L’esegesi dantesca di Domenico Mauro [Domenico Cofano]

Dati bibliografici

Autore: Domenico Cofano

Tratto da: Studi Medievali e Moderni

Numero: 1-2

Anno: 2021

Pagine: 411-432

Un percorso tra i più fecondi della critica dantesca è quello che, avviato già da Pietro e Jacopo di Dante, e variamente perseguito nel corso dei secoli, ha sempre più enfatizzato, coinvolgendo anche il problema centrale del rapporto fra poesia e struttura, la questione dell’allegoresi nella storia dell’esegesi dantesca, che molto spesso si è alimentata degli stimoli di alcuni ‘minori’ che, proprio in quanto tali, possono circoscrivere punti vitali «di saldatura e di smistamento di talune idee correnti e più significative» .
Tra questi minori da recuperare ha un suo nitido rilievo Domenico Mauro, che viene opportunamente ricordato da Aldo Vallone, e che trova una collocazione, sia pure defilata, anche nell’Enciclopedia dantesca, che ne coglie il merito di aver individuato nelle allegorie, «pure bellezze poetiche» — quasi un preannunzio delle «pure immagini visive» di Eliot — il tipico linguaggio espressivo di Dante .
In effetti, proprio agli studi danteschi si lega la memoria del suo nome: è del 1840, stampato a Napoli dalla Tipografia boeziana, il suo lavoro sulle Allegorie e bellezze della «Divina Commedia», che egli espressamente definisce un Commento su l'Inferno e che aveva pubblicato con la promessa di proseguire «su l’altre due cantiche» .
L’opera, stampata in pochi esemplari «spacciati» solo in ambito locale, nonostante la diffidenza del Mauro nei confronti di un pubblico abituato a curarsi solo del senso letterale, ebbe un’accoglienza favorevole , come si riscontra in una lettera dell’8 novembre 1845 al fratello Vincenzo, in cui peraltro si duole della difficile e lenta diffusione del suo Errico, un poemetto, del 1843, di timbro byroniano:

Non è avvenuto così del mio Dante. Da principio tanta guerra, ed ora è ricevuto universalmente. Se ne fanno richieste da molti stabilimenti ove s'insegna, come p. e. dal liceo di Catanzaro. Quella è un’opera, che non può fallire al suo scopo. Ora non ne ho più copie, tranne poche in San Marco, delle quali 20 cerco farle giungere a Michele Bellizzi che le ha chieste. Quando ne farò la seconda edizione quell’opera sarà divenuta Italiana. La verità e il merito, presto o tardi trionfano» .

Di qui la decisione del Mauro di riprenderla, con alcune correzioni, e di ristamparla, molti anni dopo, nel 1862, in Concetto e forma della «Divina Commedia» , che, con l’aggiunta, nell'adempimento dell’antica promessa, del commento al Purgatorio e al Paradiso, trova, secondo la testimonianza di una lettera datata 15 giugno 1865, la lusinghiera approvazione di Victor Hugo .
Nella prefazione l’autore, dopo aver ripercorso i modi e i tempi del suo ravvedimento di dantista, maturato al fuoco dell’approfondimento del Medioevo e della religione cristiana, che gli hanno consentito di scoprire l’importanza dei simboli e dell’allegoria, «gli archi e le curve, su le quali Dante riposò il suo immenso edificio» , riconosce di essere stato preceduto, nella rivalutazione dell’allegoria, ai fini del «ritrovamento di un concetto unico e generale» nel poema, da Niccola Nicolini e da Gabriele Rossetti .
Ma aggiunge subito dopo che il Nicolini, che nella Commedia vide «riprodotta quasi per intero la Scienza Nuova di Vico» , cadde in errore quando «volle individuare l’unità dell’opera in un concetto filosofico», così come sbagliò il Rossetti quando, pur riconoscendo la necessità di cercarla, «volle individuarla in un concetto storico», nel rivestimento allegorico della satira politica contro il papato e contro la propria città. Egli la ritrova, invece, in un «concetto religioso, morale e politico insieme, di validità universale, e soprattutto in un concetto poetico» , e non dubita che il simbolo e l’allegoria siano il fondamento del poema dantesco:

Solo quando quest’ultimo sarà riguardato come forma artistica, come mistico svelamento, solo allora la corona di massimo poeta potrà riposare sicura su la fronte dell’Alighieri. Allora si vedrà che la sua poesia è tutta originale; ch’ei non ebbe modello né fu modello ad alcuno di quanti diconsi suoi imitatori; e si vedrà emergere un senso unico e lucido di tutti i canti della Divina Commedia, che separati appaiono piccioli ed oscuri .

