Dati bibliografici
Autore: Raffaele Pinto
Tratto da: Tenzone. Revista de la Asociación Complutense de Dantología
Numero: XII
Anno: 2011
Pagine: 105-152
Il fatto che Dante, all’inizio dell'VIII canto dell’Inferno, retroceda ad un momento della narrazione già superato alla fine del canto precedente diede luogo, come è noto, alla leggenda relativa alla composizione precoce, già fiorentina, dei primi sette canti della Commedia, leggenda riportata da Boccaccio e che è priva di fondamento, come quasi tutti i lettori moderni ritengono. Resta però il problema, variamente aggirato dalla critica, di una incongruenza abbastanza stridente: avendo già superato il quinto cerchio ed essendo giunti ai piedi della torre che ostruisce l’accesso al sesto, il narratore ci riconduce al momento in cui i due poeti sono ancora sull’estremo superiore del cerchio, in procinto di attraversare il pantano. Il che produce lo stranissimo fenomeno di un evento narrato due volte nel giro di pochi versi e secondo peripezie molto diverse l’una dall’altra. L’incongruenza, infatti, non è solo cronologica o di tempi narrativi. In realtà i versi finali del canto settimo dicono, confermando quanto era implicito nei versi precedenti, che la palude stigia è stata superata dai due poeti camminando (127-130):
Così girammo de la lorda pozza
grand’arco, tra la ripa secca e ‘l mézzo,
con li occhi vòlti a chi del fango ingozza.
Venimmo al piè d’una torre al da sezzo.
Si consideri che soggetti di «venimmo» sono, senz’altro, Dante e Virgilio, poiché di Flegiàs il lettore non sa ancora nulla, e che la precisazione «tra la ripa secca e il mézzo» esclude un attraversamento in barca. Il lettore deve pensare che, camminando, i due poeti bordeggiano la palude ed arrivano ai piedi della torre. Bisogna, di conseguenza, immaginare che la palude vada degradando e restringendosi verso il basso, in modo tale da consentire ai viandanti di arrivare al limite del circolo inferiore ed alla torre che lì si trova, senza entrarvi dentro (come d’altra parte è logico che sia). In precedenza, i versi 103-108 ci hanno informati che il movimento a piedi dei due poeti si svolge parallelo a quello del ruscello che conduce allo Stige:
L’acqua era buia assai più che persa;
e noi, in compagnia de l’onde bige,
intrammo giù per una via diversa.
In la palude va c’ha nome Stige
questo tristo ruscel, quand’è disceso
al piè delle maligne piagge grige.
E ugualmente a piedi Dante e Virgilio hanno costeggiato il pantano formato dal ruscello, fino raggiungere la torre. Si osservi inoltre che lo stesso sintagma, «al piè», indica la parte superiore del cerchio, cui si discende dal cerchio precedente, e la sua parte inferiore, che coincide con l’entrata della torre. Nulla fin qui ci fa sospettare che il superamento della palude implichi il suo attraversamento in barca.
Nel canto VIII, invece, innanzitutto, al «piè de l’alta torre» a cui si è arrivati camminando si oppone «la cima» osservata da lontano molto prima di arrivarci, e poi, nei versi 79-81, scopriamo che ad una torre (cioè una seconda torre che sovrasta la porta d’accesso alla città di Dite, IX 36) si è arrivati proprio in barca, attraversando la palude e non costeggiandola:
Non senza prima far grande aggirata,
venimmo in parte dove il nocchier forte
«Usciteci», gridò, «qui è l’intrata».
La contraddizione risulta evidente dal fatto che nei due brani vengono narrati due volte l’aggiramento della palude e l’avvicinamento alla torre (o alle torri): la prima volta a piedi («girammo [...] grand’arco [...] Venimmo»), la seconda in barca («Non senza far grande aggirata, venimmo»). E si noti come, restando uguali i predicati, cambiano i soggetti: due, nel primo caso, tre nel secondo. D’altra parte, i versi iniziali del canto VIII correggono quelli finali del VII anche su un altro punto: qui i poeti aggirano la palude con gli occhi fissi sui dannati sommersi in essa («con li occhi vòlti a chi del fango ingozza»), e percepiscono l’esistenza della torre solo quando vi arrivano nei pressi; nel canto successivo, invece, il narratore racconta che il loro sguardo fu attratto dalla torre e dai segnali che dalla sua cima vengono emessi molto prima di giungervi. Videro la torre, quindi, durante l’attraversamento del cerchio:
To dico, seguitando, che assai prima
che noi fossimo al piè de l’alta torre,
li occhi nostri n’andar suso a la cima
per due fiammette che i vedemmo porre,
e un’altra da lungi render cenno,
tanto ch’a pena il potea l’occhio tòrre.
Il fatto che tutte e due le volte si sottolinei ciò che sia lui che Virgilio osservavano, e cioè in un caso i dannati immersi nel fango, nell’altro la torre e le «fiammette» che vi appaiono in cima, rende ancora più evidente la artificiosità della sutura fra momenti del racconto che narrano la stessa circostanza in modi clamorosamente contraddittori. Infatti subito dopo arriverà Flegiàs con la sua barca, e Virgilio gli chiederà di trasbordarli dall’altra parte della palude («più non ci avrai che sol passando il loto»). Tutta la situazione e il dialogo fra il guardiano e il poeta lasciano intendere che non c’è altra maniera di attraversare il cerchio che non sia quella di navigare in barca nella palude. Il che smentisce quanto sapevamo dal canto precedente. Si osservi, inoltre, che il verso finale del canto VII è la consueta formula di passaggio da un cerchio all’altro e da un canto (o un momento narrativo) all’altro, sempre adottata ed esaurita nell’ultimo verso del canto (tranne il VII in cui il passaggio da un cerchio all’altro si produce anche all’interno del canto):
I, 136: Allor si mosse, e io li tenni dietro.
II, 142: intrai per lo cammino alto e silvestro.
III, 136: e caddi come l’uom cui sonno piglia.
IV, 151: E vegno in parte ove non è che luca.
V, 142: E caddi come corpo morto cade.
VI, 115: quivi trovammo Pluto, il gran nemico.
VII, 130: Venimmo al piè d’una torre al da sezzo
Il carattere formulare di questi finali di canto e di cerchio, fino al VII dell’Inferno, apparirà ancora più chiaramente confrontando i quattro versi finali del VI e i quattro versi finali del VII:
Noi aggirammo a tondo quella strada, / Così girammo della lorda pozza
parlando più assai ch’i’ non ridico; / grand’arco tra la ripa secca e ‘l mézzo,
venimmo al punto dove si digrada: / con li occhi vòlti a chi del fango ingozza.
Quivi trovammo Pluto, il gran nemico. / Venimmo al piè d’una torre al da sezzo.
In entrambi i casi assistiamo ad un aggiramento del cerchio fino al punto in cui si scende al cerchio successivo, punto in cui è situato l’ostacolo che i due poeti dovranno superare: in un caso Pluto, nell’altro la torre. Nel caso di Pluto l’ostilità del guardiano è esplicita («il gran nemico»); nel caso della torre è implicito, ma prevedibile, che si tratti di una struttura difensiva. Che questa torre d’accesso al cerchio si trasformi, nel canto VIII, in due torri che si mandano segnali per avvertire i difensori dell’arrivo di Flegiàs e, forse, di persone indesiderate, tutto ciò fa parte della nuova peripezia che Dante ha inventato nel canto VIII, che si ripercuote a ritroso sul settimo alterando il corso e la sostanza degli avvenimenti già narrati.
È chiaro allora che l’avventura di Flegiàs e Filippo Argenti non è semplicemente un passo indietro che colma una lacuna della narrazione, ma una riscrittura di quella parte del testo che narrava l’attraversamento della palude. L’inciso seguitando manifesta quindi tutto il contrario di ciò che letteralmente dice, ossia, non ‘proseguendo il racconto interrotto’ ma piuttosto ‘interrompendo ed alterando il corso naturale e logico del racconto’. La sua finalità è dissimulatoria: serve ad occultare una palese incongruenza strutturale dell’edificio narrativo che il poeta sta costruendo. Come vedremo, non è l’unica figura di dissimulazione, in questi cruciali canti fra il VII e l'XI.
In effetti il verso 81 del canto VIII («Io vidi più di mille su le porte») potrebbe (con qualche forzatura) riallacciarsi alla fine del canto precedente, proseguendo la narrazione senza alcuna perdita di informazione, e 1 versi 1-80 potrebbero così essere considerati come un arricchimento di contenuti romanzeschi che si aggiungono al già detto, e la cui esigenza Dante avvertì a posteriori, sia pur a costo di introdurre elementi di evidente incongruenza sul piano fattuale. Contro questa ipotesi gioca però la considerazione che l’episodio introdotto, cioè il trasbordo nella barca di Flegiàs e lo scontro con Filippo Argenti, per la potenza dei due personaggi, rompe un equilibrio strutturale che nel canto precedente era perfetto, e cioè la descrizione dello Stige come luogo di castigo per due vizi opposti, l’ira e l’accidia, i peccatori dell’uno visibili in superficie, quelli dell’altro invisibili perché immersi nella melma, gli uni e gli altri descritti secondo una unica visione d’insieme. I versi 1-63 del canto VIII sbilanciano nettamente il testo in favore degli iracondi, mostrandoci una figura mostruosa che ne rappresenta le caratteristiche ed un personaggio che ne mette in scena i comportamenti. Si consideri, inoltre, che le discussioni sulla tipologia dei peccatori puniti nello Stige sono state in gran misura sollevate proprio dal personaggio dell’Argenti, che solo in parte corrisponde ai tratti dell’iracondo, ed è stato visto da molti commentatori come esempio di orgoglio, cioè superbia. Lo squilibrio strutturale che i due episodi introducono è così stridente da far affacciare il sospetto che l’incongruenza rifletta un mutamento di progetto romanzesco meno locale e che gli episodi aggiunti siano conseguenza di una revisione del piano dell’opera, e quindi della struttura dell’Inferno, di tipo globale e sostanziale.
