Dati bibliografici
Autore: Giovanni Cerri
Tratto da: Dante e Omero. Il volto di Medusa
Editore: Argo, Lecce
Anno: 2007
Pagine: 32-63
Riepiloghiamo i fatti a partire dalla seconda metà del Canto VII dell’Inferno. Dante, accompagnato sempre da Virgilio, si trova nel quinto cerchio. La sua superficie, come quella di tutti i cerchi, ha la forma di una corona circolare; però non è solida, dunque percorribile a piedi, bensì coperta quasi per intero dall’acqua profonda e limacciosa di una palude, la palude di Stige. Quasi per intero, perché in realtà alla palude fa a sua volta corona, lungo la parete rocciosa circolare che separa questo quinto cerchio dal precedente, il quarto, una stretta spiaggia, sempre ad anello. I due poeti fanno su di essa una lunga camminata, girando intorno alla palude, nella quale sono puniti gli iracondi e gli accidiosi: i primi si dimenano e rissano tra loro a galla, i secondi gorgogliano impotenti sul fondo. Giungono infine ad una torre che segna, sulla spiaggia, il molo d’imbarco. Fine del Canto VII, inizio del Canto VIII.
A questo punto debbono attraversare la palude, se vogliono continuare il viaggio e passare al cerchio successivo, il sesto, continuando a scendere verso il fondo dell’inferno. In effetti sulla Stige è attivo un servizio di traghetto: una navicella va e viene, dall’imbarcadero turrito che si trova all’esterno della palude anulare, a quello che si trova sul bordo interno. Il barcaiolo è un demonio che si chiama Flegiàs. Un nome qualsiasi inventato a caso, per il lettore incolto del tempo di Dante; un personaggio ben noto della letteratura antica, per il lettore dotto o semidotto. Sì, perché Flegiàs (in latino Phlegyas) è un dannato del Tartaro virgiliano (Eneide 6, 618-620), per giunta, un dannato ben strano. Mentre subisce la punizione, grida a squarciagola per far la morale agli altri dannati, suoi compagni di sventura eterna: “Imparate, dalla lezione che ricevete, a rispettare la giustizia e a non disprezzare gli dèi!”. Nel testo di Dante sembra anche un rinvio esplicito al modello classico, appunto il libro VI dell’Eneide, dal quale il poeta si accinge a trarre tanta parte della struttura descrittiva che sta per delineare.
Anche il Flegiàs dantesco è vociante e rabbioso, come si addice ad un diavolo che opera sulla palude degli iracondi; ma, tutto sommato si limita poi a svolgere senza altre pretese il suo lavoro di traghettatore; e porta Dante e Virgilio sul bordo interno della palude. Questo non può essere costituito semplicemente da un orlo basso, perché l’acqua strariperebbe da tutte le parti nel sesto cerchio. È invece un’alta cinta muraria (sempre circolare), preceduta da una banchina di contenimento. Tra la banchina e le mura, si forma il tipico fossato che circonda e difende le mura di una città (Inf. 8, 76 sg.). In effetti la parte restante dell’inferno, quella a valle del quinto cerchio, si configura come una città vera e propria, la Città di Dite. Mentre la maggior parte delle città del mondo sono costruite su un colle, per cui le mura le circondano dal basso e le città svettano al di sopra delle mura, fino alla rocca sulla cima, la città del basso inferno, che ha la forma di un imbuto, è dislocata su un declivio circolare in discesa, su piani degradanti verso il basso, la cui circonferenza è sempre più stretta. Le mura le fanno corona dall’alto. A chi le guarda dalla barca sulla palude di Stige, appaiono rosse, perché arroventate dal fuoco infernale. Chi passa attraverso la porta, deve scendere, non salire!
Il dato topografico riflette un cambio notevole di statuto tra alto e basso inferno. Nei primi cerchi, fino al quinto, sono puniti peccati di un tipo più lieve, i peccati di incontinenza, che consistono in un’incapacità di resistere alle tentazioni della carne; nei cerchi successivi, dal sesto in poi, sono puniti i peccati di malizia, cioè quelli derivanti dal perseguimento lucidamente razionale di una volontà perversa. Ora Dante deve passare dalla contemplazione degli uni a quella degli altri: è un passaggio radicale, adeguatamente illustrato a livello narrativo. Flegiàs sbarca Dante e Virgilio davanti alla porta della città di Dite, che per ora è aperta. Ma davanti ad essa prende a tumultuare una folta schiera di diavoli, adirati che un vivo osi voler entrare nel loro regno. Dante dice che sono “più di mille” (Inf. 8, 82): è un dato sul quale in seguito dovremo tornare. A questo punto, data la situazione di estremo pericolo per il proseguimento del viaggio, Virgilio fa loro segno da lontano “di voler lor parlar secretamente” (Inf 8, 87). I diavoli accettano di parlamentare. Virgilio lascia Dante sul posto in cui si trovano e va oltre; inizia il suo colloquio con la controparte. Perché ha voluto parlare da solo con i diavoli, senza che Dante fosse presente? Sembra evidente: visto che i diavoli si oppongono con tanta determinazione al passaggio di Dante, è verosimile che, se questi si avvicinasse alla porta, lo ghermirebbero d’impeto, senza dar tempo ad alcuna spiegazione; perciò Virgilio, che non è un vivo, ma un’ombra, dunque non è egli stesso la causa dell’ira dei diavoli, chiede di avvicinarsi da solo, per spiegare con un minimo di calma che Dante, benché vivo, è in realtà autorizzato dalle alte sfere del paradiso a passare, e che i diavoli debbono ottemperare all’ordine superiore. Ma perché non lo ha detto ad alta voce da lontano, restando accanto a Dante? Così aveva fatto in precedenza con altri diavoli che gridavano il loro rifiuto di lasciar passare il pellegrino. Vuole forse dire anche qualcos'altro, che Dante non debba sentire? Può sembrare una questione di lana caprina, che perciò i commentatori, di soli: to tanto minuti nel porre problemini di questo tipo e suggerire soluzioni, non hanno posta. Vedremo invece tra poco che qui si sta delineando davvero una contrattazione non priva di risvolti misteriosi. Sentiamo il racconto di Dante (Inf. 8, 112-117):
Udir non potti quello ch’a lor porse;
ma ei non stette là con essi guari,
che ciascun dentro a pruova si ricorse.
Chiuser le porte que’ nostri avversari
nel petto al mio segnor, che fuor rimase,
e rivolsesi a me con passi rari.
I diavoli non hanno voluto sentir ragioni; intendono infischiarsi del- l'autorizzazione divina; chiudono la porta in faccia a Virgilio e, ovviamente, anche a Dante. Così sogliono intendere i commentatori e, in se stessa, la cosa è vera. Ma senza dubbio c’è dell’altro. I diavoli non si sono limitati a dir di no e a chiudere la porta: sono fuggiti a precipizio (v. 114), si sono chiusi dentro, sembra quasi che abbiano serrato la porta più per difendersi da un pericolo incombente, che per sbarrare la strada agli intrusi. Che ha detto loro Virgilio? Alla richiesta d’ingresso, opportuna- mente motivata, deve aver aggiunto, di fronte al rifiuto, qualche minaccia terribile, proprio la parte del suo discorso sulla quale il Dante personaggio non deve essere informato. Di che si tratta? Più in là, molto più in là, tenteremo una spiegazione .
Virgilio torna imbronciato vicino a Dante. Si sente umiliato dalla sconfitta. Tuttavia dichiara di essere certo che, comunque, riusciranno ad entrare, perché sta già arrivando il soccorso divino nella persona di un “tal che per lui ne fia la terra aperta” (Inf. 8, 130). Fine del Canto VII, inizio del IX.
I due poeti sono in attesa: in effetti, non c’è altro da fare che attendere l’arrivo del personaggio misterioso annunciato alla fine del Canto VII. Virgilio è sicuro; Dante, in cuor suo, lo è meno. Perciò rivolge al maestro una domanda ingenuamente tendenziosa: càpita mai, è mai capitato che qualche anima del Limbo (quale è Virgilio) sia scesa nel basso inferno? Vuole assicurarsi che la loro avventura segua una prassi lecita, e abbia perciò qualche prospettiva di successo. Virgilio capisce, non si offende, anzi rassicura Dante nella maniera più efficace, dicendogli che egli stesso ha già fatto l’esperienza. E narra la storia della sua prima discesa, una storia sorprendente, sbalorditiva nel panorama della Divina Commedia, una storia di magia nera. Eritòne, la maga famosa che rianimava temporaneamente i cadaveri per riceverne profezie, una volta, poco tempo dopo che era morto, lo spedì nell’ultimo cerchio dell’inferno a convocare un’anima da ricondurre al suo corpo per una seduta necromantica .