Fu «felice intuizione del Mauro (e tutta sua) non solo l’aver colto i due momenti, lo storico-filosofico (quello che in seguito verrà a designare la struttura) e il poetico, ancora non drammaticamente contrastanti tra loro; ma anche l’aver inteso Dante, nella stessa età del De Sanctis, e forse qualche anno prima delle ultime lezioni, come l’elemento coordinatore dei due momenti e, anzi, come la sola unità concreta ed operante di tutta la Divina Commedia» , in quanto personaggio simbolico — come del resto Virgilio e Beatrice — rappresentativo di uno stato generale dello spirito umano.
All’esegesi del Mauro rivolge la sua attenzione, in un saggio del 1927, un docente e studioso, Tito Lucrezio Rizzo, siciliano di nascita, ma calabrese di adozione , che, destreggiandosi fra apprezzamenti e riserve, la considera tuttavia «un contributo tutt'altro che trascurabile agli studi danteschi» e la colloca all’interno di quella temperie spirituale che «per merito di Gasparo Gozzi, aveva segnato il trionfo di Dante sulle insulsaggini voltaireane e bettinelliane» , arricchendosi poi del contributo di Foscolo, di Gabriele Rossetti, del Tommaseo (che, secondo il recensore, «non ci tracciò grandi quadri d’insieme [...], ma esercitò il suo acume e la sua espertissima industria nei dettagli e nelle chiose, che son veri miracoli di dottrina») e del Balbo, dai quali il Mauro, pur non mancando di significativi dissensi, eredita il «canone fondamentale d’ogni sana critica: quello, che il critico, prima di accostarsi al suo poeta, sappia farglisi contemporaneo» .
Di conseguenza, «se il Medioevo fu l’età dell’allegoria o dell’allegorismo» , allora non si può studiare e capire Dante se non attraverso il suo armamentario allegorico. Di qui l’importanza, per il recensore, della ‘lettura’ dell’amico, che, giovandosi del Vico, ma anche, appunto, del Tommaseo, che aveva nettamente insistito sull’importanza della Bibbia ai fini della comprensione piena della Commedia , riesce a contemperare felicemente l’interpretazione foscoliana con quella eccessivamente tendenziosa del Rossetti, sostanzialmente respinta con «sali addirittura lucianeschi o aristofaneschi» , come nel caso dell’interpretazione di “Amor” come anagramma di Roma: il suo è un metodo «trasmodante», come del resto quello del Settembrini, per il quale tutta la storia letteraria italiana si sviluppa intorno al tema del rapporto fra papato e impero . Ma si tratta pur sempre di «nobili eccessi», giustificabili alla luce della passione civile che li anima.
Certo, è indubbio, per Rizzo, che il simbolo e l’allegoria sono alla base della Commedia e che non è condivisibile l'opinione di Croce, secondo il quale il poema consisterebbe essenzialmente nella forma, quasi che la forma sia «un miracolo improvviso» e non l’esito di «un travaglio che ha trovato il suo riposo» ; ma è certo anche, a suo parere, che spesso il concetto dell’allegoria, insistentemente riproposto, tiranneggia a tal punto il critico, da indurlo a sostenere che nell’Inferzo, dove «si aggira il soffio della sterilità e della rovina, l’ira di Dio e la colpa dell’uomo, non debb’essere oggetto alcuno collocato a fregio ed a bellezza» ; su questa via non solo si sacrifica la potenza delle passioni che si alimentano della «pulsante umanità del Poeta» , ma ci si preclude la strada alla comprensione dei tanti personaggi che nella cantica infernale sono collocati appunto «a fregio ed a bellezza». L’adulterio di Francesca, per esempio, «è sublimato mediante le teoriche dello stil nuovo» e «cittadini come Farinata e quei tre Fiorentini della landa dei sodomiti sono, per sentimento patrio, non men nobili di Guido del Duca, di Forese Donati e di Cacciaguida» .
Al recensore, tuttavia, al di là di ogni altra considerazione, talvolta sembra quasi che Mauro anticipi in qualche modo il De Sanctis, soprattutto quando svolge le sue considerazioni in ordine alla capacità del critico calabrese di trascendere, come quando alza «il sipario» dello «spaventevole» teatro infernale, il mero rispecchiamento della realtà sociale, o, in particolare, alla distinzione, sulla scia del Vico, fra il livello fantastico e il livello intellettuale che presiede alla distribuzione dei dannati e delle pene:

Ma questi veri morali sono per avventura meditazioni profonde, ma non poesia. Essi parlano solo all’intelletto, laddove la poesia deve parlare a tutte le potenze dell’anima: racchiudono il giudizio dei fatti, laddove la poesia vuole i fatti stessi, vuole azione e movimento; porgono la nuda verità, laddove la poesia chiede finzione ed arte compagne alla verità. Perciò Dante percorre la Natura e tutti i secoli passati, e così le colpe si riflettono nei suoi versi, come in uno specchio, ma in tutta la varietà dei loro colori, ma incarnati nella vita .

Nella concreta valutazione degli spiriti dolenti, spesso il Mauro, per sua fortuna, si sottrae ai rigidi condizionamenti delle premesse teoriche, pervenendo, quando non «dà come sue idee già espresse a sazietà da molti commentatori» a notazioni vivissime; notazioni che, quando non sono debitrici nei confronti dei ‘lettori’ precedenti, che, a scapito della validità scientifica del libro, non sempre vengono debitamente citati, spesso, invece, si configurano quali apporti di notevole sagacia , come nel caso delle osservazioni sulla forma dell’inferno dantesco, la cui rotondità è ricca di un bellissimo senso riposto .
Da questo punto di vista, particolarmente pregevoli risultano le osservazioni del Rizzo quando rileva che Mauro, richiamando la polemica fra il Monti e l’«autore dell’Antipurismo» , giunge a conclusioni che precorrono, anche in questo caso, l'opinione del De Sanctis sui generi letterari, poi ripresa e ampliata dal Croce. Opinione che, peraltro, era stata già stupendamente avanzata da Leopardi nello Zibaldone , che ovviamente il Mauro, a differenza del Croce, non conosceva quando sanciva acutamente il suo rigetto dei generi letterari:

Veramente or notiamo che se lo scopo di Dante fu di apprenderci le leggi universali della vita morale, pure quel mondo, in cui quelle leggi si manifestano, veduto nella sua esistenza eterna, e ritratto con tanta verità dal poeta, è uno spettacolo sorprendente, un dramma infinito; è l'eterna realtà che vive fuor della mente nostra; e per questa considerazione il poema, in cui essa realtà viene ritratta, non può dirsi propriamente poema didascalico, né epico, né drammatico, ma, col nome antonomastico, dee chiamarsi poema. Esso è il poema dei poemi; è lo sguardo più eccelso dell’Arte che abbraccia tutt’i generi e le forme, che sono nel suo dominio, e li fonde in una suprema unità indefinita .