Come si è appena visto, e come ha osservato Anna Maria Chiavacci Leonardi nel suo commento, il canto VIII è il primo in cui l’inizio di canto non coincide con l’ingresso in un cerchio. Finora siamo entrati nel primo cerchio all’inizio del IV, nel secondo all’inizio del V, nel terzo all’inizio del VI, nel quarto all’inizio del VII, che termina preannunciando l’ingresso nel sesto, che invece si produrrà solo alla fine del IX. Se poi si considera la distribuzione dei peccati nei vari cerchi, si osserva un analogo mutamento di criterio: riservato il primo cerchio al Limbo (come vuole la tradizione, che lo situa sul bordo superiore dell’Inferno), dal secondo al quinto viene seguito lo schema dei sette vizi capitali, in ordine inverso di gravità (secondo il criterio che sarà poi quello del Purgatorio), cioè lussuria, gola, avarizia/prodigalità, ira e accidia. Ci aspetteremmo quindi, nei canti successivi, l’invidia e la superbia (descritte magari nello stesso canto, come avarizia, prodigalità, ira ed accidia, oppure in canti diversi, come lussuria e gola) . Invece il sesto cerchio viene dedicato ad un peccato che non figura tra i vizi capitali, cioè l’eresia, che rappresenta una colpa o un delitto di tipo “ideologico” che nulla ha a che vedere con la antica tipologia morale del cristianesimo (quella, per intenderci, originariamente fissata da Evagrio Pontico). Ed inoltre la narrazione dell’attraversamento dei cerchi infernali, nei canti successivi, si espande in misura notevolissima rispetto a ciò che avevamo visto finora: tenendo conto della distribuzione dei canti fra i vari cerchi dell’Inferno, contro 5 canti per i primi cinque cerchi (più l’Antiinferno degli ignavi) ne abbiamo ben 27 per gli ultimi quattro. La sproporzione risulta ancor più evidente se si pensa al perfetto equilibrio, fra la estensione del testo e il paesaggio narrato, delle due cantiche successive. Il sospetto che si affaccia è, insomma, di nuovo, che fra il settimo e l’ottavo canto il piano generale dell’Inferno (e quindi dell’opera in generale) abbia subito una profonda revisione, che ne ha ampliato in modo sostanziale le dimensioni testuali. Intendo dire che fino al canto VII Dante aveva forse in mente una Commedia molto più breve di quella che avrebbe poi composto.
Spinge in questa direzione un altro macroscopico scompenso narrativo, che in termini automobilistici potremmo definire come improvvisi ed ingiustificati “cambi di marcia”. I primi tre cerchi vengono percorsi e descritti ciascuno nello spazio di un canto: al primo cerchio (il Limbo) corrisponde il canto IV, al secondo cerchio (la lussuria) corrisponde il canto V, al terzo cerchio (la gola) corrisponde il canto VI. Nel VII la narrazione subisce una precipitosa accelerazione: in un solo canto sono percorsi due cerchi e descritti 3 peccati (avarizia/prodigalità, ira, accidia).
Perché? La domanda è tanto più legittima se si pensa alla “marcia indietro” del canto VIII: come se fosse pentito di aver impresso alla narrazione un ritmo troppo accelerato, Dante torna indietro e riracconta, con copia di dettagli, ciò che prima aveva narrato a volo d’uccello (e con le contraddizioni che si sono appena viste). Si osservi, poi, che l’apparizione di Flegiàs ricostruisce lo schema che era stato seguito nei canti precedenti, e cioè l’esistenza di un guardiano del cerchio che tenta di impedire il passaggio dei due poeti (Caronte, sul primo cerchio; Minosse, sul secondo; Cerbero, sul terzo; Pluto, sul quarto), criterio che era stato soppresso relativamente al quinto cerchio. Con il personaggio di Flegiàs il poeta corregge l’omissione. Ma al prezzo di raccontare per la seconda volta, e in modo diverso, quell’attraversamento del quinto cerchio già narrato nel canto precedente. Insomma, a me sembra molto probabile che all’altezza dei canti VII - VIII Dante ripensa e modifica in maniera sostanziale il piano dell’opera che sta scrivendo. Le incongruenze che stiamo rilevando sono appunto gli indizi di tale mutamento di disegno.
Se partiamo dalla impostazione teologica dei primi canti (basata, cioè, sui vizi capitali, come il Purgatorio), possiamo avventurare ipotesi abbastanza plausibili su tale ripensamento. Se Dante avesse proseguito il Poema, dopo il VI canto, con il criterio seguito nei canti già scritti, il settimo sarebbe stato dedicato al 4° cerchio e alla avarizia (accompagnata dal suo contrario, la prodigalità, come nel Purgatorio), l’ottavo al 5° cerchio e alla accidia, il nono al 6° cerchio e alla ira, il decimo al 7° cerchio e alla invidia e l’undicesimo all’8° cerchio e alla superbia. Alla ira e alla accidia, che nel settimo canto occupano lo stesso luogo fisico (la palude stigia), erano quindi con ogni probabilità destinati cerchi e canti diversi, in questa più che probabile prima versione dell’Inferno che sto ricostruendo. L’invidia e la superbia, poi soppresse, avrebbero occupato un canto ciascuna. Bisogna poi considerare che una zona finale destinata a Lucifero e ai traditori (la Caina di cui parla Francesca) esisteva certamente già in tale progetto primitivo, innanzitutto perché ad essa si allude nel canto V, ma poi anche perché serve a bilanciare il primo cerchio del Limbo. Essa avrebbe occupato il 9° cerchio ed il canto XII. Avremmo quindi uno schema perfettamente analogo a quello che sarà poi del Purgatorio: due zone estreme (quella liminale del primo cerchio e quella terminale del nono cerchio, analoghe all’ Antipurgatorio e al Paradiso terrestre) e sette cerchi intermedi corrispondenti ai sette vizi capitali (come le sette cornici purgatoriali). Relativamente al Purgatorio, si può anche pensare che nel progetto primitivo dell’opera, l’Antipurgatorio e il Paradiso terrestre occupavano due cornici, in modo tale da avere una perfetta simmetria fra le tre regioni dell’al di là: 9 cerchi nell’ Inferno, 9 cornici nel Purgatorio, 9 cieli nel Paradiso. Le cornici sarebbero poi state ridotte da 9 a 7 perché la simmetria tra Inferno e Purgatorio diventò non più significativa.
La struttura originaria della Commedia prevedeva, dunque, secondo tale ipotesi, 1 canto introduttorio al Poema più 11 canti per cantica, cioè 1+33, e 9 cerchi, cornici e cieli. Con ogni probabilità era questa l’idea della Commedia e dell’Inferno prima che, all’altezza dei canti VII-VIII, Dante decidesse di adottare un diverso schema morale, e quindi un diverso criterio di descrizione geografica dell’Inferno. Una ipotesi del genere ha il vantaggio, come ora si vedrà, di spiegare le incongruenze appena descritte come effetto inevitabile della alterazione di tale struttura primitiva, alterazione che si produce quando il Poema è già iniziato e non è possibile al poeta riscriverne 1 canti iniziali. Programmato originariamente sulla lunghezza di 12 canti, l'Inferno presentava allora la seguente struttura:
I. Introduzione al Poema
II. Dialogo di Beatrice e Virgilio e giustificazione del viaggio
III. Ignavi
IV. Cerchio 1 - Limbo
V. Cerchio 2 - Lussuriosi
VI. Cerchio 3 - Golosi
VII. Cerchio 4 - Avari e prodighi
VIII. Cerchio 5 - Accidiosi
IX. Cerchio 6 - Iracondi
X. Cerchio 7 - Invidiosi
XI. Cerchio 8 - Superbi
XII. Cerchio 9 - Traditori e Lucifero
La domanda da porsi, adesso, è questa: perché uno schema del genere viene alterato condensando in solo canto, il VII, ciò che, logicamente e secondo le premesse già poste, avrebbe dovuto occupare tre canti? Credo che una ipotesi plausibile sia la seguente: posta una estensione predeterminata del testo (XII canti) e posta parimenti una materia poetica predefinita (il Limbo + 7 peccati + i Traditori), Dante decide, quando aveva già scritto il canto VI, di aggiungere nuove categorie di peccatori a quelle già previste e corrispondenti ai sette vizi capitali, lasciando però inalterata l’estensione del testo, cioè il numero dei canti programmati (XII), e il numero dei cerchi previsti (9). Deve allora ridistribuire la nuova materia in uno spazio geografico e testuale diventato relativamente più esiguo, concentrando nello stesso cerchio peccati che erano destinati a cerchi diversi e nello stesso canto cerchi che erano destinati a canti diversi. Il che determina l’accelerazione del canto VII appena descritta: due cerchi e tre peccati in un solo canto. I nuovi cerchi e i nuovi peccati che entrano nella galleria infernale, secondo il nuovo progetto, sono, presumibilmente, quelli che ora leggiamo dopo il canto XI, cioè la violenza e la frode.
Il problema si presenta ora al poeta in termini squisitamente quantitativi: se si aumenta il numero dei peccati e resta invariato il numero dei cerchi e dei canti, bisogna comprimere in un solo cerchio più peccati e in un solo canto più cerchi. Ed è appunto ciò che accade nel canto VII. Possiamo ipotizzare il nuovo ordinamento dell’Inferno, così come esso si presentava nella mente del poeta all’altezza del VII canto, in questo modo:
I. Introduzione al Poema
II. Dialogo di Beatrice e Virgilio e giustificazione del viaggio.
III. Ignavi
IV. Cerchio 1 - Limbo
V. Cerchio 2 - Lussuriosi
VI. Cerchio 3 - Golosi
VII. Cerchio 4 - Avari e prodighi; Cerchio 5 - Accidiosi e iracondi
VII. Cerchio 6 - Invidiosi e superbi
IX. Cerchio 7 - Violenti
X. Cerchio 8 – Fraudolenti
XI. Cerchio 9 - Traditori
XII. Lucifero.
Di tale ricostruzione, puramente ipotetica (nel senso che la distribuzione dei peccati fra i cerchi VIII e XII potrebbe essere stata diversa da quella che qui indico), ciò che mi preme sottolineare è il fatto che Dante, quando scrive il canto VII, ha già deciso di aggiungere nuove categorie di peccatori (violenti e fraudolenti), ma intende conservare l’estensione prevista del testo (12 canti dell’Inferno) e la struttura ideologica dei sette vizi capitali più i traditori; le due nuove tipologie (violenti e fraudolenti) verrebbero aggiunte ed introdotte dopo la rassegna dei vizi e prima del finale di cantica destinato ai traditori ed a Lucifero. È necessario supporre che durante un breve periodo (la redazione del canto VII) il poeta non vide contraddizione fra il sistema tradizionale dei vizi capitali e le nuove tipologie, poiché la concentrazione di peccati nel VII ha la evidente finalità di liberare spazio geografico e testuale per nuovi contenuti, ma non intacca il criterio ideologico seguito finora.