Il lettore medioevale di media cultura sa bene chi sia Eritòne: non può non ricordare il passo celebre e orripilante del libro VI della Farsaglia di Lucano (v. 508 sgg.). E, come è ovvio, il rinvio si trova in tutti i commenti moderni (come già in quelli del XIV secolo). Ma perché Dante ha inventato questo supplemento alla storia lucanea dell’antica maga ed ha ritenuto opportuno inserirlo in questo passo del poema? Solo per mettere in bocca al suo Virgilio una risposta convincente? Per inutile sfoggio di erudizione? Per tributare comunque un omaggio a Lucano, poeta da lui molto ammirato, senza riguardo all'economia della pagina? Sono queste le ipotesi avanzate in genere dai commentatori, pur senza troppa convinzione. In realtà, l'episodio convoglia un messaggio metatestuale, discreto, addirittura criptico, ma inequivocabile: il modello poetico di riferimento è sì Virgilio, Eneide VI, ma anche Lucano, Farsaglia VI; i lettori più dotti e acuti sono avvertiti, se vogliono penetrare fino in fondo il senso di quanto è stato narrato finora e di quanto ancora sta per esserlo. Noi, a nostra volta, capiremo meglio in seguito . Certo, se si legge il passo di Lucano con poca attenzione, non si vede alcun legame con la sezione della Divina Commedia nella quale è inserita la citazione di Eritòne, che perciò sembra restare gratuita.
Le forze infernali sono però allarmate per l’insistenza dei due, che continuano a sostare fuori della porta, convinti di riuscire prima o poi ad entrarci a dispetto dei padroni di casa. Bisogna ad ogni costo terrorizzarli e farli fuggire. Sulla torre sovrastante la porta compaiono così tre Furie, che si contorcono spaventosamente, ostentando i serpenti che portano come chioma e come cintura. Virgilio spiega a Dante che sono le Erine (cioè le Erinni greche) e specifica il nome di ognuna: Megèra, Aletto e Tesifone. (Non è meraviglia che le abbia riconosciute con sicurezza, proprio lui che aveva raffigurato Tisifone sulla porta del Tartaro, con identica funzione, quella di terrorizzare e mandar via Enea, accompagnato dalla Sibilla nella sua escursione all’Ade). Le Furie-Erine vengono designate come “meschine/della regina dell’etterno pianto” (Inf 9; 43 sg.), cioè ancelle di Proserpina, dèa dell’Ade classico e sposa del suo re. Come vedremo, il particolare non è privo di rilevanza ai fini dell’indagine che stiamo svolgendo .
Vedendo che i due non desistono nemmeno di fronte al loro sabba, ricorrono alla minaccia mortale (Inf 9, 52-54):
“Vegna Medusa: sì ‘l farem di smalto”
dicevan tutte riguardando in giuso:
“mal non vengiammo in Teseo l’assalto”.
Chiamano la Gorgone Medusa per impietrire il vivo e chiudere la partita; si rammaricano di non aver fatto altrettanto con Teseo, che era riuscito a tornare sano e salvo dall’inferno al mondo dei vivi, diffondendo la presunzione che l’Aldilà sia violabile senza danno. Virgilio capisce la gravità del pericolo; ordina a Dante di voltarsi dall’altra parte, chiudere gli occhi e coprirseli con le mani; per maggiore sicurezza, alle mani di Dante sovrappone anche le sue, abbracciandolo da dietro.
Ma finalmente arriva l’operatore atteso da Virgilio. Ne viene sottolineata in tutti i modi la strapotenza: cammina a grande velocità sulla superficie della palude Stige, sconvolge l’inferno come una tempesta violenta, apre la porta al solo tocco di una bacchetta, apostrofa i diavoli in tono di scherno, ricordando loro la fatalità del volere divino e l’esempio di Ercole, che trascinò via dall’inferno Cerbero in catene, se ne rivà senza rivolgere nemmeno una parola ai due poeti per aiutare i quali si è scomodato.
Ma chi è? Dante non lo dice, non lo vuole dire: allude a lui ancora una volta, come alla fine del Canto precedente, con un’espressione volutamente generica: “un ch’al passo/passava Stige con le piante asciutte” (v. 80.sg.). Poi aggiunge: “Ben m’accorsi ch’elli era da ciel messo” (v. 85). Il che ha fatto pensare che si tratti di un angelo. Senza dubbio qualcosa del genere deve essere. Ma attenzione: Dante non dice che era ‘un messo celeste’, sostantivo e aggettivo che indicherebbero senza equivoci appunto un angelo, ma che ‘egli era con tutta evidenza inviato dal cielo’ (“messo” non è sostantivo, ma participio passato passivo). La sua identità resta arcana. Dante personaggio si rivolge a Virgilio, chiedendo con lo sguardo una spiegazione, ma il maestro gli fa cenno di rinunciarvi, di tacere e inchinarsi. L'angelo se ne è andato, la porta è aperta, i diavoli sono in rotta, Dante e Virgilio entrano tranquillamente e si trovano nel sesto cerchio, nel quale sono puniti gli eretici, alla cui descrizione è dedicato il resto del Canto IX. Ma qui poniamo termine al sommario, che abbiamo limitato alla parte che dovrà servire di base alle nostre analisi.
Nel punto di snodo tra la figurazione della Gòrgone Medusa (delineata come pericolo, ma non concretamente apparsa) e l’avvento salvi fico del personaggio misterioso, Dante invita esplicitamente il lettore ad andare oltre la lettera della narrazione, per attingerne il significato allegorico (Inf. 9, 61-63):
O voi ch’avete li ‘ntelletti sani,
mirate la dottrina che s’asconde
sotto il velame de li versi strani.
L'invito dell’autore ha provocato discussioni interminabili tra i commentatori sia antichi sia moderni, i quali si sono talvolta attardati persino sulle interpretazioni paretimologiche accolte nel Medioevo per i nomi propri individuali delle tre Erinni, ed anche delle tre Gorgoni, che Dante in realtà non nomina affatto, limitandosi a parlare solo di Medusa. Vediamo se è possibile pervenire ad una lettura piana e storicamente motivata.
Chiediamoci anzitutto se il dispositivo allegorico investa soltanto la scena che precede i vv. 61-63 o anche la scena successiva. Può servire da indicatore una terzina di un altro luogo del poema, del tutto analoga a quella in questione, per giunta chiaramente concepita da Dante stesso come ad essa parallela. Purg. 8, 19, 21:
Aguzza qui, lettor, ben li occhi al vero,
ché ‘l velo è ora ben tanto sottile,
certo che ‘l trapassar dentro è leggiero.
Qui l’invito riguarda senza ombra di dubbio la successiva allegoria della biscia e dei due angeli che la mettono in fuga (anche nel nostro passo la scena successiva è costituita da una sorta di angelo protettore e vendicatore); ma non può non riferirsi nello stesso tempo al rapporto dialettico tra questa e la precedente preghiera serale delle anime, alla quale la comparsa degli angeli è risposta diretta. Assumiamo dunque che in entrambi i casi il significato riposto da enucleare inerisca all’insieme del prima e del dopo, inteso come continuità narrativa .
Iniziamo con la testa-volto di Medusa. Già in età tardo-antica, e poi per tutto il Medioevo, si prese a ritenere che fosse apposto da scultori, pittori e poeti sull’egida ovvero sullo scudo di Pallade-Minerva in quanto rappresentasse allegoricamente l’intelligenza acutissima della dèa (sapientia, prudentia), che si trasforma ipso facto in terrore e annientamento di coloro che a lei si contrappongono per ottusità e ignoranza. Do qui di seguito uno specimen di definizioni tratte da scoliasti, trattatisti, lessicografi e mitografi noti nel Medioevo (ed anche a Dante), cioè da autori che si attengono per professione ad un tipo di sapere consolidato e diffuso, e divengono perciò a loro volta testi di consultazione e di riferimento per gli ambienti dotti:
Servio, in Verg. Aen. 8, 438: DESECTO VERTENTEM LUMINA COLLO... hoc autem caput ideo Minerva fingitur habere in pectore, quod illic est omnis prudentia, quae confundit alios et imperitos ac saxeos comprobat.
Macrobio, Sat. 1, 17, 70: Addita est Gorgonea vestis quod Minerva, quam huius praesidem accipimus, solis virtus sit; sicut et Porphyrius testatur Minervam esse virtutem solis quae humanis mentibus prudentiam subministrat. Nam ideo haec dea Iovis capite prognata memoratur, id est de summa aetheris parte edita, unde origo solis est.
[La prudentia di Minerva è identificata addirittura con la luce solare. Lo sguardo della Gòrgone sembra il mezzo con il quale la dèa illumina le menti umane. Non viene detto che tale sguardo annienti o pietrifichi le menti inadeguate, ma ciò sembra implicito nell’idea stessa di ‘sole’, che non può non accecare una vista debole. Dopo quanto detto in precedenza , è inutile chiarire quanto questa implicazione dovesse risultare suggestiva per la fantasia di Dante ].
Marziano Capella, De nupt. 6,577:
[Inno esametrico a Pallade, concepita come rerum sapientia, ingenium mundi, prudentia sacra Tonantis, ecc.]
pectore saxificam dicunt horrere Medusam,
quod pavidum stupidet sapiens sollertia vulgum.
Fulgenzio, Mytholog. 2, 1:
Gorgonam etiam huic addunt in pectore quasi terroris imaginem, ut vir sapiens terrorem contra adversarios gestet in pectore.