Dello studioso Tito Lucrezio Rizzo condivide anche la convinzione secondo la quale la liricità dell’opera ha le sue radici nell'amore giovanile espresso nella Vita nova, sicché Dante e Beatrice sono le due più grandi «figure drammatiche» del poema, in quanto «riassumono l’azione di tutti gli altri personaggi e riproducono da soli, in un modo più vivo, più largo, con maggiore unità, la Divina Commedia» .
In sostanza, se «tutta l’azione del poeta è la reciproca forza dell’attrazione e dell’aspirazione onde le creature sono governate», questa forza, «che è la legge generale della Divina Commedia, prende la sua espressione più drammatica e sublime nei personaggi di Dante e Beatrice»: Beatrice rivela Dante a sé stesso e «lo fa uomo», quando, negli anni giovanili, si svolge «nell’animo suo il germe dell’amore»; di quell'amore che poi lo fa anche poeta. E a Beatrice già beata ritorna dopo la fase del traviamento, per riprendere il «suo diritto volo verso il bene», diventando «filosofo cristiano» e avviandosi alla visione di Dio e alla conoscenza delle leggi dell’universo: «Beatrice è una bella fanciulla in terra, ed è la bellezza eterna e la legge universale nel cielo» .
Insomma:

Tutto ciò che è reale e ideale nella Commedia dantesca, o — meglio — tutto ciò ch’è il reale trasfigurato (forma), vivo e pulsante appunto perché intensamente vissuto (la storicità di Beatrice e dell’amore di Dante) è qui visto ed inteso con acume, e spiega l’importanza delle conclusioni a cui perverrà molto di poi il D'Ancona quando dimostrerà in modo irrefutabile la realtà storica di Bice Portinari .

Mirabile è, dunque, secondo Rizzo, l’intuizione del Mauro, per il quale Beatrice, che assurge a simbolo della scienza divina, e Dante, che assurge a simbolo del desiderio di conseguirla, «sono il finito e l'infinito che s’incontrano ed abbracciano nello spirito umano; sono questo spirito umano che si ragguaglia a Dio nella sua doppia forma di Principio e Fine, di Amore e Idea: dualità divina che nel mondo è riprodotta nella dualità umana — l’uomo e la donna» .
Abbiamo qui un campione significativo dei principi estetici, non privi — come già si è rilevato — di suggestive aperture in direzione desanctisiana, che reggono complessivamente l’esegesi del Mauro:

I simboli e le allegorie sono l’ideale compenetrato col reale, in guisa che ciascuno rimane quello che è, quantunque siano tra loro stretti con un vincolo indissolubile. Quest’unione dell’ideale col reale è il sommo bello, a cui il vero poeta si eleva anche quando non vi è costretto, come Dante fu dalla natura peculiare del suo soggetto. L'unione del reale e dell'ideale costituisce ciò che in arte si dice tipo. Il tipo costa d’idea e di fenomeno: l’idea, che contiene, lo riconduce all’eterno, il fenomeno al tempo. Come fenomeno il tipo è vita, è azione; come idea la sua azione non deve avere che la luce che rischiara la natura immutabile di essa idea. E per questa ragione ogni opera di poesia rappresentativa non è che un insieme di tipi, e un dramma .

La sua capacità di cogliere le più sottili bellezze della Commedia, compromessa, in qualche caso, da una eccessiva ‘verecondia’, «ch'è religione per l’arte» e che non gli consente, per dirne una, di apprezzare la scena del bacio nell’episodio di Paolo e Francesca , si manifesta, secondo Rizzo, non solo in alcune acute osservazioni sui singoli momenti della rappresentazione infernale, come quando, raffrontando la barca del Caronte virgiliano con quella del Caronte dantesco, osserva che la seconda, a differenza della prima, è senza vele e senza una forma determinata, perché «pare mossa dall’ira di Dio» , ma anche in rilievi psicologici ed estetici di più complessiva portata.
Notevoli, in questo senso, non solo la sua designazione del Purgatorio come regno della libertà — di quella libertà di cui è emblematico rappresentante Catone —, ma anche le varie considerazioni che svolge in ordine all’esilio del poeta, che appare come «un altro Cristo crocifisso dalla sua Firenze» , o all’universalità del poema dantesco, con la sua straordinaria conciliazione di elementi pagani e cristiani, o alla distinzione tra gli spiriti dell’Inferno e quelli del Purgatorio:

L’Ombre [del Purgatorio] non solo veggono da se l'errore e la verità, ma sono esse che li rivelano a Dante. Quindi avviene che in bocca degli spiriti purganti si ascoltano lunghi discorsi che riguardano i loro vizi. Nell’Inferno l’Ombre talora fanno dei sapienti ragionamenti, ma trattano solo di politica, di storia, di cose cioè che si affanno alle loro passioni e intendimenti profani. Ivi il solo Virgilio fa l’uffizio della ragione. Porgendoci l'inferno immagine della operosità spontanea e cieca del vizio avviene che percorrendolo noi ci troviamo innanzi a gruppi e scene statuarie, imperciocché non vediamo che le linee severe e mute della materia, mentre nel Purgatorio non solo la statuaria, ma la pittura e la parola danno alle cose la forma, il colore, l’intelligenza [...]. Nel paradiso la scultura e la pittura quasi mancano, e non vi resta che la luce e la parola, onde vi si mostra in un modo sovrano l’armonia ideale delle cose, ch'è la legge che compenetra tutto, e che a Dante, come più sale e avanza nel suo viaggio, meglio si manifesta .

Un altro notevole merito dell’esegesi del Mauro, per Rizzo, è quello della sua comprensione dell’essenza profonda della poesia del Paradiso, capace di esaltare acutamente «la sublimata umanità di Dante, che informa e accende di sé sempre passionatamente il regno di Dio» facendo prevalere «la concretezza artistica sulle astrazioni» , e di rilevare come l’ultima cantica non parli solo all’intelletto, e come, nel suo disegno ampio e armonico, si costituisca a modello esemplare della città terrena:

Ma quantunque il paradiso è una vita tutta spirituale e intima dell’anima umana, pure nelle sue forme esterne rende un’immagine assai viva dell'Europa Cristiana dei tempi di Dante. L'inferno non ha riscontro in quella società che nei luoghi di pena, o nei sepolcri; il Purgatorio nella chiesa di penitenza, ma nel Paradiso noi vediamo la forma costitutiva e vera di essa; noi v’incontriamo la Corte dei papi, degli imperatori e dei re; noi vi vediamo i baroni, gli ordini monastici, tutta la gerarchia, in cui essa si ordinava allora. E tale immagine intendeva darci il poeta che dà il nome di baroni ai santi, e chiama Corte di Dio il cielo. É in vero nella sua mente l’ordinamento della società cristiana era un riflesso di quello dei cieli; e perciò nel suo poema i cieli sembrano un riflesso della terra. Non solo ci pare di trovarvi le Corti baronali e i chiostri e le chiese di questa terra, ma ci pare vedere e sentire i frati e sacerdoti salire le cattedre, e sotto le grandi volte dei templi predicare la parola sacra, e i grandi e i baroni unirsi in consiglio, o in feste nelle splendide aule imperiali, tra i paggi e i loro valletti, al cospetto dei re e degli imperatori .

Viene ancora una volta riconfermata la coerenza di una ‘lettura’ che privilegia il filo rosso della chiave simbolica, in sintonia con la sensibilità medievale e cristiana:

Il Cristianesimo in sostanza non c’insegna altra verità che questa: che Dio cioè si fa uomo, e l’uomo diventa Dio. Comprendendo l’unione dei due termini dell’essere, l’arte cristiana ha, come la Fede, veduto il mondo nella mente di Dio prima che uscisse nel tempo, ha veduto cioè un mondo eterno, immutabile, tipo di tutti i mondi possibili; e ha veduto che questi mondi possibili sono infiniti dopo quel tipo, e che tutti sono l’ombra della mente di Dio, l'ombra della sua idea. Questi si specchiano in quello. La terra si specchia nel triplice universo Divino, eterno ed immutabile, nell’Inferno, nel Purgatorio e nel Paradiso, e diventa eterna ed immutabile come essi. I suoi simboli ed allegorie sono però l'eterna realtà, veduta nella sua fonte .

Il lavoro sul Mauro trova in seguito più ampio sviluppo in Allegoria, allegorismo e poesia nella “Divina Commedia” (Messina 1941), di cui la recensione del ’27 è in fondo una premessa e che, ponendosi in ideale confronto con il saggio miliare di Croce sulla Poesia di Dante, del 1921, ottiene l'approvazione del Vossler («è una disquisizione che si legge con piacere e profitto») e di Alfredo Galletti, che così gli scrive, nel marzo del 1942:

Io sono pienamente d’accordo con lei e nella tesi fondamentale e nella soluzione che dà ai dubbi ed alle questioni che pone od accenna nel corso del suo studio. A me la famosa antitesi crociana fra struttura e poesia sembra una delle trovate più bislacche del suo dogmatismo estetico. É una stortura interpretativa che nasce da un errore psicologico, il quale, alla sua volta, ottunde ed offusca il senso storico. Se infatti il gelido criticismo del Croce rimane chiuso alle allegorie dantesche, se egli non riesce a vedere in quelle forme, non che una fiamma, neppure una scintilla di poesia, come non pensa, come non sente che per la immaginazione degli uomini del Medio Evo esse erano vive, corpulente, ricche di significato, agitate da uno spirito divino o demoniaco? Per Dante, poi, come per tutti i mistici l’intero universo era una foresta immensa di simboli ove ogni cosa, ogni parvenza era unita per arcane corrispondenze alle altre parvenze, l’immagine dell’una richiamava quella dell’altra, la preannunciava, le dava senso e valore .