Dopo aver composto il canto VII, e prima di comporre l’VIII, però, il poeta cambia di nuovo idea, e decide di ampliare l’estensione del testo, cioè il numero dei canti, portandoli fino agli attuali 34 dell’Inferno (e quindi 100 per l’intera opera), in modo da dare alla nuova materia appena programmata uno sviluppo testuale molto maggiore. La qual cosa gli consente di riprendere il cerchio ed il peccato appena abbandonati e di dilatare inoltre l’accesso al sesto cerchio per ben due canti. La finalità generale dell’operazione va molto al di là, sul piano strutturale, dei nuovi episodi introdotti nel cerchio che stava per essere abbandonato: posta la necessità di una più ampia e articolata materia poetica, invece di condensarne la rappresentazione nel numero di canti originariamente programmati, Dante espande le dimensioni dell’opera in modo da poter procedere, a partire dal X, con velocità variabile, in funzione delle esigenze narrative e delle peripezie romanzesche. L’incremento delle dimensioni testuali dell’opera permetterà al poeta di dare adeguato sviluppo ai nuovi temi e personaggi che saranno aggiunti, e gli permetterà altresì di rompere lo schematismo strutturale «un canto - n cerchi - n peccati» che ha rispettato fino al VII. Tale revisione strutturale dell’Inferno ha però un contraccolpo decisivo sulla organizzazione ideologica della cantica, poiché l’ampliamento sostanziale della parte dedicata ai nuovi peccati rende non più operativo il sistema dei vizi capitali, il cui spazio risulterebbe insignificante rispetto a quello dedicato ai nuovi peccati: 4 canti contro 26. Il problema che si pone ora al poeta è quindi quello di sopprimerlo, innanzitutto eliminando le già previste categorie della invidia e della superbia, che, come adesso vedremo, saranno sostituite dalla eresia, e poi dissimulando la sua esistenza nei canti già scritti, attraverso una riclassificazione a posteriori dei cinque vizi che lì erano stati trattati.
Che l’incongruenza osservata nel passaggio dal settimo all’ottavo cerchio sia di tipo strutturale, che riguardi cioè l’ordinamento complessivo dell’Inferno, è confermato da un’altra serie di incongruenze, che hanno richiamato l’attenzione di alcuni lettori della Commedia (ma che non mi risulta siano mai state messe in rapporto con quelle appena considerate), e cioè la descrizione del sistema dei vizi che determina la distribuzione dei peccatori fra i vari cerchi, in Inf. XI. Come si ricorderà, qui Virgilio spiega a Dante, in un primo intervento, in che modo sono organizzate le pene ed i relativi peccati del basso Inferno, cioè dei cerchi 7, 8 e 9. A partire dalla distinzione ciceroniana fra ingiuria prodotta «con forza» e ingiuria prodotta «con frode», e, all’interno di quest’ultima, distinguendo la frode nei confronti di «colui che ‘n lui fida» da quella nei confronti di «quel che fidanza non imborsa», vengono illustrate le caratteristiche dei violenti (7° cerchio), dei fraudolenti (8° cerchio, cioè Malebolge) e dei traditori (9° cerchio). L'aspetto più notevole di questa categorizzazione è la nozione di ‘ingiuria’, cioè il male che si commette a danno d’altri, violandone i diritti (nozione che è molto più pertinente ad un ambito giuridico di quanto non lo sia ad un ambito teologico).
Fin qui, apparentemente, nessun problema. La perplessità suscitata nei critici dal discorso di Virgilio riguarda soprattutto i cerchi precedenti, quelli dal secondo al sesto. Alla precisa domanda del protagonista sulla differenza fra i peccati puniti nei cerchi superiori e quelli puniti nella città di Dite, Virgilio risponde irritato che Aristotele distingue nitidamente fra incontinenza e malizia (e «matta bestialitade», vv. 82-83), per cui bisogna considerare i vizi dei cerchi 2-5 (lussuria, gola, avarizia e prodigalità, ira ed accidia) come peccati di incontinenza (meno gravi) e quelli degli ultimi tre (violenza, frode e tradimento) come peccati di malizia (più gravi). Sorprende l’insolita severità con cui Virgilio taccia di delirio l’innocente domanda posta da Dante, severità che si spiega, a mio avviso, come un tentativo da parte del poeta di presentare al lettore come cosa del tutto ovvia ciò che invece è palesemente incongruente (vv. 76-84):
Ed elli a me «Perché tanto delira»,
disse, «lo ‘ngegno tuo da quel che sòle?
o ver la mente dove altrove mira?
Non ti rimembra di quelle parole
con le quai la tua Etica pertratta
le tre disposizion che ‘I ciel non vole,
incontenenza, malizia e la matta
bestialitade? E come incontenenza
men Dio offende e men biasmo accatta?».
Credo che si tratti qui di una nuova figura di dissimulazione. Al fine di prevenire obiezioni alle incoerenze che presenta la struttura morale dell’Inferno, ed in particolare all’arbitrario passaggio da uno schema teologico, cioè il sistema dei vizi capitali (più il Limbo) dei canti dal IV al VII, ad uno giuridico, cioè i delitti di ingiuria dei canti dal XII al XXXIV, Dante presenta gli uni e gli altri come rispondenti ad una unica tipologia morale che ha il suo fondamento in Aristotele. Relativamente a tale tipologia, la critica si è soffermata, in particolare, su due questioni: da un lato, che ne è della «matta bestialitade» (esplicitamente indicata dal poeta nel riferimento alla Etica Nicomachea), e dall’altro quale luogo occupa in questo schema l’eresia (inspiegabilmente ignorata sia nel primo discorso di Virgilio che nel secondo; e si osservi che l’eresia viene ignorata anche dal personaggio-Dante, che chiede delucidazioni solo sui cinque vizi puniti nei cerchi 2, 3, 4 e 5). D’altra parte, la imperfetta concettualizzazione delle tipologie di vizio qui considerate risulta evidente se si compara il discorso di Virgilio in Inf. XI con quello di Purg. XVII, in cui Dante segue fedelmente il sistema etico di Tommaso che integra e fonde l’etica cristiana con quella aristotelica, nel quadro di una teoria generale dell’amore che risulta, oltre tutto, perfettamente compatibile con l’eros teorizzato in sede poetica dallo stesso Dante. Non credo che l’argomento, pur plausibile, di una ancora non matura assimilazione dei principi aristotelico-tomisti basti a spiegare le gravi lacune della teoria morale esposta in Inf. XI. E credo invece che tutto si chiarisca con il passaggio dal primo al secondo piano dell’opera, cioè dal primo al secondo ordinamento dell’Inferno.
Il discorso iniziale di Virgilio (vv. 16-66) illustra il significato dei nuovi peccati che Dante ha deciso di aggiungere, e si riferisce quindi alla parte dell’opera ancora da scrivere. Al riguardo, bisogna tener presente che il tradimento, in quanto zona specificamente luciferina, era già destinato al nono cerchio, nel primo ordinamento dell’Inferno. Nel nuovo ordinamento, avendo accorpato avarizia, ira e accidia in un solo cerchio (il quinto) e superbia ed invidia (poi rietichettate come eresia) in un altro cerchio (il sesto), Dante disponeva di due cerchi “liberi”, il settimo e l’ottavo, da riempire con nuove tipologie di vizi che non potevano, però essere dedotti dal sistema dei vizi capitali, già sfruttato. È qui che interviene il prezioso suggerimento del De officiis, con la sua nozione di iniuria e la distinzione tra le sue due modalità («aut vi aut fraude»), giacché i due cerchi che si sono liberati potranno essere riempiti con una ricca tipologia di comportamenti perversi che rispondono alla chiara distinzione ciceroniana (insieme i due cerchi presentano ben 13 sottocategorie: quasi il doppio di quante ne presentano i 5 cerchi dal secondo al sesto). L’aggiunta di una ulteriore distinzione tra i fraudolenti (contro chi si fida e chi non si fida), ha il solo scopo di giustificare la presenza, già prevista, dei traditori nel nono cerchio. D’altra parte, la definizione di ‘malizia’, come concetto generale cui subordinare la nozione di ‘ingiuria’, permetterà a Virgilio, nel suo secondo intervento, di distinguere aristotelicamente i peccati di malizia del basso Inferno da quelli di incontinenza dell’alto Inferno. Si badi bene che della distinzione ciceroniana a Dante interessa solo l’astratta distinzione iniziale. I peccati concretamente puniti nel settimo ed ottavo cerchio sono interamente farina del sacco del poeta, che con ogni probabilità ha adattato la scelta della tipologia dei vizi ai personaggi che aveva deciso di rappresentare.
Il problema che immediatamente dopo si pone è come rendere compatibili i peccati descritti fra i canti V e VIII, che si basano sul sistema dei vizi capitali, con lo schema giuridico di ascendenza ciceroniana appena illustrato. È qui che interviene, come semplice ed imperfetta pezza d’appoggio, l’etica aristotelica con la sua distinzione tra incontinenza e malizia. L’asprezza del rimprovero di Virgilio a Dante ha appunto la finalità di occultare la mistificazione, e di presentare come logico e naturale ciò che invece non ha alcuna logica intrinseca, e dipende esclusivamente dalla necessità di ridefinire il significato etico dei canti già scritti alla luce della teoria morale che il poeta seguirà nei canti ancora da scrivere. Le tracce di tale forzatura sono evidentissime negli elementi che restano fuori dal discorso teorico, e cioè la «matta bestialitade» da una parte, che non si sa dove collocare, e l’eresia dall’altra, che viene completamente ignorata. Che tali incoerenze non inficino la potenza estetica dei canti in questione, in particolare di quelli dedicati alla eresia, e che forse ne siano addirittura una condizione, non ci esime, naturalmente, dal rilevarle, soprattutto se esse ci aprono uno spiraglio sulla genesi inventiva del Poema, che fu certamente molto più tormentata ed accidentata di quanto la sua finale perfezione lasci supporre.