Isidoro di Siviglia, Etyr. 8, 11, 73:
In cuius pectore ideo caput Gorgonis fingitur, quod illic est omnis prudentia, quae confundit alios, et imperitos ac saxeos comprobat: quod et in antiquis imperatorum statuis cernimus in medio pectore loricae, propter insinuandam sapientiam et virtutem.
Mitografi Vaticani, 2, 50 (sec. XII):
Minerva ideo de vertice Iovis dicitur nata quia ingenium in cerebro positum sit: ideo fingitur armata quia sapientia sit munita; Gorgonem huic addunt in pecte ut vir sapiens terrorem contra adversarios gestet in mente; ...
Dunque, sguardo pietrificante della Gorgone = sapienza. Ma quale sapienza? Ovviamente, quella degli antichi, cultori “de li dèi falsi e bugiardi”, ancora ignari della fede cristiana e della grazia divina. Dante doveva di necessità mutare alquanto il significato allegorico del volto di Medusa, rispetto alle fonti classiche: esso rappresenta per lui un sapere che indurisce, pietrifica, uccide, non solo i poveri ignoranti, ma anche, anzi soprattutto i falsi dotti, i presuntuosi che, dopo e nonostante la rivelazione evangelica, credono ancora di poter accedere alla verità con il solo supporto della ragione, della scienza umana, senza l’intervento dell’illuminazione religiosa. In particolare, due passi di Marziano Capella gli ispirarono lo slittamento semantico. Il primo si inserisce in una presentazione generale della Dialettica, raffigurata in forma di donna e giudicata in maniera ambigua, oscillante tra la lode per le sue capacità conoscitive e il biasimo per le sottigliezze eccessive e depistanti; in questo quadro, si istituisce un paragone tra lei e la Gorgone, con un’allusione molto significativa al sibilo dei serpenti che ne costituiscono la capigliatura (De nupt. 4,331 e 333). Nel secondo passo Venere, dèa della bellezza e dell'amore, si lamenta che l'esposizione lunghissima delle arti liberali continui a ritardare l’imeneo di Mercurio e Filologia: l’aridità delle discussioni erudite — afferma — oltre a prolungare troppo la cerimonia nuziale, sfredda l’attrazione tra gli sposi, rischia di comprometterne la prima notte. Ne risente negativamente anche Stìmula, la dèa che dovrebbe stimolare i sensi, la quale “finisce per abbassare i suoi occhi ammiccanti, intimidita da una sorta di paura, e non ce la fa a sopportare lo sguardo della Gorgone truce” (De nupt. 9, 888, v. 17 sg.). Sia pure in un contesto scherzoso, il volto di Medusa è così chiamato a simboleggiare un sapere nozionistico, raggelante, che non conosce la molla dell'Amore (secondo Marziano, l'Amore venereo, che però nella cultura stilnovistica può alludere a ben altro!).
Stiamo formulando un'ipotesi sul valore allegorico che Dante doveva dare alla figura di Medusa, seguendo e insieme rielaborando i dati a lui offerti dalle fonti classiche. Proviamo ora a verificarla sulla trama del Canto IX dell’Inferzo, integrandola con il senso verisimile del messo celeste. Dante, di fronte alla porta della Città di Dite, si accinge a contemplare lo spettacolo della malizia umana, che per tutto l’arco di una vita terrena ha rifiutato e disprezzato il timore di Dio. La malizia si fonda appunto su una scelta razionale, che prescinde lucidamente dalla fede. Rischia perciò tanto più di attrarre nel suo circolo vizioso la mente dell’uomo, quanto più questi è incline per sua indole alla riflessione razionale e alla vocazione scientifica. Si perviene al seguente paradosso: l’animo nobile, dotato dalla natura di vigore intellettuale, è sovraesposto al peccato di malizia, rispetto all’animo opaco, sensibile solo allo stimolo dei sensi, incline piuttosto al peccato di incontinenza, meno grave, tendenzialmente veniale.
Chi fosse ammesso al dialogo con i dannati del basso inferno senza essere protetto dalla luce della fede, correrebbe un pericolo estremo: invece di essere ammaestrato dall’esemplarità delle pene inflitte loro, potrebbe essere attratto dall’ingegnosità geometrica delle colpe. Chi più di Dante è a rischio? La “selva oscura” nella quale si era perso, l’inizio di tutti i suoi mali, era stata precisamente una sopravvalutazione del potere conoscitivo della ragione, della ricerca filosofica, una sottovalutazione deplorevole del ruolo riservato all’esperienza religiosa e mistica: un Dio più aristotelico che cristiano. E subito dietro la porta, il primo dei restanti quattro cerchi, il sesto, è popolato da eretici e razionalisti epicurei: gente fin troppo interessante!
Nel Convivio Dante racconta della “donna gentile”, che per un certo periodo lo sviò dall’amore di Beatrice, e che egli en con la filosofia. Nello svolgere l’esegesi allegorica della canzone a lei dedicata, l’autore dice (Conv. 2, 9, 7): “L'anima mia conosceva la sua disposizione a ricevere l’atto di questa donna e però. ne temea”. Sembra un commento ad Inf. 9, 52-60: in effetti, la “donna gentile” rappresenta in versione stilnovistica la stessa entità che è rappresentata in versione infernale da Medusa .
L’eventualità che sulla porta di Dite compaia il suo volto, evocato dalle Erine, simboleggia proprio quel rischio, al quale non aveva resistito in passato, contro il quale non si sente ancora tetragono: il rischio di essere risucchiato dalla “selva oscura”; per questo Virgilio gli dice: “Ché se il Gorgòn si mostra e tu ‘l vedessi, / nulla sarebbe del tornar mai suso” (Inf. 9,56 sg.).
Eppure è stabilito che il pellegrino debba procedere e visitare effettivamente anche il basso inferno, per poi affrontare la visione del purgatorio e del paradiso. È necessario un antidoto a Medusa. L'arrivo del personaggio misterioso, “da ciel messo”, simboleggia a sua volta l’intervento della grazia divina, che elargisce il beneficio della fede, corazza sicura contro la tentazione, contro quella tentazione.
Come si vede, il significato allegorico “de li versi strani” non è semplice, non si riduce ad una suggestione concettuale singola, sibbene ad un discorso complesso e articolato, che corre parallelo, sopra o sotto le righe della finzione narrativa. E questo è il motivo per cui Dante, con assoluta precisione terminologica, l’ha chiamato “dottrina” (v. 62).
L'ipotesi ermeneutica funziona in maniera soddisfacente. Potremmo accontentarci. Ma Purg. 33, 73-75, fornisce, per così dire, “la prova del nove”:
Ma perch'io veggio te ne lo ‘ntelletto
fatto di pietra, ed impetrato, tinto,
sì che t'abbaglia il lume del mio detto,
…
Dante stentava a capire parole, per la verità alquanto oscure, a lui rivolte da Beatrice; di qui il rimbrotto di lei, che si esprime con una metafora allusiva alla metamorfosi gorgonica. Chi non comprende Beatrice, simbolo della grazia e dell’illuminazione divina, è “impietrato”; per di più è “tinto”, cioè ‘offuscato’, ‘ottenebrato’ (così tutti i commentatori). Credo però che l’aggettivo abbia un primo significato più letterale rispetto alla metamorfosi evocata: sulla superficie della pietra, nella quale si è trasformato l’animo di chi non comprende Beatrice, è stata passata una mano di smalto, per renderla ancora più impenetrabile. Ricordiamo che le Erine avevano gridato: “Vegna Medusa: sì ‘l farem di smalto!”: “di smalto”, non semplicemente ‘di pietra’. Il richiamo interno da un passo all’altro mi sembra indiscutibile .
Un'ultima notazione. La terzina con la quale abbiamo aperto il presente capitolo definisce “strani” i versi dei quali invita ad enucleare il significato allegorico. L'espressione è a sua volta davvero straz4, unica in tutto il poema: Acciani 1978 la definisce “un vero hapax”. Perché qui Dante si esprime così riguardo ai propri versi? Nemmeno su questo trovo spiegazioni plausibili nei commenti. Si dice: “Perché i demoni inferociti, le Erinni, Medusa, sono esseri mostruosi”. Ma lo sono quasi tutte le figure caratteristiche dell’Inferzo! Oppure: “Perché nascondono un significato allegorico”. Ma tutta la Divina Commedia è un’allegoria, nel suo insieme e nelle sue singole parti! Dante la giudicava un poema “strano”?! Eppoi: definire “strani” alcuni versi, sui quali si richiama l’acume interpretativo del lettore, solo in ragione di questo richiamo, è tautologia intollerabile! L'aggettivo è dunque solo una zeppa maldestra per far tornare il verso? Non mi sembra un procedimento usuale in Dante, che in genere soppesa ogni parola del suo dettato, facendo di ciascuna un elemento funzionale al significato della frase, sia esso letterale o allegorico, ovvero alla costruzione dell'immagine. Ed è l'incanto della sua poesia. Non siamo però ancora in grado di chiarire il senso dell’aggettivo: lo saremo forse ad uno stadio più avanzato della nostra ricerca...