Nella monografia, che è dedicata a Paolo Savi Lopez, suo maestro all’Università di Catania, si riconferma ancora una volta che l’allegoria è, in Dante, generatrice di poesia, e che la poesia, in sostanza, «fonde e unifica nel calore dei fantasmi coloriti della parola e nella suggestione della musica quegli elementi che per il Croce e più per il crociano sono eterogenei e giudicati allotri» .
I lavori danteschi di Domenico Mauro, molto prima di queste recensioni, avevano già trovato un pronto e tempestivo riscontro in due contributi, che peraltro Rizzo non manca di segnalare , del conterraneo Vincenzo Padula , che sarebbe sfuggito del tutto alle ricostruzioni della storia della critica dantesca se non vi avesse fatto fugacemente cenno Giuseppe Inzitari . Scrittore di Acri (1819-1893), prete liberale, insegnante, giornalista, poeta e novelliere di stampo byroniano, si conserva nella memoria dei posteri soprattutto per una serie di articoli sulle condizioni sociali della Calabria, pubblicati nel «Bruzio», un giornale ch'egli stesso aveva fondato, a Cosenza, nel 1864.
Nel primo contributo, che è del 1840 e che riguarda le Allegorie e bellezze della «Divina Commedia» , dopo aver strumentalmente ridimensionato le precedenti interpretazioni di quanti «tenendosi alla poetica di Aristotele, caddero nell’errore di quelli che fecero giudizio dei gotici monumenti a ragguaglio delle svelte ed eleganti forme della greca architettura», conclude che il poema, a suo dire, è «la storia dell'anima umana che sale per tutti i gradi della contemplazione platonica» , fondendo felicemente il genere narrativo, il genere lirico e il genere didascalico e offrendo ogni possibile «materia poetica» ; forme e materia poetica cui gli italiani per lo più non attinsero, quasi che la Divina Commedia «non fosse il poema della loro nazione» e, addirittura, di tutta l'Europa . A «riparare a tanto sconcio» , dopo lunghi secoli di barbarici assalti al Parnaso nazionale, giunge opportuno il lavoro di Domenico Mauro, che Padula esalta, lamentando che i critici e grammatici precedenti, che pure ebbero il merito di riportare alla luce il «tarlato e venerabile simulacro del poeta» e di animare, già, a metà Settecento, con Alfonso Varano, e poi, a partire dalla metà dell'Ottocento, soprattutto con Vincenzo Monti, un rinnovato fervore di studi danteschi, se furono capaci di illustrare i sensi arcani del poema, non ne seppero cogliere la bellezza poetica, disegnando il ritratto di un Dante «spersonito», teologo più che poeta .
Domenico Mauro, in effetti, a suo parere, fondandosi sui famosi versi di Inferno IX 61-63 , aveva saputo cogliere il carattere allegorico del poema, che, proprio in virtù della sua natura prevalentemente didascalica, dell’allegoria aveva, appunto, necessariamente bisogno, al fine di «mostrarci la gerarchia dei vizii e delle virtù, e la causa, la natura e gli effetti loro, e come l’uomo cada nella colpa, e si allontani da Dio, e come n’esca ed a Dio si avvicini» . Della presenza dell’allegoria, alla quale «intesero Pietro e Jacopo», figli di Dante e primi commentatori del poeta, «e poi il Boccaccio, e poi Cristoforo Landino, e poi Alessandro Vellutello, e poi il Ventura, ed altri» , in verità, dopo la renitenza della critica francese del secolo XVIII, e dopo l’avversione del Bettinelli, si era bene accorto Gabriele Rossetti, del quale però Padula non condivide l'offensiva pretesa di offrire una visione ‘protestante’ del poeta, che, invece, Mauro opportunamente riconduce all’ortodossia. Egli, soprattutto, contro quei lettori che «stimavano materia morta ed antipoetica i simboli e le figure» , o che disputavano sul senso, mistico o storico, del primo canto dell’Inferzo, valorizza la fusione di ideale e reale che si manifesta, appunto, al massimo grado, nelle allegorie — prime fra tutte proprio quelle del canto proemiale —, che velano idee che «si sviluppano sott'altre immagini sempre più chiare in tutto il poema», volto a significare «il moto ascendente dello spirito del suo protagonista dalla ignoranza alla cognizione»:

Quando Dante era sulla terra i tre vizii maggiori Superbia, Invidia ed Avarizia gli si mostravano sotto le sembianze della Corte Romana, dell'ambizione di Valois, e dei partiti di Firenze. Entrato nell’inferno, ed avendo a maestro Virgilio, passa dal campo della realtà storica al campo dell’ideale, e quegli stessi vizii gli si presentano nell'immagine delle tre Furie, e poi nelle tre facce di Satana... Dante non c’insegna verità nuove, ma riproduce le stesse, facendoci vedere il procedimento del suo spirito rispetto alla conoscenza di quei vizii, e la sua morale trasfigurazione. Da prima è l’uomo c'ha una incerta notizia del male, aiutato da oscuro istinto; poi l’uomo che s’avanza alla conoscenza del vizio, guidato dalla ragione; alfine n'ha conoscenza piena, rischiarato dalla Fede. Nella Selva è il semplicione di Vico, nel corso del viaggio è gentile, percorso l'Inferno, è cristiano... In Dante ogni immagine diventa un’idea, ogni individuo una specie, ogni nome una storia... Tutto è ordine e simetria nel poema di lui, che nelle singole parti riproduce le diverse facce della stessa idea .