E dunque, piuttosto che escogitare soluzioni di tipo dottrinale che rendano conto delle contraddizioni in cui incorre il discorso di Virgilio in Inf. XI (per esempio una implicita, ma quanto mai improbabile, e comunque inspiegabilmente sottaciuta, identificazione della eresia con la «matta bestialitade»), mi sembra più proficuo ed economico considerarle come conseguenze del cambio di progetto intervenuto all’altezza dei canti VIIVIII, che implica la presenza, nell’Inferno, di due diverse strutture morali, la prima operante nei canti III-VII, la seconda nei canti XI-XXXIV. Ciò significa che la prima parte del discorso di Virgilio descrive il nuovo Inferno che Dante ha programmato, e il criterio classificatorio che seguirà nei canti successivi, mentre la seconda riflette il tentativo, necessariamente impreciso, di creare a posteriori una coerenza strutturale fra la parte già scritta dell'Inferno e quella ancora da scrivere, adattando al nuovo modello, di ispirazione classica, basato sul diritto romano e sulla teoria morale aristotelica, le colpe descritte nei cerchi 2-5, che chiaramente riflettono lo schema dei vizi capitali. L'ipotesi che qui di seguito propongo alla attenzione degli studiosi ha la finalità di spiegare tutte le incongruenze osservate (sia quelle dei canti VII-VIII che quelle del canto XI) attraverso la ricostruzione dei due progetti che presiedono alla stesura dell’Inferno, imperfettamente conciliati nella teoria esposta da Virgilio. In particolare mi propongo di mettere in evidenza il primo di tali progetti, occultato dal poeta ma ben visibile, attraverso indizi clamorosi, nel testo.
Il dato più evidente da cui bisogna partire è l’originaria struttura “teologica” dell’Inferno, perfettamente riconoscibile nei canti dal primo al settimo e che gli antichi commentatori, più attenti dei moderni alle implicazioni dottrinali dei vizi lì descritti, cercano a tutti di costi di giustificare nel testo. Ricapitolando quanto si è osservato nei paragrafi precedenti, essa prevedeva, nel progetto primitivo, sette sezioni corrispondenti ai sette vizi capitali (come le sezioni in cui si divide il Purgatorio), più una zona iniziale destinata al Limbo e una zona finale destinata ai traditori e culminante in Lucifero. Lo schema è evidente nella progressione dei vizi dal secondo al quinto cerchio, cioè lussuria, gola, avarizia (e il suo contrario, la prodigalità), ira e accidia. La città di Dite, di cui si arriva alla torre d’entrata alla fine del VII canto, comprendeva quindi i due peccati maggiori, cioè la superbia e l’invidia, più l’area propriamente luciferina dei traditori. Il confronto con il Purgatorio è, di nuovo, illuminante: come s’è visto, la serie dei vizi nei primi sette canti riproduce, in ordine inverso di gravità e successione, quella del Purgatorio, cioè lussuria, gola, avarizia, accidia, ira. Dovrebbero seguire, a partire dal canto VIII, invidia e superbia, ma è a questo punto che il poeta cambia sostanzialmente il progetto iniziale e “cancella” l’originario sistema dei vizi capitali, eliminando superbia ed invidia dal catalogo dei vizi. La conseguenza è che i canti I-VII sono interamente leggibili a partire dal primo progetto, mentre i canti XI-XXXIV devono essere letti a partire dal secondo. Coesistono quindi due idee dell’Inferno, che per semplicità definisco come “teologica” (quella relativa ai canti I-VII) e “aristotelica” quella relativa ai canti (XIXXXIV). Il peccato di eresia, ignorato dal poeta nella discussione con Virgilio di Inf. XI, mostra e dissimula nello stesso tempo la sutura fra i due ordinamenti.
Quando cambia il suo progetto di Poema, Dante non può eliminare o trasformare, ovviamente, i canti già scritti (con ogni probabilità già noti e pubblicati almeno nel ristretto circolo degli amici e corrispondenti). Decide però, inoltre, di non eliminare neppure i personaggi che dovevano esemplificare i due vizi finali, l’invidia e la superbia, ai quali sono legate implicazioni di tipo biografico il cui svolgimento considera irrinunciabile. In effetti le tracce dell’originario progetto “teologico” sono chiaramente visibili nel canto X, nel quale i due personaggi che il protagonista incontra sono Farinata (esempio supremo di superbia) e Cavalcante (esempio di invidia per interposta persona: l’invidia del figlio Guido nei confronti di Dante). La categoria della eresia, così estranea sia al sistema dei vizi capitali, sia alla idea giuridica della ingiuria, viene addotta con la esclusiva finalità di conservare nel testo l’incontro con i due personaggi, svincolandoli però dalle categorie morali alle quali erano inizialmente assegnati. Bisogna ipotizzare, quindi, che i personaggi di Farinata e Cavalcante facevano già parte del primo progetto dell’Inferno, all’interno del quale dovevano esemplificare, però, non l’eresia, ma la superbia e l’invidia. Quando Dante rinuncia alla idea teologica dei vizi capitali, non potendo sacrificare due personaggi così essenziali (perché attraverso di essi sono potentemente messi in evidenza i motivi politici da una parte e letterari dall’altra dell’opera che sta scrivendo), introduce una categoria morale del tutto nuova all’interno della quale essi possono essere riclassificati, senza perdere, però, le caratteristiche morali di superbia (politica) e di invidia (poetica) di cui erano esempio e secondo le quali furono pensati, ma non più rappresentandole sul piano strutturale. Di qui l'invenzione del paesaggio cimiteriale degli eretici, così potente sul piano poetico e ideologico ma (proprio per questo) del tutto incongruente con gli schematismi dei vizi capitali e della Etica Nicomachea.
Il canto X dell’Inferno è così eccelso, dal punto di vista della poesia, e i due personaggi lì intervistati sono così straordinari sul piano estetico, che la semplice domanda: cosa c’entrano Farinata e Cavalcante con le eresie che arroventavano la cultura e la società europea di quegli anni viene spesso elusa. Però è legittimo chiedersi come mai su un problema così scottante come quello della ortodossia religiosa Dante scelga esempi così estranei alle grandi battaglie ideologiche del tempo, che vengono infatti sostanzialmente ignorate nel trattamento dei due personaggi, i quali sollevano problemi non certo dottrinali, come ci aspetteremmo da eretici, ma di tipo politico, in un caso, e letterario, nell’altro. Il fatto è che la categoria della eresia, ristretta inoltre alle sole questioni della mortalità dell’anima individuale (epicureismo) e della natura solo umana di Cristo (fotinismo), viene introdotta con l’unico fine di riclassificare la posizione morale dei due personaggi, che non possono più riflettere l’ordinamento, ormai superato, dei vizi capitali. Essa risponde semmai, come vedremo, a personalissime ragioni ideologico-letterarie che hanno un rapporto solo tangenziale con le grandi battaglie sulla ortodossia religiosa della sua epoca. D'altra parte, il fatto che Farinata e Cavalcante stiano materialmente assieme, nella stessa tomba infuocata, dissimula genialmente il fatto che erano originariamente destinati a cerchi diversi, e la stessa straordinaria opposizione dei loro caratteri riflette l’antica differenza di situazione dei due personaggi. Si tratta quindi, nel canto X, di una nuova figura di dissimulazione: per evitare che si riconosca in essi l’antico ordinamento dell’Inferno, che li assegnava a peccati e cerchi diversi, Dante li ha descritti in una posizione di radicale prossimità, incastrando l’una nell’altra le due conversazioni. Che sia venuta fuori una invenzione narrativa e romanzesca stupefacente per la sua originalità ed efficacia estetica non è ostacolo al riconoscimento nell’episodio delle tracce dell’antico progetto: ai due personaggi erano con ogni probabilità riservati due cerchi e due canti diversi.
Un dettaglio importante, un ulteriore indizio del primitivo progetto dell’opera, si trova in VI 79-87, quando Dante chiede a Ciacco dove si trovino i fiorentini più insigni («che fuor sì degni» e che «a ben far puoser gli ingegni») delle generazioni immediatamente precedenti la sua. La risposta di Ciacco non precisa la loro localizzazione, limitandosi a dire che si trovano nella parte più profonda dell’Inferno (85-87):
E quelli: «Ei son tra l’anime più nere;
diverse colpe giù li grava al fondo:
se tanto scendi, là i potrai vedere».
I personaggi citati da Dante (Farinata, il Tegghiaio, Iacopo Rusticucci, Arrigo, il Mosca) risulteranno variamente distribuiti fra i cerchi sesto e ottavo. Dalle parole di Ciacco non si evince, però, la complessa articolazione del basso Inferno né la metafora urbana che lo descrive (“la città di Dite”). Sebbene le colpe siano «diverse», tutti sono situati da Ciacco in una zona comune genericamente indicata come il «fondo» dell’Inferno. Se si pensa alla città di Dite come originariamente formata da tre cerchi percorsi nello spazio di tre canti, le parole di Ciacco risultano molto più comprensibili e giustificate, e, su un piano strettamente testuale, la posizione ravvicinata di quei personaggi, nella domanda posta dal protagonista, risulta molto più plausibile. Ma fra il X, di Farinata, e il XXVIII di Mosca dei Lamberti ce ne sono ben 18. Tutto ciò suggerisce che la prospettiva del poeta sull’opera che sta scrivendo, il suo colpo d’occhio sull’Inferno ancora da scrivere, all’altezza del VI canto, gli mostra una estensione testuale sicuramente più ridotta di quella che risulterà alla fine. Quindi un Inferno di 11 canti (più quello introduttivo).