Ricapitoliamo e, insieme, allarghiamo l’orizzonte dell’analisi. Dante può percorrere l'Inferno e il Purgatorio sotto la guida di Virgilio, cioè della ragione umana, non illuminata dalla fede e dalla grazia; per accedere alla visione paradisiaca ha invece bisogno della guida di Beatrice, cioè della fede e della grazia.
Tuttavia anche le prime due tappe del viaggio ultraterreno implicano un intervento indiretto, mediato, della fede e della grazia: Virgilio è stato inviato da Maria, attraverso Lucia e Beatrice. La sapienza scevra di fede e grazia, la sapienza degli antichi, la razionalità pura dell’uomo, ha ricevuto una delega da parte della fede e della grazia divina: non può procedere senza il suo assenso, ma, ricevuto l’assenso, può procedere con le sue sole forze alla contemplazione dei peccati umani e delle punizioni nell’Aldilà. Non per nulla ne avevano cantato già Omero e Virgilio!
Tra quinto e sesto cerchio c’è però un salto di qualità: si passa dai peccati di incontinenza ai peccati di malizia, cioè dai peccati di irrazionalità a quelli ispirati da una razionalità che non si lascia imbrigliare dalla norma etica. Contemplare gli eccessi di razionalità con la ragione pura, non illuminata dalla fede e dalla grazia, può essere pericolosissimo, può produrre coinvolgimento e identificazione, può “pietrificare” in Dante quel tanto di buono che c’è in lui, in ragione del quale si sono mosse per lui Maria, Lucia e Beatrice, grazie al quale potrà giungere a contemplare la beatitudine paradisiaca, illuminato dalla fede e dalla grazia.
Il pericolo più immediato e concreto è costituito proprio dal primo cerchio nel quale si sta accingendo ad entrare, il sesto cerchio dell’inferno, dove sono epicurei ed eretici, capaci di riportarlo indietro, alla selva ed al peccato da cui è appena uscito, cioè all’iperrazionalismo di Sigieri di Brabante e Boezio di Dacia, nonché del Convivio. Emblematiche di questo pericolo sono le figure care e suggestive di Cavalcante e Cacciaguida, poi, nel settimo cerchio, la figura di Ulisse .
Il volto di Medusa, non visto ma paventato, simboleggia la razionalità perversa della parte più intima dell’inferno, quella più infernale, che Dante non può contemplare da solo (sia pure insieme a Virgilio), senza un ulteriore intervento divino. Contemplare la razionalità perversa col solo aiuto della ragione sarebbe mortale. Di qui il nascondimento di Dante, prima che arrivi l’Angelo a corroborare Virgilio, cioè la sua razionalità.
Questa è “la dottrina che s’asconde sotto ‘l velame de li versi strani”, dottrina che può essere colta soltanto dai lettori più scaltriti, i quali conoscano il significato del Gorgoneion nella cultura antica e i limiti imposti alla ragione umana dall'ordine divino.
Reinserito l’episodio di Medusa nell’architettura complessiva del poema, emerge nitido il suo rapporto strutturale con la figurazione finale del Paradiso: il volto di Cristo, iscritto nel cerchio, è l’anti-gorgoneton per eccellenza. Non sembri sottigliezza eccessiva notare in proposito che ad Inf. 9, 56, si tratta proprio di Gorgoneion, cioè non della figura intera della Gorgone, ma della sua sola testa, mozzata, o comunque isolata o evidenziata rispetto al resto del corpo, anzi specificamente della sua maschera o volto: “’l Gorgòn”, dice Dante, usando a ragion veduta la forma maschile-neutra, non la forma femminile ‘la Gorgòna’, che avrebbe indicato invece il personaggio nella sua integrità fisica. Gorgoneion che, come abbiamo già accennato, era iscritto dai poeti antichi noti a Dante nel puro cerchio dello scudo rotondo di Perseo e di Minerva.
Quasi due dischi di pietra o ceramica, entrambi decorati con protome umana, e collocati rispettivamente l’uno sulla facciata interna, al di sopra del portale principale, l’altro sull'altare maggiore di una cattedrale romanica. Il volto della Gorgone (razionalità pura senza fede) impietra, cioè disumanizza; il volto di Cristo (verità assoluta/iper-sole) acceca la vista non sufficientemente “avvalorata” (Par. 33, 112), ma illumina quella da lui stesso eletta; Dante non deve vedere il primo, deve vedere il secondo; vedere il primo sarebbe la perdizione, vedere il secondo è la salvezza definitiva. Il contrappunto fa certamente parte della “dottrina che s’asconde sotto ‘l velame de li versi strani”, perché si disvelerà facilmente agli “intelletti sani” che, letto l’intero poema, procederanno ad una seconda lettura, come è fatale che si faccia con un “opus doctrinale” .
Confrontiamo ora fra loro il finale della Nèkyia (Od. 11, 627-637) e l’episodio di Medusa nell’Inferzo (9, 52-60), facendo attenzione non soltanto al dettato dei due brani considerati in se stessi, ma anche al contesto narrativo e topografico nel quale ognuno di essi è inserito . Se ne ricava la strana impressione che Dante abbia letteralmente ricalcato il passo di Omero fin nei minimi particolari; le coincidenze sono tanto numerose quanto sorprendenti. Proviamo ad elencarle schematicamente:
1) Il Gorgoneion (Omero: “la testa gorgonia del mostro terribile”; Dante: “’l Gorgòn”) si configura come funzionario in servizio permanente nel regno dei morti.
2) La sua funzione specifica è quella di mettere in fuga con la paura di sé ed eventualmente impietrire i vivi che vi si avventurino e sembrino intenzionati a proseguire la loro indagine sull’Aldilà.
3) Il Gorgoneion non appare effettivamente, viene solo prospettato il pericolo incombente che appaia.
4) Non viene descritto dal poeta, il quale presuppone che il pubblico ne conosca bene l’aspetto e l’effetto magico. Per quanto riguarda in particolare Dante, stupisce davvero che abbia rinunciato ad una descrizione che si configurava come canonica nei classici latini a lui noti (serpenti al posto dei capelli, occhi lampeggianti e ritorti, ecc.).
5) Il protagonista è all’esterno del luogo-città da dove teme possa affacciarsi il Gorgoneion, più precisamente è in prossimità della sua soglia ed è da questa che il mostro potrebbe uscire alla ribalta. Ulisse sta evocando i morti in uno spazio antistante all'ingresso dell’Ade e viene preso dalla paura che il Gorgoreion venga fuori come hanno fatto finora le altre anime; Dante è di fronte alla porta chiusa della Città di Dite. Vale la pena di sottolineare, ai fini dello sviluppo futuro della nostra trattazione, che questa dislocazione di Ulisse, del mostro e del malincontro paventato, risulta evidente anche a chi non avesse letto la parte precedente del Libro XI dell’Odissea, ma conoscesse solo il brano finale: “Detto così (Eracle) ritornò nella casa di Ade,/mentre io restavo lì fermo, se altri venisse/degli uomini eroi, che in passato morirono” (vv. 627-629); “e mi prese verde paura/che contro me la testa gorgonia del mostro terribile/mandasse fuori dell’Ade Persefone veneranda” (vv. 633-635).
6) Il Gorgoneion non esce di sua iniziativa, ma su ordine espresso della dèa degli inferi: la mandante è comunque Persefone, latinamente Proserpina. Il passo di Omero lo abbiamo appena riletto; in Dante il mostro sta per uscire evocato dalle Erine, ma è stato precisato pochi versi prima che queste sono “le meschine”, cioè le ancelle, “de la regina de l'eterno pianto” (v. 43 sg.), che è appunto la dèa in questione.
7) La paura del Gorgoneion, anche se poi non si concreta nella sua apparizione, produce effetti risolutivi a livello narrativo: Ulisse volta le spalle e fugge alla nave; Dante, volta anche lui le spalle, e tiene gli occhi chiusi e coperti finché non arrivi il salvatore.
8) La figurazione mostruosa segna comunque la fine di una sezione del poema: la fine della Nèkyia e la fine della prima parte dell’Inferno. A livello di contenuto narrativo, segna la fine di un viaggio e l’inizio di un altro: per Ulisse, fine del viaggio nell’Aldilà, ritorno al mondo dei vivi e ripresa del ritorno in patria; per Dante, fine della prima parte del viaggio infernale e inizio della seconda. Certo, c'è una differenza, ma è per così dire “obbligata” dalla diversa struttura delle due opere: nell’Odissea, la spedizione nell’Aldilà deve avere termine, perché è soltanto un episodio, e perciò Ulisse può, anzi deve fuggire; nella Divina Commedia, appunto perché tale, la spedizione nell’Aldilà non è un episodio, ma il tema esclusivo dell’opera nella sua interezza, il viaggio deve continuare, Dante non può fuggire, ma deve resistere e superare l’ostacolo.
9) Entrambi i brani, al di là della narrazione bruta, rinviano ad una stessa nozione cosmologico-religiosa di base: il limite imposto alla conoscenza umana, rispetto all’oltretomba, alla natura del mondo, al senso della vita. Il significato allegorico dell'episodio dantesco corrisponde al significato profondo dell’episodio odissiaco (che, a rigore di termini, allegorico non è, ma sarebbe stato così definito da Dante, se lo avesse conosciuto).
