Dati bibliografici
Autore: Domenico Guerri
Tratto da: Bullettino della Società Dantesca Italiana
Numero: 14
Anno: 1907
Pagine: 9-17
L'A. avverte nella prefazione che questo suo lavoro «avrebbe dovuto esser pubblicato da parecchi anni»; e l'avvertimento, credo, non parrà inopportuno al lettore, che in questo volume non troverà oggi molto di nuovo. Il «nonum prematur in annum» di Orazio non è, disgraziatamente, una norma sempre buona per i lavori di critica; e, aspettando, c’è il pericolo di giungere in ritardo!
Il libro è diviso in due parti. Nella prima l'A. studia l'allegoria del «corto andare», diffondendosi più che altro attorno ai simboli delle fiere. I primi due capitoli (pp. 11-21), se non forse per qualche utile citazione di Seneca, son privi d'interesse, trovandovisi ripetute cose molto trite sull'impostazione etica del viaggio e la sua finalità. Nel III (pp. 21-28), il L. si dilunga principalmente a parlare del significato del vocabolo lonza, ma con argomenti tutti noti. Egli patrocina l'idea, di cui si dice «definitivamente convinto», che lonza «non sia altro che il femminile dell'aggettivo leontius, che in italiano suonerebbe come leonino»; etimologia con la quale resterebbe convalidata l'ipotesi che Dante, anziché una specie, abbia avuto presente una famiglia di felini, tigri, leopardi, pantere, le femmine de’ quali animali hanno una somiglianza «più o meno accentuata colla leonessa o femmina del leone, rimasto nella memoria come il tipo predominante della specie dei felini, e più conosciuto per la maggiore frequenza del suo spettacolo dovuto alla vicinanza dell’Africa». Peccato che il L. si sia dimenticato di direi come mai leonza, che sarebbe secondo lui la forma primitiva, sì sia contratto in lonza! È veramente spiacevole vedere uomini anche dotti e accurati trattare i problemi linguistici come sa fossero indovinelli, senza pensare che c'è una scienza linguistica, con un suo proprio metodo, che vieta di sbizzarrirsi, Il vocabolo lonza non è altro che luncea, derivato popolare di lynx, mentre leonza è un incrociamento di lonza con leone, come leonfante, liocorno, ecc., sono incrociamenti di (e)lefante, licorno o simile, col medesimo vocabolo. Il solo dubbio permesso è se lonza sia vocabolo italiano 0 se invece, come sembra più probabile per lo z, non ci venga dalla Francia. Il L., che talvolta si ricorda anche del Bullettino, non cita a questo proposito quello che in esso è detto (N. S., III, 24 sgg.) sull'etimologia di lonza; eppure vi avrebbe trovato tutto quello che gli era necessario per evitare un errore, quasi tutto quello che scientificamente si può e si deve dire intorno a codesta etimologia. Ma egli cita almeno il d'Ovidio, Studi sulla D. C., 322 sg., dove son bellamente riassunte anche le cose già dette nel Bullettino; eppure, nonostante ch'egli debba sapere che il D’Ovidio è un glottologo di gran fama, non ha voluto dar retta neppure a lui .
Nei tre capitoli successivi (pp. 28-44) si discorre del significato simbolico delle tre fiere. L’A. accetta, in sostanza, l’idea propugnata principalmente dal d’Ovidio che la lonza significhi l’invidia, il leone la superbia, la lupa l'avarizia, vizii rimproverati per due volte nell’Inferno ai Fiorentini, da Ciacco e da Brunetto Latini (VI, 74-75; XV, 68): ma aggiunge che quei vizii non vanno presi a sé assolutamente, bensì «intesi siccome tre nuclei attorno ai quali si aggirano tutte le infermità e vizi affini». Però di questo criterio largo e sano il L. non si giova e passa subito a ristringere i nodi, propugnando che le fiere rappresentino tre qualità opposte alla triplice virtù del Veltro, sapienza, amore e virtute: «amore è in antitesi con l'invidia; sapienza con la superbia; virtute con la cupidigia, o desiderio smodato dei beni secondi». Al che Osserveremo che il Veltro, preconizzato a cacciare la lupa, necessariamente dovrà avere virtù capaci di vincere il vizio da essa simboleggiato, e quelli degli altri due animali: ché nel più c'è il meno, e la liberazione dalla lupa sarà al tempo stesso liberazione dalle altre due fiere. Ma è proprio legittimo piccarsi in antitesi precise, se queste non balzano fuori evidenti da sé, e dobbiamo invece rifarle con espressioni raccolte qua e là da moralisti e teologi? O non sono qualità del Veltro anche non cibare né terra né peltro, e (siccome un'indicazione geografica è certamente da escludere) anche l’aver nascita tra feltro e feltro? E allora la posizione antitetica dei termini dove se ne va a finire?