La decisione di triplicare il numero dei canti dovette maturare, inoltre, quando i tempi di stesura si rivelarono molto più rapidi del previsto. Basti pensare che fino al 1307 Dante aveva scritto 17 canzoni (comparabili, per estensione, con i canti della Commedia), e che i 34 canti inizialmente pianificati rappresentano il doppio di tale produzione. Il poeta poteva pensare, quando decide di dedicarsi alla stesura del Poema, che un impegno di questo tipo era già notevolmente arduo, tale comunque da occuparlo durante la vita intera. All’altezza del settimo canto si rende conto, però, che il suo ritmo di versificazione è relativamente rapido, e inoltre che la materia potenzialmente poetizzabile è molto più ampia di quella prevista. Quindi aggiunge nuove categorie di peccatori, ristrutturando completamente il paesaggio infernale non ancora visitato. Il settimo, l’ottavo e il nono cerchio sono classificati secondo la tipologia ciceroniana descritta in Inf. XI, 16-66, mentre i vizi descritti nei primi cinque cerchi sono (a posteriori) riclassificati secondo la teoria morale aristotelica, cancellando la originaria impostazione teologica dei vizi capitali e dissimulando, attraverso la colpa dell’eresia, la primitiva destinazione dei due personaggi di Farinata e Cavalcante alla superbia e alla invidia.
Il pasticcio “giuridico-teologico” risultante da tale cambio di progetto in itinere, cioè le forzature in cui Dante deve incorrere per adattare i criteri morali delle parti già scritte a quelli delle parti ancora da scrivere, emerge con particolare evidenza se consideriamo una inconfessata fonte tomista della tripartizione dei violenti, nel 7° cerchio, che rivela ancora una volta, se mai ce ne fosse bisogno, la artificiosità del nuovo schema dei vizi adottato dal poeta, anche nella parte relativa ai canti successivi all'XI. Nella Summa Theologiae (1a-2ae), Tommaso dedica una serie di questioni, da 71 a 89, alla considerazione dei vizi e dei peccati («de vitiis et peccatis»). La q. 72 affronta in nove articoli il problema della distinzione dei peccati, in funzione degli oggetti, del carattere spirituale o materiale, delle cause, delle vittime, del tipo di reato, etc. Ci interessa, in particolare, l'articolo 4 nel quale i peccati vengono distinti in ragione di colui o coloro contro i quali il peccato si commette («secundum eos in quos peccatur»), ragione che sembra comportare, ma inopportunamente, una triplice prospettiva:
Videtur quod inconvenienter peccatum distinguatur per peccatum quod est in Deum, in proximum, et in seipsum. Illud enim quod est commune omni peccato, non debet poni quasi pars in divisione peccati. Sed commune est omni peccato quod sit contra Deum, ponitur enim in definitione peccati quod sit contra legem Dei, ut supra dictum est. Non ergo peccatum in Deum debet poni quasi pars in divisione peccatorum.
Vediamo qui la fonte diretta di Inf. XI, 28-33, che distingue le persone nei confronti delle quali si esercita la violenza, cioè Dio, sé, il prossimo:
Di violenti il primo cerchio è tutto;
ma perché si fa forza a tre persone,
in tre gironi è distinto e costrutto.
A Dio, a sé, al prossimo si pòne
far forza, dico in loro e in lor cose,
come udirai con aperta ragione.
Dante ha però trasformato la generale nozione di peccato, di cui è questione in Tommaso, nella nozione particolare di violenza, che è solo uno dei possibili modi di peccare. La finalità dell’intervento è chiara: grazie ad esso la tripartizione del peccato secondo la vittima della ingiuria può apparire come sviluppo della definizione giuridica ciceroniana, e ne viene cancellato, invece, l’originario contenuto teologico, secondo il quale essa è stata elaborata (da Tommaso).
Nella risposta Tommaso dichiara legittima la distinzione, e lo fa con argomenti estremamente rilevanti ai fini del nostro discorso. Posto che il tratto essenziale del peccato è il disordine del comportamento («peccatum est actus inordinatus»), tale disordine si dispiega innanzitutto su due piani: quello della razionalità (1a regola razionale che deve improntare i comportamenti umani) e quello della divinità (la legge divina che deve sempre essere rispettata):
Unus quidem secundum comparationem ad regulam rationis, prout scilicet omnes actiones et passiones nostrae debent secundum regulam rationis commensurari. Alius autem ordo est per comparationem ad regulam divinae legis, per quam homo in omnibus dirigi debet.
Tuttavia, poiché l’uomo è un animale sociale, esiste un terzo tipo di disordine che induce al peccato, che riguarda appunto la vita in società:
Et si quidem homo naturaliter esset animal solitarium, hic duplex ordo sufficeret, sed quia homo est naturaliter animal politicum et sociale, ut probatur in I Polit., ideo necesse est quod sit tertius ordo, quo homo ordinetur ad alios homines, quibus convivere debet.
D’altra parte, e relativamente ai primi due “disordini”, quello contro la ragione e quello contro Dio, se è vero che ogni infrazione alla legge razionale è anche infrazione alla legge divina, non ogni infrazione alla legge divina, però, è infrazione alla legge razionale. Ciò che risulta offensivo per la fede, infatti, non rientra nel terreno della ragione umana (poiché non compete alla razionalità decidere se si crede o no). È dinanzi a Dio che il soggetto risponde della sua fede, non dinanzi ai principi della razionalità (e quindi della filosofia):
Horum autem ordinum secundus continet primum, et excedit ipsum. Quaecumque enim continentur sub ordine rationis, continentur sub ordine ipsius Dei, sed quaedam continentur sub ordine ipsius Dei, quae excedunt rationem humanam, sicut ea quae sunt fidei, et quae debentur soli Deo.
Ma quali sono i peccati contro la legge di Dio e contro la fede che non implicano, anche, un’infrazione contro le leggi della razionalità?
Unde qui in talibus peccat, dicitur in Deum peccare, sicut haereticus et sacrilegus et blasphemus.
Ecco dove, in una prospettiva teologica “normale”, troveremmo gli eretici: fra i peccatori contro la fede! E insieme a loro troveremmo coloro che commettono sacrilegio ed i bestemmiatori, la cui caratteristica teologicamente significativa non è la violenza, come vuole Dante, ma la ostilità nei confronti di Dio (vv. 46-51):
Puossi far forza ne la deitade,
col cor negando e bestemmiando quella,
e spregiando natura e sua bontade;
e però lo minor giron suggella
del segno suo e Soddoma e Caorsa
e chi, spregiando Dio col cor, favella.
Degne della massima attenzione sono anche le osservazioni relative al peccato contro la razionalità umana, che per Tommaso comprendono ciò che Dante definisce come peccati di incontinenza (cioè gola, lussuria e prodigalità):
Similiter etiam secundus ordo includit tertium, et excedit ipsum. Quia in omnibus in quibus ordinamur ad proximum, oportet nos dirigi secundum regulam rationis, sed in quibusdam dirigimur secundum rationem quantum ad nos tantum, non autem quantum ad proximum. Et quando in his peccatur, dicitur homo peccare in seipsum, sicut patet de guloso, luxurioso et prodigo.
Mentre i peccati contro il prossimo consistono nel furto e nell’omicidio, che Dante situa rispettivamente nella settima bolgia dell’8° cerchio e nel primo girone del 7°:
Quando vero peccat homo in his quibus ad proximum ordinatur, dicitur peccare in proximum, sicut patet de fure et homicida.
Da questo confronto del secondo, e definitivo, ordinamento dell’Inferno con le sue fonti tomiste, risulta, credo, con evidenza, che Dante ha contaminato la teoria classica, quale era formulata in Cicerone, con quella cristiana teorizzata da Tommaso. Lo ha fatto, però, stravolgendo completamente l’una e l’altra. Mentre in Tommaso il peccato contro Dio comprende eresia, sacrilegio e bestemmia, in Dante la violenza contro Dio comprende bestemmia, sodomia ed usura. Il modello giuridico ciceroniano copre e dissimula la fonte teologica, profondamente rimaneggiata in funzione della personalissima visione del poeta, che lungi dall’attenersi rigidamente ad un modello qualunque, liberamente ed arbitrariamente ricostruisce il sistema etico del suo al di là.
Se ora pensiamo alla diffusione del settenario dei vizi capitali, sia al livello popolare, per i fini pastorali della chiesa, sia al livello dottrinale, per la griglia teorica che esso offriva alle distinzioni sempre più sottili dei teologi; e poi pensiamo alla inattualità (ai limiti dell’esotismo) dello schema giuridico ciceroniano adottato da Dante nel basso Inferno (schema, per altro, che lo stesso poeta utilizza con fini di copertura di un discorso morale che risulta essere sostanzialmente teologico), non potremo evitare una semplicissima conclusione, e cioè che Dante decise di abbandonare il sistema dei vizi capitali solo perché, avendone quasi esaurite le risorse romanzesche all’altezza del settimo canto, aveva bisogno di una nuova griglia che gli permettesse di ampliare la galleria di peccati e peccatori e, contestualmente, le dimensioni del Poema. Se egli fin dal principio avesse avuto in mente un Inferno di 34 canti, avrebbe fatto ciò che in effetti fece per il Purgatorio, cioè distribuire la materia narrabile intorno ai sette vizi, portando a 3-4 canti il trattamento di ciascuno ed aumentando lo spazio testuale da dedicare alle zone estreme. È significativo, credo, che nell’eccellente ricostruzione della tradizione medievale dei sette vizi capitali, Carla Casagrande e Silvana Vecchio adducano il solo Purgatorio, per illustrare la posizione di Dante al riguardo, e che relativamente all’Inferno considerino (d’accordo con la critica dantesca moderna) come pertinente esclusivamente la teoria illustrata da Virgilio nel canto XI, ignorando i canti V-VII, in cui è operativo, invece, il settenario. Si osservi però in che modo le due studiose riassumono la teoria del canto XI:
Dante [...] per l'Inferno aveva adottato un diverso sistema di classificazione delle colpe, distinguendo i vizi che separano dal bene (ignavia e mancanza di fede) da quelli che inclinano al male (incontinenza, violenza, frode, tradimento) (Casagrande-Vecchio 2000: XXXX).
