita di bianco), la Speranza (verde), la Carità (rossa), le tre virtù teologali, mentre alla ruota sinistra procedono quattro donne, le virtù cardinali, Prudenza, Fortezza, Giustizia e Temperanza: tutte quattro in porpora vestite perché mosse prevalentemente dallo spirito della Carità. Appresso tutto il pertrattato seguono due vecchi con abiti disuguali e in portamento austero e dignitoso; l’uno pare un medico (è san Luca, veramente già rappresentato in uno dei quattro Evangelisti, ma qui rivisto nella funzione a lui affidata nel Medioevo, di autore degli Asti degli Apostoli), l’altro ha una spada affilata in mano: è san Paolo, che prima della conversione era soldato nell'esercito romano, e come Apostolo si distinse per la combattività della propria oratoria, la forza dell'insegnamento profuso nelle Lettere. Altri quattro uomini che seguono nella processione in umile paruta, in quanto portatori di messaggi di minore importanza, sono i rappresentanti delle altre Epistole: di san Giacomo, di san Pietro, di san Giovanni e di san Giuda; e di retro da tutti un vecchio solo / venir, dormendo, con la faccia arguta: è la figura dell'Apocalisse, opera di sogno profetico vissuto da un veggente che sa penetrare, «arguto», nel mistero. Questi ultimi sette personaggi sono vestiti di bianco come i seniori, ma recano corone di rose e di altri fiori vermigli, anziché di gigli; infatti sono bianchi gli scrittori del Vecchio Testamento, la cui essenziale virtù fu la fede nel Cristo venturo, e rossi gli scrittori del Nuovo Testamento, che per l'appunto testimoniano la passione di Gesù, e quindi la parola di Cristo venuto. Giunto il carro dinanzi al poeta, si ode un tuono e la processione subitamente s’arresta, in attesa di un evento eccezionale che richiede una sosta, una meditazione su tutto ciò che è stato prima e su quel che ora accadrà.
Il secondo tempo della mistica processione avviene dopo l'apparizione di Beatrice (di cui vedremo tra breve), la scomparsa di Virgilio, i rimproveri aspri della donna, la contrizione di Dante, la magia del paesaggio silvestre che si fonde armoniosamente con i profondi significati del simbolo religioso (paesaggio visto e accarezzato con l'occhio del pittore, e interiore paesaggio di un'anima assetata della conquista di se stesso), il pianto di Dante che consacra il sublime istante in cui l’uomo ha preso coscienza della Grazia divina che è scesa in lui e lo ha redento da tutte le passioni e i desideri terreni, e infine lo svenimento, l'immersione nelle acque del Letè per le cure di Matelda. Le quattro virtù cardinali accompagnano il poeta, pentito e redento dal suo pianto, dinanzi a Beatrice e lo invitano ad ammirare la bellezza di lei, nei cui occhi Dante vede riflesso, come il sole in uno specchio, il grifone, che gli appare ora nella sua sembianza leonina, ora in quella d’aquila. Dopo il lungo mirare la bellezza di Beatrice da parte del poeta, la processione riprende il suo incedere, attuando una totale conversione dalla parte destra. Beatrice scende dal carro (e ciò simboleggia il suo approssimarsi a Dante, nella funzione di guida nel Paradiso), e tutti pronunciano il nome di Adamo, a significare il ritorno all’origine, attraverso il ripercorrere le varie fasi della storia umana così com’essa è stata predisposta dalla volontà di Dio; e quindi circondano una pianta completamente spoglia di foglie e di ogni altra fronda. Un nuovo complesso simbolo è affidato a questa rappresentazione della pianta dispogliata: forse l’Umanità in tutta la sua storia, o anche l’ubbidienza ai voleri divini, o la Chiesa, o anche il diritto naturale, più probabilmente l’albero della scienza del bene e del male, la Sapienza che è necessaria perché l’uomo possa completare il proprio ciclo ascetico, ma non esaustiva del processo di redenzione che ha bisogno della salvaguardia e protezione della Chiesa. Il grifone lega il carro ai piedi