Non inserisco nell’elenco un’analogia di ben più ampia portata, che trascende però il confronto specifico tra i due passi e investe quello che potremmo chiamare il cuore dell’Odissea (libri IX-XII, quasi per intero, e molti altri luoghi) e la totalità della Divina Commedia: l'identità tra protagonista del viaggio e narratore; cioè il fatto che il poema sia narrazione autobiografica, in prima persona, di un viaggio (non solo del viaggio nell’Aldilà, per quanto riguarda l'Odissea). Tale impostazione deriva a Dante da una pluralità assai vasta di fonti, classiche, patristiche, latino-medioevali, anche islamiche. E non si tratta soltanto di libri di viaggio nell’Aldilà né di puro e semplice viaggio. Ma sarebbe davvero fuori luogo aprire qui un simile capitolo, del resto superiore alle mie forze e alle mie conoscenze . Tra queste fonti, c'è anche l'Odissea di Omero? Certamente: Dante, pur non avendola mai letta direttamente, sapeva bene dagli autori latini a lui accessibili, che in essa era stato Ulisse stesso a narrare al re Alcìnoo i suoi viaggi passati, tra i quali la spedizione all’Ade. E la cosa non lo lasciò davvero indifferente: il parallelismo oppositivo Dante-Ulisse è un tema che innerva tutta la Divina Commedia . Ma, per spiegarlo, non c’è nessun bisogno di ricorrere al finale della Nèkyia.
Continuo invece con alcuni dettagli, molto meno rilevanti sul piano narrativo, ma, proprio per questo, tanto più sorprendenti nella loro apparente gratuità. Sul versante omerico, si trovano tutti all’interno del brano posto a confronto (vv. 627-637); sul versante dantesco, cadono in parte anche al di fuori di esso (vv. 52-60), ma nel contesto immediata- mente precedente:
10) Le Erine si rammaricano: “Mal non vengiammo in Teseo l’assalto!” (Inf. 9, 54). Perché mai Dante avrebbe dovuto pensare a questo punto proprio alla catabasi di Teseo, e non a quella, tanto più celebre e importante, di Ercole? È proprio a quest’ultima che alluderà infatti poco oltre il soccorritore celeste, a paradigma dell’umiliazione inferta da Dio ai demoni (v. 98 sg.). Vediamo Omero: “E avrei visto gente ancora più antica, come pure volevo:/Teseo e Piritoo, figli gloriosi di dèi” (v. 630 sg.). La coincidenza sembrerebbe proprio frutto di imitatio.
11) Dante, appena sceso dalla barca di Flegiàs, vede sulla porta della Città di Dite “più di mille” diavoli, che tumultuano e gridano ostilmente (147 8, 88-84). Cfr. Od. 11, 632 sg.: “Ma s’adunavano intanto frotte infinite di morti/in un immane gridìo”. AI posto di “infinite”, nel testo greco c’è 72yria, che propriamente significa ‘a miriadi”, ‘a decine di migliaia’ o ‘a migliaia’!
12) Dante inizia così il Canto IX: “Quel color che viltà di fuor mi pinse...”. Il colore della paura! Cfr. Od. 11, 633: “e mi prese verde paura”.
Di questa incredibile messe di concordanze, o puramente e semplicemente di una qualche somiglianza tra brano di Omero e brano di Dante, non ho trovato il minimo accenno nella letteratura critica a me nota sull’uno e sull’altro poeta. Il che, francamente, mi è sembrato ancora più incredibile della coincidenza che, un paio di anni fa, balzò perla prima volta ai miei occhi. Sta di fatto che anch’io, pur conoscendo bene, e praticamente da sempre, i due brani, me ne resi conto all’improvviso e per la prima volta soltanto alcuni mesi fa .
Nota bibliografica:
Così scrivevo nell’autunno 2004, quando già avevo consultato una gran quantità di contributi dell’Otto e del Novecento. La mia indagine bibliografica è poi proseguita con il massimo impegno, ma il quadro è restato lo stesso, almeno a livello di commentari al poema. Nel febbraio 2005, ho letto Renucci 1954, nel quale ho trovato la seguente nota (p. 362 sg., n. 163): “Notiamo di sfuggita che è stata rilevata una somiglianza curiosa tra la scena delle Furie in Dante e un passo dell’Odissea: Ulisse racconta che all’uscita dell’Ade temette di vedersi presentare da Persefone la testa di Medusa. Ozanam giudicava indiscutibile la reminiscenza. Fornaciari 1900, p. 160 sgg. [in realtà, p. 65 sg. (n. d. r.)], pensa che Dante abbia conosciuto l’episodio dell’Odissea grazie a qualche mitografo o commentatore della bassa latinità. Ma quale? Noi crediamo, fino a nuovo ordine, che sia una semplice coincidenza”.
Come si vede, la citazione di Ozanam è generica, priva di indicazione dell’opera e della pagina. Sembra che Renucci l’abbia fatta a memoria, senza andare a riscontrare. Nell’ampia ‘Bibliografia’ posta alla fine del suo volume, trovo elencate solo due opere di Ozanam: Ozanam 1845 e Dante et la philosophie catholique au XIIIe siècle, nouv. édit., Paris 1845. Ho letto con attenzione la prima delle due, che sembra l’unica tra le numerosissime opere di Ozanam nella quale possa esserci qualcosa del genere, ma non ho trovato il ben che minimo accenno a quel confronto Dante-Omero. Comunque, non metto in dubbio che da qualche parte lo abbia prospettato.
Davvero interessante la breve analisi di Fornaciari 1900, p. 65 sg., che riporto testualmente qui di seguito:
“In Omero troviamo che Ulisse, disceso all'inferno per parlare con Tiresia, dopo aver tenuto colloquio con lui e con altre illustri ombre, avrebbe voluto trattenersi ancora per parlare con Teseo e Piritoo: ... [seguono i versi di Od. 11, nella versione di Pindemonte]. Il qual passo somiglia pur assai a quello di Dante, tanto per il personaggio che teme, quanto per Proserpina che manda la Gorgone; poiché le Furie, che vorrebbero mostrarla a Dante, sono appunto le ancelle di Proserpina («le meschine/della regina dell’eterno pianto»); e ancora per la provenienza della Gorgone, che in Omero viene dalla casa di Dite, cioè dalla parte più profonda dell'inferno, sede stessa della regina, come in Virgilio; e sino per la menzione di Teseo («Mal non vengiammo in Teseo l’assalto»). E non è improbabile che Dante, giovandosi di qualche citazione dell’Odissea, pigliasse da questo passo l’idea della minaccia fattagli dalle Furie”.
Lo scetticismo espresso da Renucci deve essere stato comune a tutti i lettori di Ozanam (sempre che la notizia data su di lui da Renucci sia esatta), di Fornaciari e di Renucci stesso: ciò ha senza dubbio contribuito a seppellire il confronto nell’oblio. Tra quelli che non ebbero la ventura di leggere né Ozanam né Fornaciari né Renucci, alcuni non ci avranno pensato, così come non ci avevo mai pensato io fino a ieri, altri si saranno autocensurati, per la paura di essere costretti poi a spiegare il confronto o con la strana ipotesi della coincidenza casuale (alla maniera di Renucci) o con l’ipotesi “audace” (ma perché mai?!) di qualche citazione latina a noi sconosciuta del brano dell’Odissea. Sul problema torneremo più avanti; intanto voglio sottolineare che la volontà di astenersi “prudentemente” sia dall’una che dall'altra ipotesi genetica, non esime affatto dal rilevare un parallelismo intertestuale di tale evidenza e di tale portata semantica.
Come abbiamo visto, Renucci concludeva: “Noi crediamo, fino a nuovo ordine, che sia una semplice coincidenza”. Mi illudo, o almeno spero senza illudermi troppo, che quanto ho detto e quanto sto per dire possa rappresentare il "nuovo ordine" atteso da Renucci e da chi sa quanti altri cunctatores.
Più recentemente, ho trovato un altro accenno in Freccero 1989, p. 183: "li collegamento con Proserpina risale a1l'Odzssea, in quel punto in cui Ulisse agli inferi teme che ella gli invii la gorgone per impedirgli di ripartire (XI, 634 sgg.). Quali che siano le fonti dantesche nel momento in cui pone lo stesso collegamento, ... ".