Notevolissimo è innanzitutto il fatto che venga eliminato qualunque riferimento alla teoria ciceroniana addotta da Dante, e poi che venga individuata una categoria comune agli ignavi e agli eretici, che li oppone a tutti gli altri in quanto «vizi che separano dal bene». In questo modo i due peccati assenti dai discorsi di Virgilio dell’XI, cioè ignavia ed eresia, vengono recuperati attraverso una ortopedizzazione del sistema morale dell’Inferno, che riconduce tutti i peccati presenti nella cantica ad una visione teologicamente plausibile. Si tratta, non c’è dubbio, di una illazione arbitraria senza fondamento nel testo della Commedia. Essa è però rivelatrice delle profonde aporie dell’Inferno dantesco, che si spiegano solo, io credo, con questo mutato progetto del Poema che lo obbliga ad adottare un modello diverso dal settenario dei vizi, di cui il poeta aveva già esaurito le risorse ideologico-romanzesche nei primi canti.
Infine, e relativamente ai peccati contro Dio, se stesso e il prossimo, 0sserveremo che la concezione di Tommaso risulta profondamente rimaneggiata in due aspetti, che qui soprattutto ci interessano: nella ampiezza concettuale della nozione di peccato (generale in Tommaso, ristretta alla sola violenza in Dante), e poi nella conseguente esclusione della nozione di eresia dallo schema esplicativo del basso Inferno. Capiamo però ora il senso di questa esclusione: essa diventa incompatibile con la triplice distinzione del settimo cerchio perché qui la nozione astratta di peccato si è ridotta a quella concreta di violenza (ritenuta compatibile, invece, con il peccato di bestemmia). Ma proprio tale esclusione libera il peccato di eresia da ogni ipoteca dottrinale e permette al poeta di utilizzarla per riclassificare i peccati di invidia e superbia, dispiegando al massimo grado l'immaginario relativo ad essa e piegandola alle finalità inventive del nuovo progetto, in cui gli elementi soggettivi entrano, come ora vedremo, prepotentemente in gioco.
Non può essere scartata, infine, relativamente alla esclusione della eresia dal catalogo dei peccati di inferno XI, una figura di ironia metaletteraria, dopo un canto, il X, in cui le peripezie romanzesche del viaggio del protagonista si sono completamente confuse con le ragioni di poetica dello scrittore. Dante ha appena appreso che i dannati dell’Inferno, e concretamente, nel sesto cerchio, Cavalcante, hanno conoscenza del passato e del futuro ma non del presente. Ebbene, il cerchio che sfugge sia alle domande di Dante che alla spiegazione di Virgilio è appunto quello in cui nel presente si trovano, come se i due poeti fossero vittime, nel sesto cerchio, di quello stesso difetto di visione che caratterizza la percezione dei dannati!
Il trittico formato dai canti VIII-IX-X sembra inventato proprio per fare da introduzione, nel suo insieme, al nuovo Inferno che inizia con l’undicesimo. Bisogna innanzitutto osservarne l’unità di composizione, che isola nitidamente i tre canti sia da ciò che precede che da ciò che segue, e che rende possibile, o addirittura esige, un approccio interpretativo che ne metta in evidenza la trama delle connessioni. Ciò che comunque preliminarmente bisogna osservare è il fatto che sia l’ottavo che il nono si concludono con la brusca interruzione di una sequenza narrativa che viene ripresa nel canto successivo come se non ci fosse stata alcuna pausa nella recitazione del canto:
VII - IX:
e già di qua da lei discende l’erta,
passando per li cerchi senza scorta,
tal che per lui ne fia la terra aperta.
Quel color che viltà di fuor mi pinse
veggendo il duca mio tornare in volta,
più tosto dentro il suo novo ristrinse.
IX-X
E poi ch’a la man destra si fu vòlto
passammo tra i martiri e li alti spaldi.
Ora sen va per un secreto calle,
tra ‘l muro de la terra e li martiri,
lo mio maestro, e io dopo le spalle.
Finora, invece, come s’è visto, ogni fine di canto aveva narrato anche la conclusione di una sequenza narrativa coerentemente svolta dal principio alla fine. Ed anzi, coincidendo sempre la fine della sequenza con l’abbandono di un cerchio, queste uscite sono state evidenziate in due occasioni da uno svenimento del protagonista: così è alla fine del canto III (passaggio dell’Acheronte e accesso al primo cerchio) e alla fine del V (abbandono del secondo cerchio). Nella sua prima ideazione, l’Inferno prevedeva una rigorosa omologia fra le pause del testo (la fine del canto) e i finali degli episodi (consistenti ciascuno nell’attraversamento di un cerchio), ricordando magari al lettore con frequenza la natura onirica del viaggio nell’al di là, la cui narrazione si preoccupava poco di fornire dettagli realistici quali sono i momenti di transito da un cerchio all’altro e volentieri li sacrificava a questo tema che, fondamentale fin dal principio della Commedia, e rimemorato strategicamente in alcuni finali di canto, diventa poi secondario 0 implicito nel nuovo progetto testuale. La nuova strutturazione del testo prevede l’abbandono di tale omologia e l’accavallamento degli episodi fra un canto e l’altro, oltre che la loro distensione tematica. Elementi, questi, che nel trittico formato dai canti VIII-X appaiono in modo molto palese. Come se il poeta volesse compensare l’estraneità del peccato di eresia ad entrambi gli schemi dell’Inferno (quello primitivo basato sui vizi capitali e quello definitivo basato sulla nozione di ‘ingiuria’), la sua trattazione si estende per tre canti e culmina nei due personaggi che, destinati originariamente ad esemplificare la superbia e l’invidia, vengono “sussunti” dalla idea di eresia, e per ciò esclusi dalle tipologie del vizio descritte nel canto XI.
Percepiamo, inoltre, il solido filo narrativo e tematico che unisce I tre canti anche attraverso una parola chiave alcuni motivi che li percorrono. Il primo è la metafora urbana di cui il poeta si serve per descrivere il «basso Inferno», espressione che appare per la prima volta in VIII, 75, in stretta concomitanza con l’altra, «città (di) Dite»:
Lo buon maestro disse: «Omai, figliuolo,
s’appressa la città c’ha nome Dite,
coi gravi cittadin, col grande stuolo».
E io: «Maestro, già le sue meschite
là entro certe ne la valle cerno,
vermiglie come se di foco uscite
fossero». Ed ci mi disse: «Il foco etterno
ch’entro l’affoca le dimostra rosse,
come tu vedi in quetso basso inferno».
Già i segnali intravisti all’inizio del canto, introducono allusivamente il tema della città come metafora dell'Inferno, che andrà sviluppandosi nel trittico fino a culminare nella «città del foco» di cui parla Farinata (X, 22), nella cui prospettiva di personaggio l’Inferno si è completamente identificato con la «città partita», cioè Firenze. E poi le fosse e le mura, che difendono l’accesso; le meschite, osservate dall’alto (VII, 70); le porte, di nuovo, dove accorrono i difensori e che saranno chiuse in faccia a Virgilio (VIII, 115-116); le «dolenti case» (VIII, 120); la «città dolente» (IX, 32); la porta invano difesa e finalmente aperta dal messo celeste (IX, 89). Il nuovo Inferno è dunque innanzitutto un Inferno cittadino e fiorentino, nel quale la biografia del poeta irrompe in modo clamoroso e traumatico, come appunto appare nello scontro con Filippo Argenti, e della quale gli scontri, meno violenti ma più drammatici, con Farinata e Cavalcante sono il punto d’arrivo, cui tendono, preparandoli, i due canti precedenti.
Capiremo meglio come i canti VII e VIII siano strettamente finalizzati al trattamento dei due peronaggi-chiave osservando un secondo svolgimento tematico che percorre i tre canti, una parola che appare con frequenza martellante in tutti e tre i segmenti, e che ci darà una pista per comprendere il nuovo ruolo che il personaggio-poeta assume nei confronti della materia trattata, a partire da questo nuovo progetto di Poema, e di conseguenza i nuovi valori estetici ed ideologici che l’opera acquista a partire da tale revisione. Si tratta del termine ‘(di)sdegno”. In Inf. VIII, esso viene usato per caratterizzare il comportamento di Dante nei confronti di Filippo Argenti (44-45):
Alma sdegnosa!
Benedetta colei che in te s’incinse.
Le parole di Virgilio contengono una precisa allusione scritturale, che investe il personaggio Dante di valori cristologici che formano l’intelaiatura profonda del trittico (e che forniscono, come vedremo, la soluzione dell’indovinello rappresentato dai versi 61-63 del canto IX: «O voi che avete li ‘ntelletti sani», etc.). Il termine riappare, poco dopo, per descrivere l’atteggiamento dei diavoli che proteggono l’entrata nella città di Dite («allor chiusero un poco il gran disdegno», 88). E va osservata l'ampiezza semantica del termine, che serve a definire tanto le virtù cristologiche di Dante quanto la perversione anticristiana dei demoni. Nel canto successivo, il messo divino appare al poeta «pien di disdegno» (v. 88), ed anche qui le allusioni cristologiche sono evidenti, poiché «al passo / passava Stige con le piante asciutte» (vv. 80-81). D'altra parte, nel canto X, anche Farinata, che sembra avere «l’inferno a gran dispitto» si rivolge a Dante, «quasi sdegnoso», confermando il valore anfibologico del disdegno, che può caratterizzare tanto l’atteggiamento di Cristo e di Dante quanto quello dei loro nemici. Infine, in Inf. X, 61-63, la enigmatica risposta di Dante a Cavalcante, nella quale il disdegno viene ambiguamente attribuito a Guido e/o a Beatrice, cita letteralmente le parole di Cristo agli ebrei:
[...] Da me stesso non vegno.
Colui che attende là per qui mi mena
forse cui Guido vostro ebbe a disdegno.