Per Domenico Mauro non solo il primo canto, ma tutto l’Inferzo, nell’organicità della sua struttura, e nella sua forte significazione morale, «fa ufficio di verità e d'immagine, cioè, di significato e significante» , è ideale e reale insieme: ideale, perché mostra le leggi immortali del male; reale, perché rappresenta la contingente corruzione terrena. Nel primo caso, nella sua valenza simbolica, si fa «immagine dell’inferno passaggiero» , nel secondo caso, coinvolgendo il lettore nella concretezza della temporanea dannazione, gli fa obliare la prospettiva celeste. Il genio di Dante racchiude l’uno e l’altro inferno, e, dunque, si configura, nella prospettiva dello studioso, come satira e modello al tempo stesso: è satira perché «vi si punisce una società che ripudia l’impero e la religione»; non è più satira perché, avendo presente «all’occhio della mente un tipo eterno del buon reggimento dei popoli», diventa «immagine di quello immortale modello, di leggi, di morale e di vita santa e imperitura»:

Bisogna far ragione all’uno e all’altro elemento, al passaggiero e all’eterno [...]. L'inferno terreno si sente nell’inferno eterno come un'eco; anzi non lo diciamo inferno, se non perché quell’eco rimbomba nelle profondità e nelle tenebre, che non hanno fine; l'inferno eterno sta per sé, ma sarebbe un’immagine morta, se non ripetesse l’eco dei vivi. E la rea terra che dà vita all’inferno eterno, ed è l’inferno eterno, che dà nascimento a quello della terra .

Domenico Mauro è, secondo Padula, anche il primo studioso che abbia saputo offrire una convincente spiegazione del duplice aspetto, pagano e cristiano, della Commedia. Emblematica è, a questo proposito, l’analisi del Veglio di Creta, che, connotandosi come immagine della depravazione di tutte le nazioni e di tutti i tempi, conferisce alla cantica una portata storica. La scelta di Dante di collocare l’origine della corruzione nel tempo pagano, numerando da Saturno e non da Adamo, attribuendo il fiume peccaminoso che origina l’Acheronte, lo Stige, il Flegetonte e il Cocito al monte Ida e non all’Eden, parlando dei Greci e non degli Ebrei, dipende dal fatto che la storia deriva da Virgilio, che può trasmettere e insegnare al discepolo solo quel che conobbe attraverso la ragione, di cui è emblema .
Dante è insieme poeta e pittore, scultore e architetto. Se gli altri poeti, «prima e dopo di lui han creato la forma, non già la materia; gli avvenimenti, non già i luoghi; gli attori non già il teatro», solo Dante è stato capace di fondere materia e forma, avvenimenti e luoghi, attori e teatro:

Omero crea Achille, ma non la pianura di Troia, Virgilio crea Didone, ma non fabbrica Cartagine. Dante crea i dannati e fabbrica per loro l’inferno; e la forma materiale dell'inferno risponde alla natura morale dei dannati; l’uno è il corpo, gli altri ne sono l’anima [...]. In Dante dunque vi è una doppia poesia: quella degli attori, e quella muta, ma più sublime delle scene dove parlano, e si muovono gli attori. Insomma Dante è un baco miracoloso, che della propria sostanza si ordisce il bozzolo, poi vi si chiude, e lo descrive [...]. L’opera sua è un raziocinio fabbricato e scolpito nell’inferno, fabbricato scolpito e dipinto nel Purgatorio; dipinto e musicato nel Paradiso.

La «doppia poesia» dei luoghi e degli attori nasce, secondo il Padula, proprio dall’allegoria, per la quale «le forme materiali dei luoghi e delle pene sono segni delle qualità morali dei dannati, e della natura delle colpe» , e, dunque, può essere compresa solo se la si coglie nella totalità della sua grandezza; chi non ne tiene il debito conto, la impoverisce e la vanifica. Come ogni immagine si fa idea, così ogni individuo assume i caratteri della specie, ogni nome diventa storia: Cesare è l’imperatore romano, ma anche ogni altro futuro imperatore; Roma è la città eterna, ma anche il simbolo di tutti gli imperi della storia, la Chiesa di Cristo, il luogo della comunione civile di tutte le genti; Adamo, Noè, Mosè sono i personaggi storici, ma sono anche gli anelli della infinita catena con cui la Provvidenza intreccia le sorti del mondo e prepara l’avvento del Cristo, allo stesso modo in cui, pur senza conoscerlo, operano per la sua venuta i poeti della bella scola .
Del commento del Mauro il Padula ammira molti momenti di innovativo approfondimento, dal parallelo fra l’inferno virgiliano e quello dantesco alla penetrazione psicologica dei due viandanti all’ingresso del terribile luogo; dal valore simbolico del Limbo alla rappresentazione di Pier delle Vigne; dalla spiegazione della pena degli alchimisti alla decifrazione, in relazione al canto XXXI dell'Inferno, del valore simbolico dei Giganti e della ragione per la quale sono tutti ridotti all’impotenza, tranne Anteo: in realtà essi alludono allegoricamente all’orgoglio, causa prima di ogni peccato, e sono posti accanto a Satana proprio nel rispetto di quella duplicità di visione che deriva dalla concezione della ragione umana e dalla contemplazione della fede cattolica. Dei quattro, solo Anteo è sciolto, mentre Nembrot, Briareo e Fialte sono legati; ed è sciolto non, come aveva creduto Tommaseo, per collaborare al passaggio delle anime dannate, ma perché, a differenza degli altri giganti, invece di combattere contro Dio, e di rappresentare, dunque, l'orgoglio «stolto e assolutamente impotente», combatté contro Ercole, simbolo della forza civile .
Nelle considerazioni del Padula ha particolare risalto anche il commento all’apparizione di Gerione e all’enigmatico gesto del lancio della corda: per il Mauro la corda è legata alla ‘scaltrezza’, se è vero che il poeta stesso dichiara di essersene servito, altra volta, per liberarsi della lonza, che, nell’interpretazione politica del primo canto, allude a Firenze, sicché, come in passato Dante era riuscito a piegare la città ai suoi desideri, così spera ora di fare con Gerione, che, ingannato dalle apparenze, al lancio della corda si illude che qualche anima malvagia sia stata scaraventata sul fondo dell’Inferno .
Anche la seconda opera del Mauro, Concetto e forma della «Divina Commedia», che vede la luce nel 1862, «dotto» e «assennato» frutto del rinnovato impegno dello scrittore sandemetrese, viene accolta con favore dal Padula, che, recensendola in forma di lettera, la vede «ricca di tanti e tali pregi, che resterà tra i più dotti ed assennati lavori di critica letteraria» .
Non manca, tuttavia, il Padula, di marcare momenti di significativa autonomia e di garbato dissenso, ma anche di singolare originalità, in particolare in riferimento a due elementi basilari della sua interpretazione allegorica e morale del poema: il viaggio di Dante e la redenzione del pellegrino attraverso il cammino oltremondano.
Per quanto attiene il primo aspetto, ritiene che il Mauro, con “soverchia temerità”, come egli stesso aveva riconosciuto, si sia spinto a spiegare il proemio della Commedia in un senso mistico e storico insieme:

Dante desidera intraprendere un viaggio per Roma, ove si celebra il Giubileo, ma è impedito dai suoi nemici politici. Purnondimeno in questo canto non si fa cenno di Roma e dei nemici di Dante, onde per vedervi quella e questi abbiamo supposto che la cima del Monte è il luogo dove sta Gerusalemme [nel senso mistico], e il monte è il cammino che vi conduce. Posto che sul monte del canto primo stia Gerusalemme, ci è sembrato facile il dimostrare che Gerusalemme è Roma [nel senso letterale]; che il monte, il quale vi conduce, è il cammino di penitenza che vi conduceva i pellegrini nell’epoca in cui Dante apre la scena, e che la selva è l’immagine allegorica dei vizi umani .

Secondo il Padula, lo studioso è caduto in errore, dal momento che Dante non solo andò a Roma, come testimoniano i versi 28-33 del c. xv della cantica infernale, ma anche ne fa cenno nei due canti iniziali del poema: a suo parere, dunque, il «dilettoso monte / ch’è principio e cagion di tutta gioia» non è altro che il «Mons Gaudii» che il Du Cange individua come il Vaticano:

Nel senso letterale adunque il Colle del primo canto è il Vaticano, e il Sole che mena dritto altrui per ogni calle è Cristo, che ci conduce pel calle della vita temporale, e dell’eterna, ed i raggi, onde il Sole lo veste, sono le grazie del Giubileo, che si predicava nel tempio di S. Pietro fabbricato appunto sul Vaticano [...]. Alla pubblicazione del Giubileo, cioè alla vista del Vaticano vestito dai raggi del sole, fu un poco queta la paura dell’animo suo, che fuggiva dalla selva e detestava il vizio; ed assoluto dai peccati, ei si paragona ad un naufrago salvatosi dal mare, e che libero dai rimorsi della coscienza si riposa col corpo lasso .

Né vale a sminuire tale ipotesi l'eventuale appiglio a Inferzo I 28 e 64, dove il poeta, accingendosi all’ascesa del colle, parla di «piaggia diserta», e poi di «gran diserto», utilizzando un termine che ritornerà significativamente in Purgatorio X 20-21 («un piano / solingo più che strada per diserti»). E evidente che non intendeva certo, Dante, riferirsi a una condizione reale del Vaticano, peraltro proprio nell’occasione del Giubileo, che richiamava a Roma una moltitudine di pellegrini: l’espressione è metaforica e rimanda proprio all’esordio del canto purgatoriale appena citato, con il suo eloquente riferimento alla «porta / che ’l mal amor dell’anime disusa», che è, dunque, scarsamente frequentata, perché «l’anime dei Cristiani vinte dalla cupidigia, e dal mal amore delle cose terrene non adempiono il precetto pasquale, e trascurano di confessarsi, cioè di andare alla porta di S. Pietro» . Dante, invece, si è contrito e confessato, e non è, di conseguenza, nel novero dei peccatori; anzi, proprio per questo, Catone, nel canto III della prima cantica, si rifiuta di traghettarlo nell’Inferno, in quel regno del male, dove, come viene ricordato in seguito, nel c. XXVIII, lo conduce Virgilio, «per dar lui esperienza piena»:

Oh! guai a Dante se fosse stato gentile, come tu lo fai, e avesse viaggiato per l’inferno per mondarsi delle colpe! Invece di mondarsi, vi sarebbe rimasto; ma perché erasi già confessato, ma perché eragli stata rimessa la pena eterna, ed altra pena non gli restava a patire che la temporale, non avendo potuto fruire del Giubileo che la rimette, egli passa illeso per l’inferno, ed ai dannati, nei quali s'abbatte, potea ripetere la risposta fatta a Filippo Argenti: Se io vengo, non rimango .