Chiunque scorra le note di un qualsiasi buon commento alla Divina Commedia, si rende conto in breve tempo che non c'è quasi un solo verso del poema che non riecheggi, rielabori e risemantizzi versi o enunciati prosastici di testi precedenti, i più vari, dall'antichità fino all'epoca stessa del poeta. Ciò è vero anche per i Canti VIII e IX de1l'Inferno . Ma, al di là degli innumerevoli spunti utilizzati con tecnica quasi rapsodica, si stagliano due modelli, sui quali Dante ha costruito in questo caso, contaminandoli fra loro, la sua narrazione-descrizione: Virgilio, Eneide VI, 540-636, e Lucano, Farsaglia VI, 423-749. Non si è limitato a servirsene come fonti occasionali di ispirazione, da fagocitare e obliterare nel nuovo prodotto, bensì ha chiaramente voluto che restassero interlocutori dialettici del suo discorso, continuando ad interagire con esso nella memoria letteraria del lettore scaltrito e funzionando come veri e propri "ipotesti" . Di qui certi "segnali", sui quali ho richiamato l'attenzione già nel cap. 5: soprattutto Flegiàs, che rinvia al passo virgiliano, ed Eritòne, che rinvia al passo lucaneo. Una riconsiderazione attenta dei due testi ci permetterà: 1) di farci un'idea più viva del modo di lavorare proprio di Dante; 2) di constatare come la figurazione "omerica" di Medusa non possa essere derivata né dall'uno né dall'altro. Cominciamo col primo.
Enea, guidato dalla Sibilla Cumana (come Dante sarà guidato prima da Virgilio, poi da Beatrice, nel suo viaggio oltremondano), è penetrato, attraverso una spelonca che si apre sul Lago Averno, nel sottosuolo infero. È bene chiarire subito che, nel sesto libro dell'Eneide, non si enuclea una denominazione complessiva dell'Aldilà visitato da Enea: ogni tanto lo chiama "casa di Dite", con allusione al dio che lo domina come un i-e, corrispondente al greco Ade; ma in realtà la Città di Dite è piuttosto una sua parte ben determinata; per non far confusione e per brevità, lo chiameremo Ade, nell'esposizione che segue.
L'Ade virgiliano è interamente sotterraneo e buio: si divide in settori diversi, ma questi sembrano trovarsi tutti ad uno stesso livello; non c'è da scendere o salire, come accade a Dante da un cerchio all'altro dell'inferno, da un girone all'altro del purgatorio, da un cielo all'altro del paradiso. È una plaga immensa e piuttosto informe, non delineata con precisione sul piano topografico.
Passato l'ingresso, i due pellegrini si trovano di fronte ad un grande fiume ovvero (non è facile determinare) ad un sistema fluviale articolato in tre letti, l'Acheronte-Cocito-Stige. Sulla stessa riva sulla quale sono giunti, si accalcano le anime, ansiose di passare dall'altra parte e raggiungere la loro sede definitiva. Il barcaiolo è Caronte che, dopo aver opposto obiezioni, si lascia convincere e traghetta anche Enea e la Sibilla (vv. 295-425). Questa sezione è servita da modello a Dante, Inferno m, con la variante che il fiume è unico ed ha il nome di Acheronte; abbiamo visto come la Stige sia stata utilizzata invece nei Canti VII-IX; il Cocito sarà identificato invece con il lago ghiacciato che costituisce il nono e ultimo cerchio dell'inferno (Canti XXXI-XXXIV).
Dopo l'episodio di Cerbero, il ringhioso cane da guardia che cerca di impedire ai vivi l'accesso all'Ade, ripreso da Dante in Inf. 6, 22 sgg., Enea e la Sibilla fanno un lungo tratto di strada e vedono uno dopo l'altro gruppi diversi di anime: i neonati morti subito dopo la nascita; i condannati a morte ingiustamente; i suicidi; le donne suicidatesi o uccise per amore; gli eroi troiani ed achei. Tra le donne del penultimo gruppo Enea tenta di parlare con Didone, che però rifiuta il colloquio; tra gli eroi dell'ultimo gruppo si sofferma a lungo con Deifobo, che gli racconta la sua morte sventurata nelle ultime ore di Troia (vv. 426-537). La conversazione sta durando troppo a lungo. La Sibilla interviene con autorità (vv. 539-543):
La notte fugge, Enea, e noi perdiamo tempo a piangere.
Qui è il punto in cui la via si divide in due:
quella di destra, che porta alle grandi mura di Dite,
per la quale andremo all'Elisio; ma la sinistra punisce
i malvagi, e porta al Tartaro empio.
Il passo prospetta, con l'immagine del bivio, una tripartizione dell'Ade, avvicinabile in qualche modo, benché non analoga, a quella dantesca inferno-purgatorio-paradiso. La plaga finora attraversata è riservata, come si è visto, ad anime di persone che vissero in maniera normale, alcune commisero anche errori o colpe, ma nel complesso non meritarono né punizione né premio dopo la morte; sono votate alla tristezza tranquilla e sconsolata che inerisce all'esistenza dimidiata dei defunti; in questo senso, il settore è paragonabile al purgatorio, che pure contiene umanità comune. A destra s'innalzano le mura della Città di Dite, nella quale o presso la quale (non è del tutto chiaro) si stendono i Campi Elisii; anch'essi sotterranei, dobbiamo pensare, ma coperti da un cielo meraviglioso, per cui somigliano alle più belle regioni del mondo, allegrate dalla primavera; sono la sede in cui vivono felicemente dopo la morte le anime dei giusti; è possibile perciò paragonarli al paradiso. A sinistra il Tartaro, luogo della dannazione eterna riservato ai malvagi, odiosi agli dèi; dunque una sorta di inferno.
Riprendiamo la lettura diretta (vv. 548-563):
Enea guarda: e subito, sotto la rupe sinistra,
vede lunga muraglia, in triplice giro,
lambita da rapido fiume, ribollente di fiamme,
il Flegetonte tartàreo, che rotola sassi sonanti.
Di fronte, un gran portale, tra colonne d'acciaio possente,
che nessuna forza umana, nemmeno gli stessi celesti
spiantare potrebbero; s'innalza una torre di ferro,
e sopra Tisìfone, vestita di veste cruenta,
sorveglia insonne la soglia, di notte e di giorno.
Di qui provengono gemiti, e suono di fruste
crudeli, stridore di ferri, e di catene ai piedi.
Enea si fermò, ristette atterrito allo strepito:
"Che delitti sono? Dimmelo, vergine; e quali
sono le pene? Perché s'alza tanto lamento?"
Così la vate prese a parlare: "Grande guida dei Teucri,
Non è lecito, a chi sia puro, varcare la soglia infame... "
Ecco il modello della Città di Dite dantesca! Ardore di fuoco, mura di ferro rovente circondate da un fiume, porta monumentale sormontata da torre e, in cima, Tisifone vestita rosso sangue, impegnata a terrorizzare chi s'avvicina. Divieto di ingresso. Dante però ha dovuto ristrutturare: la cinta muraria non divide più i luoghi esenti da pena dal luogo delle pene, ma divide l'alto dal basso inferno; non è circondata da un fiume ribollente e infuocato, ma dalla Stige, palude putrescente e nebbiosa, adatta alla punizione di iracondi e accidiosi (il Flegetonte verrà usato dopo, nel Canto XII, per i violenti contro il prossimo); il divieto di ingresso per Enea è definitivo, per Dante personaggio no, perché deve entrare, ed entrerà con l'aiuto dell'inviato celeste. S'accavallano altri riscontri: il lamento assordante che proviene dalla città (Inf. 8, 65); lo sguardo attonito del pellegrino (8, 66); la spiegazione della guida (8, 67-69).
Il parallelismo continua. La Sibilla narra che lei nel passato ha avuto occasione di visitare l'interno, perché condotta lì, proprio per vedere, dalla dèa Ecate, quando questa le affidò il sacerdozio del bosco sacro sull'Averno; e lo spunto è ripreso da Dante con la storia di Virgilio spedito un giorno fino al Cocito da Eritone. Viene di nuovo descritta Tisifone, questa volta occupata all'interno della città infernale nella punizione dei dannati (Eneide, 6, 570-572):
Senza posa Tisifone, vendicatrice armata di frusta,
strapazza i colpevoli, a balzi, con la sinistra protende
i serpenti occhiuti, chiama a sé le sorelle crudeli.
Ecco l'intero gruppo delle Erinni, la loro danza macabra, i serpenti della descrizione dantesca. Di Phlegyas penitente sui generis e della sua riconversione nel demonio Flegiàs, abbiamo già detto (vedi sopra, Cap. 5).
Nella descrizione virgiliana, la Gorgone Medusa manca del tutto. Anzi, non avrebbe potuto in alcun modo esserci: delle Gorgoni nel loro insieme si era parlato prima, in Aen. 6, 285-289, e se ne era parlato soltanto nell'ambito di un secco elenco di esseri mostruosi, vagolanti intorno all'albero dei sogni vani, appena fuori dell'Ade, davanti al suo vestibolo: Centauri, Scille, Briareo, Idra di Lerna, Chimera, Gorgoni, appunto, Arpie, Gerione. Di Medusa in particolare non si era parlato affatto. Men che meno della sua testa-gorgoneion (il "Gorgòn" di Dante). Lo sguardo delle Gorgoni virgiliane non pietrifica, dal momento che Enea le guarda, le vede, addirittura tenta di affrontare l'insieme di quei mostri con la spada sguainata. Dante ha corretto Virgilio, spostando e funzionalizzando meglio questa figura.