dell'albero con un ramo che è tratto dall’albero stesso, e la pianta sùbito si rifà nuova: Cristo, sia Figlio di Dio che Figlio dell'Uomo, afferma il suo rispetto per i voleri di Dio, infranti da Adamo e da Eva, ma con l’Incarnazione rigenera di nuova linfa la pianta, cioè l'umanità, ch'è redenta dalla Passione, dal sacrificio di Gesù che è qui rappresentato dai fiori che spuntano sul ramo, men che di rose e più che di viole (il rosso del sangue di Cristo e il violaceo dei paramenti sacri durante la Settimana Santa?). Il poeta è di nuovo in preda ad un profondo sonno, al cui termine scorge Beatrice che è seduta ai piedi dell'albero in compagnia delle virtù cardinali e teologali: «il fondamento primo stesso su cui poggia il magistero di Beatrice, l’opera e il messaggio di Cristo, ravvivante conciliazione dell'umano e del divino, della Ragione umana e della Sapienza testamentale» (Mattalia). Sarà compito di Matelda illuminare il poeta delle ragioni per le quali il resto della processione ha seguito il grifone nel suo ritorno al cielo, poiché tutta la liturgia che sino ad ora si è svolta dinanzi agli occhi di Dante, vuole rappresentare la nascita e la costituzione della Chiesa, la quale ora trionfa con Cristo nell’alto cielo. Ma l’apprendimento rituale non è ancora terminato. Un'aquila cala dal cielo, spezzando le foglie e i fiori e rompendo la scorza dell'albero, colpendo il carro che si piega come suole avvenire a nave travolta dal fortunale, ed è assalito da una volpe magra e affamata, che Beatrice volge in fuga. L'aquila simboleggia l'Impero di Roma che dapprima combatte la chiesa di Cristo, mentre più tardi esso s’inserirà nella storia cristiana, che sopporta la tempesta e le resiste; ma un pericolo maggiore insidia la comunità fondata da Cristo: la volpe è l'eresia, l'errore fraudolento che reca danno all’interno della Chiesa stessa, ma non può prevalere contro la Teologia (Beatrice) che la discaccerà. L'aquila tenta di nuovo di colpire il carro, che lascia coperto delle proprie penne. Appare un drago, simbolo di Lucifero, del Maligno; il drago porta via una parte del carro (si allude al sorgere e al rapidissimo diffondersi della religione di Maometto), mentre la restante parte si trasforma in un mostro con tre teste sopra il timone e una per ogni lato: allegoria della degenerazione della Chiesa per colpa delle sue mene temporalistiche. Sul moncone del carro-mostro si pone un gigante (forse il simbolo del re di Francia, anzi la personificazione di Filippo il Bello) che si bacia cupidamente con una puttana sciolta, una meretrice discinta: è la Curia Romana nella sua più perversa personificazione, quella di Bonifacio VIII o di Clemente V, non solo in rapporto peccaminoso con la Francia (il bacio è il simbolo dell'iniziale adulazione di Filippo nei riguardi del papa), ma flagellata dal gigante (la Chiesa poi umiliata da Filippo il Bello). Il gigante infine distacca il mostro dall’albero e lo trascina per la selva, di modo che il poeta non possa più nulla discernere (l'allontanamento della sede del vicario di Cristo da Roma, l’inizio del papato avignonese).
La fittissima serie delle allusioni allegoriche resterebbe, tuttavia, un’elaborata opera di letterato duecentesco, d'un creatore non epigono di complicate rappresentazioni simboliche, destinate a far storia, nella nostra cultura, sin dall’ Amorosa Visione del Boccaccio e dai Trionfi del Petrarca, istituendo anzi un grande ponte tra i poemi dottrinari del sec. XIII e quelli dell’incipiente Umanesimo, se tutto lo scenario della processione non fosse predisposto come fondale d’un evento di centrale importanza in tutta la Commedia, anzi in tutto l’Alighieri: il ritorno di Beatrice, la riapparizione della donna amata in gioventù, compianta (pur tra le alterne vicende del «traviamento») per un decennio, recata ora a sublimazione metaforica e spirituale in quanto simbolo della dottrina di Dio.