Dunque, al contrario di quel che crede Domenico Mauro, Dante non viaggia come «il semplicione descritto da Vico, e come un pretto gentile, ignorante della fede cristiana» .
A Dante, dopo la confessione e il pentimento, non rimane altro che pacificarsi con Dio attraverso l’espiazione dei peccati; una meta che può conseguire attraverso due «anduri», un «andar lungo» ed un «andar corto».
Mauro ha avuto, dunque, il torto di sottovalutare la difficoltà di comprensione del testo; un altro commentatore, invece, il Torricelli , che se ne avvide, non seppe fornire una spiegazione adeguata . Egli, infatti, «intese per l’andar corto la via degl’Innocenti, e pel lungo la via dei Penitenti. Per il Padula, invece, «l’ardar corto era il ricevere l’indulgenze [...], l’andar lungo era il sostenere la pena, che la propria coscienza, e la chiesa impongono al peccatore» ; Dante sceglie il corto andare e si dirige verso il Vaticano per guadagnare le indulgenze, ma, impedito dalle tre fiere a trattenersi nella città santa per i quindici giorni prescritti dalla bolla papale, ritorna nella «selva selvaggia» di Firenze, da dove, impietosita, lo trae la Vergine Maria attraverso l’intervento della Grazia (Lucia) che gli «ravviva nella mente l’immagine dell’adorata Beatrice, le cui caste bellezze gli erano state nella prima gioventù stimoli ad opere onorate, ed a studii leggiadri, e quell'immagine ridestando in lui la ragione (Virgilio), alla cui voce fioca non aveva prestato orecchio per molto tempo, ei si determina ad espiare, non mercé delle indulgenze, ma col fatto, la pena di sue colpe, e a mettere in atto il consiglio del confessore» .
Padula ritiene, dunque, che Dante, respinto dal Vaticano, sia stato ricondotto a Firenze da Virgilio, fondando l’ipotesi sui versi finali del secondo canto infernale (139-142), laddove il cammino «alto e silvestro» non può che rimandare alla selva, allegoria di Firenze, nella quale entrerebbe imbarcandosi sull’Arno, secondo quanto si dice in Purgatorio II 61-105:

In quel luogo il poeta finge che tutte fiamme destinate ad andare all’altro mondo hanno due vie; quelle che vi vogliono entrare con tutta pace, cioè con la piena assoluzione delle loro colpe, si mettono in viaggio dalla riva del Tevere; ma quelle che peccatrici, ed impenitenti son destinate all'inferno st calano verso di Acheronte. [...]. Dunque per andare al cielo è necessario avviarsi per Roma, credere ciò che crede Roma, e ’l Pontefice di Roma, ed imbarcarsi sul Tevere! E per andare all’inferno bisogna calarsi verso d’Acheronte .

Ma, a livello allegorico, l’Acheronte è l'Arno, così come l'Inferno è Firenze, che gli offre l’esauriente campionario di tutti i vizi; «ed egli medita su di essi, e quella sua meditazione è appunto l’inferno del suo poema» .
Nel Purgatorio Dante si purga dei peccati, prima di accedere al sacramento dell'Eucaristia, celebrato poi nel Paradiso, che era «nel medio evo la mensa eucaristica», quel «pane degli angeli» cui Dante allude agli inizi del secondo canto, in un contesto che si arricchisce del mitico riferimento a Giasone, il re diventato bifolco, che viene assunto a simbolo cristologico. Il «pane degli angeli» non è, dunque, solo la sapienza, ma è anche l’ostia consacrata dell’altare che Dante riceve infine, dopo essere stato esaminato sulle virtù teologali, nel cielo ottavo delle stelle fisse, dove vede «il trionfo di Cristo e la sua sostanza» . In altri termini, il poema di Dante non è altro che «il racconto del modo, ond’il poeta, nella settimana santa del 1300, e in occasione del giubileo adempì il precetto pasquale» ; e questo racconto — allo stesso modo in cui nel viaggio allegorico di Dante, Roma e Gerusalemme sono la medesima cosa, tanto che Beatrice, in Purgatorio XXXII 101-102, promette a Dante che egli sarà «sanza fine cive / di quella Roma, onde Cristo è romano» —, è simile al grifone di Purgatorio XXXI, la «doppia fiera»: il poema, infatti, ha un doppio senso, il letterale e l’allegorico, «che si distinguono nell’Immagine, nell’idolo, che ce ne formiamo noi nel pensiero, ma 7 sé stanno quieti, e coesistono uniti» .
La pubblicazione del Mauro è destinata, secondo il Padula, a una scarsa fortuna critica per l’estraneità dell’autore alla consorteria letteraria del tempo, «i cui membri s’incensano a vicenda, e si sbracciano di far credere all’Italia d’essere eglino i soli, a cui Salomone abbia lasciato gli zoccoli» .
In effetti, così è stato; e tuttavia, le discussioni, sia pure marginali, che ne derivarono e di cui qui si è dato conto, delineano, mi pare, un interessante segmento della critica dantesca, un passaggio non indifferente di quel percorso, che, come si è accennato, partendo da Foscolo, e attraversando Rossetti e Settembrini, ma anche Gioberti e Tommaseo, e soprattutto De Sanctis, alimenterà poi il fecondo e variegato approfondimento del dantismo contemporaneo.

Date: 2022-02-02