La ambiguità semantica del termine viene normalmente spiegata con la distinzione fra “ira mala” e “santo sdegno”. Credo però che essa abbia una origine per nulla teologica ed esclusivamente letteraria, giacché allude alle differenze di poetica fra Dante e Guido (come appunto si vede qui, nel canto X). La disseminazione, nel trittico, di queste occorrenze è infatti certamente intenzionale, sia nelle allusioni scritturali, sia in quelle che fanno riferimento ai rapporti di poetica fra sé e l’amico. L’area semantica del ‘disdegno’ rappresenta, anzi, il nucleo ispiratore di tutti e tre i canti, che fanno da cerniera fra il vecchio e il nuovo ordinamento dell’Inferno, ridefinendo in modo sostanziale il ruolo che vi svolge il protagonista, a partire dalla più importante delle marche segnaletiche che identificano la sua poetica rispetto a quella dell’amico, cioè il disdegno, normalmente riferito, nella loro lirica, alla donna amata ed inteso da entrambi come concezione esclusivamente dolorosa e negativa del desiderio. Tutto ciò suggerisce che il ripensamento della struttura del Poema è profondamente legato ad una più lucida percezione del significato e della direzione della propria carriera letteraria, nella quale un momento essenziale fu e continua ad essere la polemica con l’amico sulla possibilità di razionalizzare il desiderio, grazie alla quale Dante ha potuto precisare i contenuti ideologici della propria poesia. Ora, finalmente, quella polemica gli si rivela in tutte le sue implicazioni, che il nuovo progetto di Poema può plasmare su un piano di definitiva maturazione intellettuale. Per ciò che riguarda il ruolo che l’io del poeta acquista in tale nuovo progetto, così come esso ci appare per la prima volta in questi tre canti, potremmo dire, semplificando, che il personaggio-Dante si trasforma da poeta-cronista dell’Inferno (e dell’al di là) in poeta giustiziere e redentore (nell’al di qua). L’episodio di Filippo Argenti, in questo senso, è estremamente illustrativo, poiché qui vediamo il protagonista assumere un ruolo, di giustiziere appunto, del tutto inedito. Finora Dante ha assistito allo spettacolo dei castighi infernali con reazioni di orrore, pietà o compassione:
III, 24: per ch’io al cominciar ne lagrimai.
III, 31: E io ch’avea d’orror la testa cinta.
III, 131-132: de lo spavento / la mente di sudore ancor mi bagna.
IV, 43: Gran duol mi prese al cor quando lo ‘ntesi.
V, 72: pietà mi giunse, e fui quasi smarrito.
V, 140-141: di pietade / io venni men così com’io morisse.
VI, 3: che di trestizia tutto mi confuse.
VI, 59: mi pesa sì ch’a lagrimar mi ‘nvita.
VII, 36: E io, ch’avea lo cor quasi compunto.
Nei confronti dell’Argenti il suo atteggiamento muta radicalmente, e fin dalle prime frasi lo apostrofa in modo sprezzante, in un crescendo di insulti e crudeltà che culmina nel sadico desiderio di vedere il personaggio seviziato dagli altri dannati (desiderio che verrà prontamente realizzato, per volere certo divino). Da spettatore esterno, eventualmente partecipe della sofferenza di cui è testimone, Dante si è trasformato in vendicativo esecutore di tali sofferenze. Sul piano della scrittura poetica ciò significa che Dante ha acquisito un totale controllo dell’universo immaginario descritto dal Poema, la cui finzione gli si presenta non più come territorio eteronomo al quale egli ha un sia pur privilegiato accesso di testimone-cronista (condizione che il lettore poteva desumere dal confronto del protagonista con altri visitatori dell’al di là, in Inf. II), ma bensì come dimensione costruita in piena autonomia ideale, compiutamente realizzata in virtù del proprio genio poetico. In altre parole, egli è ora pienamente cosciente, ed anzi orgoglioso, del fatto che castighi e premi sono dispensati non da un principio (divino) anteriore e preesistente alla sua iniziativa, ma proprio da chi tale universo immaginario sta creando, e che anche Dio, in fondo, non è altro che personaggio della propria invenzione, che interviene, potremmo dire, su richiesta e per decisione del regista dell’opera (come nel caso di Filippo Argenti). In tale prospettiva, le allusioni cristologiche disseminate nei tre canti rivelano una funzione connotativa precisa, quella di sottolineare ed evidenziare il ruolo redentivo che il poeta si appresta ad assumere (ruolo che la religione convenzionalmente intesa assegna a Cristo e che Dante attribuisce invece a se stesso in quanto poeta). E gli stessi appelli al lettore di VIII, 94-96 e IX, 61-63, i primi di una lunga serie, riflettono questa nuova legittimazione della propria voce poetica e il nuovo principio di autorità che da essa promana. Se leggiamo l’intertesto evangelico che Virgilio cita lodando Dante («Benedetta colei che in te s’incinse», 45), vedremo che Cristo, in quel passaggio, rivendica il potere beatificante della parola di Dio, di cui egli è veicolo (Luca, 11, 27-28):
Factum est autem, cum haec diceret: extollens vocem quadam mulier de turba dixit illi: Beatus venter qui te portavit et ubera quae suxisti. At ille dixit: Quinimmo beati, qui audiunt Verbum Dei et custodiunt illud.
È appunto tale potere che Dante usurpa rivendicandolo per sé e per la propria parola poetica, potere relativo ad una beatitudine ovviamente terrena e non trascendente.
Alla luce di tali considerazioni, il peccato di eresia che 1 tre canti descrivono rivela risonanze e proiezioni soggettive ben più pertinenti delle presunte colpe di eresia che verranno attribuite ai due personaggi che ne saranno esempio. Il passaggio da un convenzionale Inferno “teologico”, ordinato secondo il sistema dei vizi capitali, ad un Inferno ben più innovativo come quello “aristotelico”, basato sulla nozione giuridica di ‘ingiuria’, pur con tutte le incongruenze che si sono indicate, anzi, proprio in virtù della libertà con cui tale nozione viene interpretata, è infatti il segnale di una sovrana libertà immaginativa, di un pensiero che si è scrollato di dosso i saperi autorizzati ed ufficiali, dei quali semmai si appropria traducendoli nel proprio sistema di metafore, ed utilizza schemi ideologici allotrii, cioè “pagani”, la cui giustificazione ideale non ha altro fondamento che non siano le esigenze inventive del poeta. Il contraccolpo di tale mutato disegno sulla concezione dell’opera è sostanziale: messo fra parentesi l’a priori religioso del viaggio, resta in piedi, come sua unica giustificazione, l’iniziativa fantastica del poeta che a quel mondo dà vita e che nell’episodio di Cavalcante viene clamorosamente alla luce. Il profetismo che, a partire da questo momento caratterizzerà la sua voce, è parodica usurpazione di un principio di autorità che coincide con la immaginazione poetica. L’“eresia” di cui Dante è ben colpevole consiste nella scoperta e nella rivendicazione della poesia come dimensione ultima dei saperi e delle pratiche culturali (a cominciare dalla religione e dalla filosofia), che da essa, e solo da essa, sono infine legittimati. Di qui l’alone ammirativo che avvolge il paesaggio morale degli eretici. Si considerino, al riguardo, le osservazioni di Tommaso che contrappone l’eresia alla falsificazione di moneta per sottolinearne la gravità (S.T., 2a 2ae, 11, 3):
Multo enim gravius est corrumpere fidem, per quam est animae vita, quam falsare pecuniam, per quam temporali vitae subvenitur. Unde si falsari pecuniae [...] statim per sacculares principes juste morti traduntur; multo magis haeretici statim ex quo de haeresi convincuntur, possunt non solum excommunicari, sed et juste occidi.
Per Dante, al contrario, quella dei falsari è una colpa peggiore, punita in Malebolge. E, comunque, personaggi in odore di eresia li troviamo anche nel Paradiso, oltre ad essere oggetto di rispetto e ammirazione se si trovano nell’ Inferno (come Farinata e Cavalcante).
È sullo sfondo di tale mutato progetto compositivo che va valutata l’introduzione del personaggio di Filippo Argenti in un momento del percorso già superato. Ignorando la trama precedente, per la quale lo Stige era stato rapidamente attraversato mostrando i peccatori ivi castigati, il narratore torna indietro, e potendo contare su una estensione testuale molto maggiore (34 canti invece di 12) si sofferma su un personaggio nei confronti del quale la sua nuova veste di poeta-giustiziere, e quindi di legislatore dell’al di là, possa già compiutamente manifestarsi. La arroganza del personaggio è infatti figura di ogni potere terreno soddisfatto di se stesso e oltraggioso nei confronti di chi è inerme o indifeso (posizione nella quale Dante, vittima di chi ha il potere a Firenze, non ha alcuna difficoltà a situare se stesso). Ciò che qui però interessa è la sua funzione strutturale, cioè il pretesto che egli offre al protagonista-poeta di mettere in evidenza la nuova cadenza della propria voce e il nuovo significato del proprio ruolo. Si consideri anche che, per rappresentare il rapporto con il personaggio, Dante deve aggiungere un elemento romanzesco che mancava nella precedente descrizione della palude, cioè la barca di Flegiàs, che gli permetterà di entrare fisicamente in contatto con gli iracondi. Ma, lungi dal rappresentare una semplice retromarcia nel corso degli avvenimenti, l’episodio di Flegiàs e Filippo Argenti costituisce una radicale riscrittura del capitolo già scritto, per la quale al precedente rapporto puramente visivo, quindi esterno, del protagonista con l’umanità rappresentata nell’ Inferno, sì sostituisce un rapporto molto più intimo di contatto personale e fisico (e, in questa prospettiva, l’immagine, già virgiliana, della barca che affonda sotto il peso del suo corpo, nel v. 27, è metafora di tale nuova implicazione personale con quella umanità).
L’investitura cristologica che il protagonista riceve da Virgilio («Benedetta colei che in te s’incinse», 45), deve essere letta in implicita palinodia di Inf. II, 32: «Io non Enea, io non Paulo sono»: lì Dante si comparava con illustri visitatori dell’al di là, la cui impresa fu al servizio delle grandi istituzioni che avrebbero guidato l’umanità prima e dopo l’avvento di Cristo; qui, invece Dante si compara direttamente con Cristo, usurpandone anzi la missione redentiva, poiché la poesia che sta creando dovrà rilegittimare una cultura che ha esaurito la sua funzione storica (sia nel suo versante laico che nel suo versante ecclesiastico). Si compari, al riguardo, l’esclamazione di Virgilio, che investe Dante di questa nuova funzione redentiva, con quella del protagonista (II, 133) quando apprende dell’intervento di Beatrice presso Virgilio: «Oh pietosa colei che mi soccorse». La seconda è calco evidente del primo. Ma quale differenza di implicazioni e risonanze soggettive: lì egli era in pericolo di morte e, per questo, soccorso dalla sua amata; in VIII, 45, invece, egli si arroga il potere di intervenire attivamente nel castigo del dannato!