Un'ultima osservazione. In due punti del sesto libro dell'Eneide si allude ad Ercole e Teseo in quanto predecessori di Enea nella discesa agli inferi: vv. 122 sg. e 392-397. Ciò potrebbe spiegare la menzione di Teseo in Dante, da noi ricondotta invece al passo omerico (vedi sopra. Cap. 8, coincidenza 10). Ma non è così! Teseo è elencato da Virgilio tra i dannati del Tartaro, è per giunta definito "infelice" (v. 617 sg.), evidentemente proprio in quanto subisce la pena eterna per aver violato l'Ade e tentato di rapirne la regina; ed è anche lui sotto le grinfie di Tisifone. Come avrebbe potuto Virgilio ispirare a Dante il rammarico delle Erinni per non averlo punito? È invece proprio il passo omerico che suggerisce l'idea di un Teseo impunito, scampato alla sua empia catabasi, vissuto tranquillo per il resto della vita, poi, una volta morto di morte naturale, tornato di nuovo all’Ade con tutti gli onori, ombra ancora gloriosa al pari di Ercole, che gli era stato compagno di avventura e salvatore.
Abbiamo visto a suo luogo (Cap. 5) come lo strano episodio di Eritone e Virgilio, inserito all'inizio del Canto IX dell'Inferno, sia in realtà un rinvio al Libro VI della Farsaglia, che si affianca al Libro VI dell'Eneide nella strutturazione del momento di passaggio dall'alto al basso inferno. Dante dice: "quella Eritòn cruda" (Inf. 9, 23), traducendo alla lettera l'espressione usata da Lucano, effera Erictho (Pbars. 6. 507), a meglio sottolineare la sua dipendenza dalla fonte. Uno dei commentatori più recenti ha osservato :
Se, ultimata la lettura cli questo IX Canto dell'Inferno, uno andasse a rileggersi i quattrocento esametri che Lucano dedica alla maga di Tessaglia e alle sue pratiche scellerate, qualche non trascurabile dettaglio potrebbe farlo riflettere: il fatto che, per esempio, tardando l'anima del soldato a rientrare nel proprio cadavere gelido e sbrindellato, Erictho inveisca contro le Erinni, chiamandole «cagne dello Stige»; e le minacci; e che minacci Medusa (la più giovane delle tre Gorgoni, famosa per far di sasso chiunque incontri i suoi occhi) di convocare un dio magico ed enigmatico che può guardarla in faccia; e, per esempio, che abiti in un sepolcreto.
Seguiamo il suo consiglio: rileggiamo il brano di Lucano; facciamo attenzione, punto per punto, alle reazioni fantastiche ed emotive che verosimilmente provocò in Dante.
I due eserciti di Cesare e Pompeo sono giunti a Farsalo, nella Emonia in Tessaglia, terra di maghe terribili. Le loro pratiche sono contrapposte con insistenza alle tecniche divinatorie della religione ufficiale, che si svolgono nel rispetto delle divinità celesti (vv. 423-430), mentre queste sono sostanzialmente empie, perché consistono in un rapporto privilegiato con le divinità infernali e, al ·di là di ciò, non tendono a supplicare il dio, bensì a costringerlo contro la sua volontà e contro giustizia. La strega più perfida e famosa di tutte è Erictho, dedita in particolare alla necromanzia. È a lei che si rivolge Sesto, il figlio degenere di Pompeo, per conoscere in anticipo l'esito della battaglia imminente, che si configura ormai come quella risolutiva dell'intera guerra civile in corso.
Tra i tanti cadaveri che giacciono insepolti sui campi delle precedenti battaglie, Erictho ne trasceglie uno. Sarà lui a parlare. Allo scopo, lo trascina nel luogo in cui è possibile procedere all’evocazione della sua anima (vv. 642-653):
Haud procul a Ditis caecis depressa cavernis
in praeceps subsedit humus, quam pallida pronis
urguet silva comis et nullo vertice caelum
suspiciens Phoebo non pervia taxus opacat.
Marcentes intus tenebrae pallensque sub antris
longa nocte situs numquam nisi carmine factum
lumen habet. Non Taenariis sic faucibus aer
sedit iners: maestum mundi confine latentis
ac nostri; quo non metuant admittere manes
Tartarei reges, nam, quamvis Thessala vates
vim faciat fatis, dubium est, quod traxerit illuc
aspiciat Stygias an quod descenderit umbras.
Non lontano dalle nere caverne di Dite
la terra s'avvalla scoscesa; oscura la grava
una selva coi rami ricurvi ; non riesce il tasso
a svettare, impervio a Febo, l'abbuia.
Sotto è umida tenebra; opaca per notte perenne,
mai la muffa negli antri riceve la luce, se non
grazie a magia. Non altrettanto stagnante è l'aria
nelle gole del Tènaro: triste confine tra mondo invisibile
e nostro; non hanno timore a spedirvi le anime
i re del Tàrtaro; per quanto la strega tèssala
forzi il destino, è dubbio davvero se veda le ombre di Stige
per averle evocate, o per essere scesa lei stessa.
Una valle sul fianco d'un monte (cfr. v. 640). Nel fondo, una selva oscura, nella quale non penetra la luce del sole. Il luogo è in diretta comunicazione con l'ingresso degli inferi. Luogo di confine, la cui appartenenza all'aldiquà o all'aldilà è incerta. Le anime dei defunti vi transitano senza problemi. È proprio lo scenario iniziale della Divina Commedia! Anche qui, "una selva oscura" ai piedi di un colle, lumeggiato dal sole a differenza della selva; Dante vi incontra l'anima di Virgilio in libera uscita, anzi mandata dall'entourage divino in missione da lui; dietro l'angolo, la Porta dell'Inferno: "... e poi che mosso fue, / intrai per lo cammino alto e sìlvestro. // «Per me si va nella città dolente ... »" (In/ 2, 141 - 3, 1). Mi sembra evidente che il passo di Lucano abbia contribuito all'invenzione dantesca. Se anche non fosse stato così, Dante, rileggendolo o ripensandolo quando orami aveva già scritto i Canti I-II dell’Inferno, non avrebbe potuto fare a meno di rilevare l’analogia stringente e ritenerlo del massimo interesse ai suoi fini. Al momento di scrivere i Canti VIII-IX, tanto più paganeggianti, se ne sarà certo ricordato, e vi avrà trovato incentivo allo scambio Città di Dite/Città del Tartaro, rispetto al modello virgiliano, nonché allo scambio Stige/Flegetonte.
Torniamo ora a Lucano. L'evocazione del morto stenta a prodursi, Gli dèi dell'Ade tardano ad esaudire la preghiera-ingiunzione. Erictho, furiosa per la loro inadempienza, li minaccia di invocare in suo aiuto una misteriosa divinità più potente e infernale di loro, una sorta di dio supremo dell'universo alla rovescia (vv. 744-749):
Paretis, an ille
compellandus erit, quo numquam terra vocato
non concussa tremit, qui Gorgona cernit apertam,
verberibusque suis trepidam castigai Erinyn,
indespecta tenet vobis qui Tartara, cuius
vos estis superi; Stygias qui peierat undas?
Mi obbedite, oppure
dovrò chiamare colui che, una volta chiamato, la terra
non può non tremare, che guarda la Gòrgone in viso,
che con la frusta colpisce l'Erinni tremante,
che domina un Tartaro a voi, dall'alto, invisibile, lui
del quale voi siete i superni, e spergiura su Stige?
Nel sistema della magia nera, gli dèi infernali sono. più potenti di quelli celesti, ma possono essere costretti dalla cogenza del sortilegio ad obbedire all'operatore, che così, attraverso loro, può ottenere lo scopo illecito che si prefigge, per sua natura contrario alla volontà giusta degli dèi celesti, "superi" rispetto agli "inferi", nel senso preciso che abitano le regioni superiori (più alte) del cosmo, mentre questi ultimi abitano le regioni "infere"· (più basse), le viscere della terra, l'Ade. L'entità che Erictho minaccia di invocare magicamente contro gli dèi infernali, che non le stanno obbedendo, è divinità molto più "infera" ancora di loro, perché abita il Tartaro, ed è dunque ben più potente, in questa scala inversa di valori. È evidente il riferimento alla cosmologia esiodea, che pone l'Ade immediatamente sotto la superficie della terra, il Tartaro infinitamente più in basso: "Tanto sotto la terra, guanto il cielo è lontano da terra: tanto spazio infatti è da terra alle nebbie del Tartaro" (Theog. 720 sg.). E ancora: un'incudine di bronzo impiegherebbe nove intere giornate, sia precipitando dal cielo fino a terra (cioè al livello dell'imboccatura dell'Ade), sia precipitando da sotto la superficie terrestre (cioè dall'Ade) fino al Tartaro (Theog. 722-725) . Perché tra l'Ade e il Tartaro si stende l'abisso immenso del Chaos (Theog. 740) . Cosmologia ripresa da Virg. Aen. 6, 577-579, che però ritiene opportuno raddoppiare la distanza Ade-Tartaro: "Il Tàrtaro si spalanca a precipizio verso il basso e si protende nell'oscurità due volte tanto, quanto la vista celeste si spande fino all'Olimpo etereo (cioè, fino al suo limite estremo)". I versi fanno parte del brano che è a sua volta modello comune di Lucano e Dante, proprio negli episodi che qui ci interessano.