Non è sicuro che Filippo Argenti sia stato condannato, nell’al di là, dalle leggi divine. È sicuro, invece, che egli è stato condannato alla universale abiezione nell’al di qua, dal mondo fittizio creato dal poeta. La nuova parola e il nuovo messaggio che Dante sta inventando occupano il luogo e svolgono la funzione, di verità e giustizia, che la Chiesa e l'Impero hanno da tempo smesso di esercitare. E d’altra parte, ben oltre il caso concreto e tutto sommato irrilevante di Filippo Argenti, il ruolo di giustiziere che il poeta ora si attribuisce risulta con evidenza nella estrapolazione, dal caso singolo, della legge generale (49-51):
Quanti si tegnon or là su gran regi
che qui staranno come porci in brago,
di sé lasciando orribili dispregi.
Il deittico (qui) e il futuro verbale (staranno) alludono molto più reale al testo poetico che Dante sta scrivendo (e concretamente alla parte di Inferno ancora da scrivere) che non al fittizio mondo ultraterreno che sta descrivendo. E palinodia di Inf. II è anche il conflitto con i diavoli e l’intervento del messo celeste. Se lì le lacrime di Beatrice e l’intercessione delle «tre donne benedette» bastavano, con la mediazione di Virgilio, ad aprire al protagonista le porte dell’al di là, e dell'Inferno in particolare, qui né quelle donne né Virgilio sono sufficienti. La possibilità, per Dante, di scardinare la porta della città di Dite dipende dall’esito del violento conflitto fra due istanze estreme: ontologicamente il male e il bene, o anche la verità e l’errore, rappresentati, sul piano figurativo, da Cristo e dai diavoli. Ciò che importa di tale contrapposizione, al di là dei più primari e superficiali motivi folclorici, è, da una parte, l’allusione all’eresia, dall’altra le implicazioni personali e letterarie di essa. Queste ultime risultano evidenti dall’elemento lessicale che lega i diavoli a Cristo: il ‘disdegno’. Campo semantico che definisce la poetica di Dante rispetto a quella dell’amico, sul filo di un rapporto con la teologia che in Guido è negativo (in quanto averroista) e in Dante diventa positivo (grazie alla poetica dell’umiltà, di cui è segno Beatrice nella Vita nuova), il ‘disdegno’ è l’ideale campo semantico al cui interno si scontrano il potere dei diavoli e quello del messo celeste (figura di Cristo). Se gli uni lo oppongono a Dante impedendogli l’accesso alla città (VIII, 88), l’altro lo oppone ai diavoli stessi, aprendo al poeta le porte dell’Inferno (IX, 88). La connessione concettuale e tematica fra i due luoghi, cioè il fatto che Cristo e diavoli si contrappongono su un piano semantico definito dal termine ‘disdegno’ è clamorosamente messa in evidenza dalla coincidenza, nei due canti, del verso in cui appare: il n° 88. Se si tiene conto della polemica fra Dante e Guido sulla nozione di amore (di tipo teologico nel primo, di tipo averroista nel secondo), si ricostruisce agevolmente il simbolismo sotteso a quello scontro: il messo celeste rappresenta la poesia (teologica) di Dante, i diavoli rappresentano la poesia (eretica) di Guido. Al nuovo Inferno che Dante ha ideato, quello che inizia col canto XI, si accede ripercorrendo lo scontro fra le due ideologie poetiche, trascritte nell’immaginario del Poema. L’eresia cui l’episodio introduce è quella che, a partire dalla composizione della Vita nuova, separò il cammino poetico di Dante da quello dell’amico.
Ed è appunto al libello giovanile che bisogna pensare per intendere il senso profondo delle allusioni a Cristo disseminate nei tre canti. Come si ricorderà, nel capitolo XXIV della Vita nuova il rapporto fra la poesia di Guido e quella di Dante viene da quest’ultimo descritta (dopo la processione delle donne amate dai due poeti) secondo una serie di analogie che, nel discorso di Amore, culminano nella evocazione del rapporto fra il Battista e Gesù Cristo:
Quella prima è nominata Primavera solo per questa venuta d’oggi; ché io mossi lo imponitore del nome a chiamarla così Primavera, cioè prima verrà lo die che Beatrice si mosterrà dopo la imaginazione del suo fedele. E se anche vogli considerare lo primo nome suo, tanto è quanto dire ‘prima verrà’, però che lo suo nome Giovanna è da quello Giovanni lo quale precedette la verace luce, dicendo: «Ego vox clamantis in deserto: parate viam Domini».
Su un piano molto meno “impegnato” ideologicamente, ai limiti dello scherzo blasfemo, Dante si era dunque già analogicamente proiettato nella «verace luce» di Cristo e l’aveva fatto appunto per definire la sua posizione nei confronti dell’amico: la sua scoperta del vero significato dell’amore, cioè la “salute” di cui Beatrice è veicolo, era stata preparata dalla poesia di Guido, di cui la propria si voleva superamento. L’identificazione con Cristo è mediata e mascherata, certo, dal personaggio della Gentilissima: è lei che, in quanto miracolo trinitario, eredita gli effetti salvifici di Cristo, occupandone il luogo teologico, in virtù del suo poeta. È ovvio, però, che fuor di metafora spetta a quest’ultimo, che è il suo creatore, il merito di avere rinnovato l’apparizione sulla terra del Redentore.
Nei canti VIII - X dell’Inferno Dante riprende la stessa figura analogica, ma questa volta con ben altra tendenziosità ideologica: non più filtrata dalla controfigura del fantasma femminile, è lui stesso a farsi carico della missione redentiva, indentificandosi analogicamente con Cristo («Benedetta colei che in te s’incinse»). La sua scrittura è sul serio, ora, «verace luce», cioè l’unica possibile testimonianza della verità, la nuova poetica esegesi del cristianesimo, eretica forse, poiché usurpa funzioni proprie della tradizione e della cultura religiose, ma l’unica modernamente possibile. E si capisce anche la funzione essenziale che ebbe, al tempo della Vita nuova, e continua ad avere, al tempo della Commedia, la poesia dell’amico: è in rapporto ad essa che Dante ha maturato la consapevolezza del contenuto di “verità” della propria poesia.
C’è però una differenza fondamentale fra la cristologia della Vita nuova e quella del nuovo Inferno che Dante ha disegnato. Lì fra i due amici c’era ancora un rapporto di solidarietà e complicità, e Guido poteva essere chiamato in causa da Dante come sodale favorevole alle proprie iniziative. La risposta dell’amico, con Donna me prega, aveva invece completamente e polemicamente smentito quella presunzione di complicità, e Dante aveva dovuto prendere atto di una contrapposizione radicale fra la propria sperimentazione “teologica” e l’averroismo lirico del suo primo amico, al quale aveva anzi dovuto dar ragione almeno su un punto, l’impossibilità di dedurre contenuti salvifici dal fantasma erotico femminile. Proprio da tale concessione ai postulati di Donna me prega era partita la sperimentazione lirica legata alla “pargoletta” e alla “pietra”. Ora, invece, all’altezza dei canti VIII-X dell’Inferno, il rapporto fra sé e l’amico si presenta a Dante nella prospettiva di un antagonismo fra poetiche radicalmente inconciliabili: se Dante vuole identificarsi analogicamente, come già fece nel libello, con Cristo, Guido non è più complice della sua iniziativa poetica (come sembra credere il padre Cavalcante: «Perché non è teco?»), e può invece solo rappresentare la negazione di Cristo, cioè di quei principi di verità (pseudo)teologica che il Poema aspira a trascrivere letterariamente. Guido rappresenta necessariamente, nella prospettiva cristologico-redentiva che Dante ha assunto, la voce dell’errore, cioè l’eresia.
A tale intrico di motivi ideali e personali fa riferimento l’episodio dedicato all’amico nel canto X, che non a caso cita proprio Donna me prega per mettere a fuoco ed in evidenza l’eresia di Guido, che qui è rilevante solo in quanto da essa (cioè dall’averroismo) egli dedusse i postulati che smentivano la cristologia erotica della Vita nuova (Mi riferisco alla terna di parole in rima — nome, come, lume — che nei versi 65-67-69 riprendono quelle di Donna me prega, 16-17-19: «prende suo stato, — sì formato — come / diaffan da lume, — d’una scuritate / la qual da Marte — vène, e fa dimora; — elli è creato — ed ha sensato — nome». E ad essi fa riferimento anche l’indovinello di IX, 61-63, di cui si ricostruisce agevolmente il senso osservando questa ulteriore corrispondenza numerica: la risposta di Dante a Cavalcante, nel canto successivo, occupa la stessa posizione, i versi 61-63. E dunque la dottrina di cui i lettori dagli «intelletti sani» devono ricostruire il senso è, su un livello simbolico iniziale, il conflitto fra ortodossia ed eresia (di cui sono figura immediata il messo celeste da una parte, i diavoli, le Erinni e la Gorgone dall’altra); e, su un livello simbolico ulteriore, la traduzione di tali posizioni ideologiche nelle poetiche dei due amici, delle quali il disdegno della donna era stato la cifra simbolica, che nel canto IX appare trasfigurata negli orribili personaggi femminili che sono a guardia della città di Dite (in particolare Medusa, che è figura della donna “pietra” che occupa l’ispirazione di Dante dopo Donna me prega) e nel canto X appare come alternativa fra un «disdegno» di cui Guido è soggetto e quello di cui è oggetto nei confronti di una donna, Beatrice, che per Dante è principio erotico redentivo e per Guido mortifero fantasma d’amore. I due enigmi, quello di IX, 61-63 e quello di X, 61-63 si illuminano a vicenda, poiché attraversano la storia personale della poesia di Dante e la storia collettiva della cultura letteraria moderna, vincolando l’una all’altra in un nesso che legittima ed autorizza il nuovo registro espressivo, profeticamente ispirato, che la voce di Dante, a partire dal canto VII, ha assunto nella finzione del Poema. È in questo senso che la sua poesia coincide con la “ortodossia” degli «intelletti sani»: questa, e la giustizia che ne deriva, non hanno, modernamente, altra legittimazione che non sia la parola del poeta.