Dunque se gli dèi dell'Ade, gli ordinari ministri della magia nera, sono "inferi" rispetto agli dèi olimpi, che rispetto a loro sono "superi", e perciò meno potenti ai fini magici, il dio innominabile del Tartaro è "infero" rispetto agli dèi dell'Ade, che rispetto a lui sono "superi", e perciò subordinati. Di qui le prerogative di Lui, che può infrangere a suo piacimento le leggi e i poteri degli dèi infernali noti: può spergiurare impunemente sullo Stige, cosa rigorosamente vietata a qualsiasi divinità, che ne subirebbe pena pesantissima ; può punire e fustigare le Erinni, le tremende dèe infernali della vendetta e della punizione; può guardare in faccia la Gorgone senza esserne pietrificato. Tra l'altro, nell’allocuzione di Erictho, svolge un ruolo di dissuasione preventiva, senza nemmeno comparire sulla scena, proprio come la testa della Gorgone nelle figurazioni di Omero e di Dante. Solo a pensarla o a sentirla evocare, questa spaventa i vivi intrusi nell'Aldilà; Lui spaventa gli dèi infernali. È un gorgoneion di secondo grado!
A che cosa allude Lucano col suo misterioso ille? Già nei versi precedenti lo aveva ricordato due volte, sia pure di sfuggita: "Questi incantesimi imperiosi hanno forse un dio certo, che può costringere il mondo a tutto ciò cui anche lui è costretto?" (vv. 497-499); "Reggitore della terra, tormentato nei secoli dei secoli dalla morte mancata degli dèi" (v. 697 sg.). Allusioni criptiche, indefinite, a qualcosa di grande e terribile, assoluto, trascendente. È probabile che si tratti di un'entità somma e onnipotente, perciò innominabile, escogitata dall'ideologia magica, della quale il poeta si mostra qui e altrove ottimo conoscitore. Uno scolio antico suona: "An ille: dio maggiore, noto ai maghi" . In effetti, se ne trova riscontro in formule magiche restituiteci da frammenti di papiro .
Dante dovette restare impressionato e affascinato dal passo. Sapeva bene che la cultura antica, al di là del politeismo, aveva saputo attingere il principio monoteistico ai livelli più alti della filosofia, soprattutto con Platone e Aristotele. Ma che anche la cultura popolare, e anche ai livelli infimi della superstizione più repellente, avesse intuito, sia pure in maniera distorta e diabolica, qualcosa del genere, rappresentava ai suoi occhi un indizio straordinario dell'onnipresenza di Dio nella storia. Non fu la scena magica in se stessa ad attrarlo, bensì l'ille, del quale la scena magica è il contesto necessario. Ma come inserirlo nella sua trama?' Bisognava trasformare il Virgilio personaggio della Commedia, almeno per un momento, in apprendista stregone, ammaestrato da Eritòne: di qui la storia del suo primo viaggio nel basso inferno, su commisione di lei. Del resto Virgilio aveva nel Medioevo fama di mago . Bisognava riconvertire l'entità magica e pagana in entità cristiana: di qui l'idea dell'inviato celeste, che certo somiglia a un angelo, ma angelo in senso stretto non è, perché la sua rappresentazione deve mantenere il carattere potentemente indeterminato di quella lucanea. Manca non solo il nome proprio, ma anche qualsiasi nome comune, che finirebbe per circoscriverne i connotati, venendo meno all'intuizione poetica di fondo: "tal che per lui ne fiala porta aperta" (Inf. 8, 130); "Oh quanto tarda a me ch'altri qui giunga!" (9, 9); "un ch'al passo/passava Stige con le piante asciutte" (9, 80 sg.); "Ben m'accorsi ch'elli era da ciel messo" (9, 85). Solo pronomi, indefiniti o personali; mai un sostantivo che infranga l'alone di ignoto. Il terzo dei quattro passi riprende e stravolge in senso cristiano l'emistichio finale di Lucano: "e spergiura sulle onde di Stige" (6, 749).
Che non fosse possibile identificare il personaggio, lo si era ormai capito, tante e tanto diverse erano state le ipotesi: angelo, arcangelo Gabriele o Michele, Mosè, Cristo, Cesare, Arrigo VII, Ercole, Mercurio, Enea. Alcune colgono forse qualche risvolto connotativo della figurazione, altre sono francamente ridicole. Comunque il tentativo di identificazione è votato all'insuccesso, non perché sia impossibile di fatto, ma perché contrasta con la volontà d'arte dell'autore, secondo la quale il personaggio deve restare un'incognita che rinvia, riplasmandola, alla fantasticheria lucanea: un'ipostasi figurale della grazia divina, che integra la ragione umana (Virgilio) e ne sbaraglia la presunzione di autosufficienza (i diavoli, le Erine, Medusa). Il dio ignoto di Lucano, se arrivasse, farebbe tremare la terra; l'incognito di Dante arriva e la fa tremare per davvero (9, 64-66):
E già venìa su per le torbid'onde
un fracasso d'un suon pien di spavento,
per che tremavano amendue le sponde.
Accostatosi alla porta sprangata dai diavoli, si limita a toccarla con una "verghetta"; la porta si spalanca, senza poter opporre la minima resistenza (v. 89 sg.): sembra proprio un sortilegio! Per la "verghetta", i commentatori sono soliti annotare che gli angeli, nell'arte figurativa, sono spesso rappresentati con una verga ovvero uno scettro in mano, segno di potere ; ma, tra le righe, si percepisce in tutti loro una certa perplessità interpretativa. Dato il contesto, mi sembra chiaro che la "verghetta" è, prima di tutto, la classica bacchetta con cui operano maghi e streghe. Dante sapeva bene, ad esempio, che la maga Circe per mezzo di essa (appunto una virga) aveva trasformato in bestie i compagni di Ulisse ; che per mezzo di essa il dio Mercurio compiva le operazioni portentose, al cui genere appartiene quella che il messo celeste sta compiendo nei suoi confronti (Virgilio, Eneide 4, 242-244):
Quindi prende la verga: con essa richiama dall'Orco
le anime pallide, altre ne manda al Tartaro tetro,
dona il sonno e lo toglie, sbarra gli occhi alla morte .
Ricostruita la linea portante del rapporto intertestuale Dante-Lucano, si possono risolvere agevolmente le aporie sulle quali abbiamo richiamato l'attenzione sopra (Cap. 5). Virgilio vuole parlare con i diavoli "secretamente" (8, 87), cioè senza che Dante ascolti, perché deve fare una cosa necessaria, quindi giusta, ma non bella, soprattutto non educativa per il suo discepolo: li deve minacciare con una formula di magia nera, quella di Eritone. I diavoli, a differenza delle divinità infernali di Lucano, non cedono: dunque, quel "tale", l'ille, arriverà davvero. Per questo i diavoli sono presi dal panico, si rifugiano in tutta fretta dentro e sbarrano la porta in faccia a Virgilio, presumendo così di poter resistere all’assalto. Quando poi Virgilio ha la sensazione che il personaggio atteso tardi troppo, ha un momento di dubbio, che traspare nelle parole rivolte a Dante (9, 7-9):
"Pur a noi converrà vincer la punga
- cominciò el - se non ... tal ne s'offerse:
oh quanto tarda a me eh' altri qui giunga!"
Dante si spaventa per il dubbio manifestato dal maestro con la frase incominciata e lasciata a mezzo. Forse, riflette ora in sede di narrazione, le aveva dato un significato più grave di quello che non avesse (9, 14-15). La critica a sua volta ha fatto diverse ipotesi, che però non l'hanno mai soddisfatta, e alla fine ha desistito: se Dante avesse voluto che capissimo, hanno osservato i più giudiziosi, ce lo avrebbe fatto capire; "la parola tronca" è forse soltanto un tratto descrittivo generico dell'ansia di Virgilio. Ma, alla luce della trama "lucanea", si potrebbe intendere: 'Sono certo che vinceremo la battaglia, a meno che... (il sortilegio di Eritone non si riveli inefficace nella situazione presente. Ma no, vinceremo di certo, prima o poi, a prescindere dal sortilegio) dal momento che ci è stata data garanzia in questo senso da Beatrice, portavoce di Maria e Lucia, in ultima analisi della grazia divina'. La battuta ridimensiona opportunamente il valore simbolico del rito magico, e lo riconduce nell'alveo dell'ortodossia cristiana.
Alla fine dell'analisi condotta in questi ultimi due capitoli, siamo in grado di capire anche perché Dante, nel richiedere al lettore attenzione al significato allegorico, definisca "strani" i propri versi (vedi sopra, Cap. 6): rispetto al modello virgiliano, celeberrimo e compresente alla mente dei suoi lettori, Medusa è un inedito di non facile spiegazione; tutta la vicenda del colloquio tra Virgilio e i diavoli, dell'attesa snervante, del soccorritore misterioso, è incomprensibile anche sul piano letterale, se non si tiene presente Lucano e non si capisce il gioco imitativo di Dante .