Per me questo concetto è un nuovo ingombro da mettere subito da parte; e non può valere a sostegno dello schema peccaminoso che il L. propugna, ad avvalorare il quale gioverebbe molto più insistere sui concetti fondamentali che ha posto il d’Ovidio, che cioè la selva in cui Dante si trova smarrito non è ancora l'inferno, ma è la vita viziosa dell'uomo vivente, della società che gli è dattorno e del mondo; e il colle non è ancora la beatitudine celeste, bensì la pace e la giustizia in terra. Perciò l’«impedimento» deve nascere dalla società, e lo schema peccaminoso della selva, adombrato nelle tre fiere, dev’esser tutto «sociale»; ben distinto da quello dell’Inferno, che è schema filosofico, come da quello del Purgatorio, che è teologico-cattolico. È allora è naturale che i vizii che le fiere simboleggiano s’abbiano a cercare in quelli che più Dante rimprovera alla società del suo tempo. Tenendosi stretto al d’Ovidio per questa via, credo che il L. avrebbe trovato un filo logico per la sua dimostrazione, che sarebbe riuscita più vigorosa. Giacché la tesi è buona. Io lo credo, e non soltanto per le ragioni del d’Ovidio e per quelle che aggiunge il nostro, ma soprattutto perché un simile schema, che poteva si essere pensato anche originalmente, ma non poteva essere allegorizzato se fosse stato del tutto originale, io lo trovo quasi tale e quale in scrittori il cui pensiero fu certamente vicino a quello di Dante. Dico di Ubertino da Casale, che nello Arbor Vitae Crucifixae pone come radici dei mali l’avarizia, la lussuria e la superbia: tre come in Dante, somigliate a bestie come in Dante, cui si contrappongono i precetti evangelici esemplati nel Cristo, ai quali rispondono in Dante, con palese conformità, le qualità del Veltro. Vero è che se la lupa è l'avarizia e il leone è la superbia, la lonza non è la lussuria, ma l'invidia. Ma perché Dante non avrebbe potuto ritoccare lo schema per conto suo? .
Ad ogni modo, fra le osservazioni che il L. raduna a sostenere i simboli animaleschi che preferisce, alcune sono degne di nota. Così egli sostiene che l'ora del tempo e la dolce stagione, che trattengono nell'animo del poeta un po’ di speranza, mal si spiegherebbero se nella lonza fosse simboleggiata la lussuria. «Deve essere comune a tutti gli animali in genere (scrive il nostro A.) un certo grado di mitezza maggiore nelle ore del mattino e specialmente di primavera, e quindi anche il ferocissimo pardo o tigre deve pure sentire gli effetti dell'ora del tempo e della dolce stagione: Tigres leonesque nunquam feritatem eruunt, aliquando submittunt (SENECA, Ep. LXXXV, 8), e se questo succede, sembra darsi di preferenza quando tutta la natura ci appare più benigna; e pertanto, se a prima vista quella fiera mise paura nel poeta, questa si attenuò pensando agli effetti delle ore mattutine, e forse all’ influsso della bella stella che ad amar conforta, specie nella stagione degli amori, E qui sta il senso letterale. Quanto all’allegorico si rileva da sé: anche il poeta dovette in quell'ora sentirsi più ben disposto ad amare e così in grado di superare la prima difficoltà di salire al ‘ dilettoso monte’. Ed è a proposito qui rilevare come questa circostanza di tempo che cade così opportuna a spiegare la speranza di vincere la ferocia della Lonza, riesce un vero intoppo, un ostacolo quasi insuperabile per l'ipotesi che ravvisa la lussuria nella ‘fiera alla gaietta pelle’; e tutte le arguzie dei commentatori non riescono ad infirmare il fatto che ‘l’ora del tempo e la dolce stagione’ sono più favorevoli alla lussuria che non alla virtù contraria» (p. 39).
Non c'indugeremo più a lungo su questi capitoli IV-VI, perché un esame più minuto delle singole argomentazioni del L. ci darebbe troppo da dire, né sempre con profitto, Nel VII l'A. prende finalmente a combattere l'opinione oggi più in voga che nelle tre fiere siano adombrate «le tre disposizion che il ciel non vuole». Però, anche chi abbia, come me, tutto il desiderio di dargli ragione, mi pare che non possa non riconoscere che la sua confutazione alla primitiva proposta di Giacinto Casella è riuscita piuttosto fiacca. E, poi, neppure è più lecito ora fermarsi al Casella, perché oggimai non son pochi gli argomenti nuovi che a sostegno di quella tesi hanno aggiunto valorosi dantisti: basti ricordare il Flamini nel volume II dei Significati reconditi. Forse era anche bene che il L. non trascurasse d’intrattenersi sugli elementi di giudizio che si è cercato di trarre dai teriologi del medio evo: materia posta ora benissimo in luce dall’ Holbrook (Dante and the animal Kingdom; cfr. Bull., N. S., X, 836) e in particolare dal Chistoni per la lonza, e che giova conoscere, benché non sia tale, per sé stessa, da dar causa vinta all'una o all'altra opinione. Ché i simbolisti medioevali già tirati in campo, e altri che si potrebbero addurre con uguale opportunità, dànno tante varietà di tipi, da non consentirci, mi pare, deduzioni sicure, Così, per esempio, sì potrebbe osservare che la lonza, la bestia per la quale più si grida dai critici, potrebbe, stando ai tropologi, con uguale ragione essere creduta simbolo tanto d’ invidia quanto di frode, e finanche di cupidigia. Giacché la lonza, checché ne dicano il L. e gli altri, non è che la lynx, come provano l’etimo in genere, e il maculosae tegmine lyncis di Virgilio nel nostro caso speciale; passo che non si può ammettere non si rispecchi nella frase: che di pel maculato era coperta. Ora, noi troviamo che la lince, secondo autori medioevali, compendia appunto tutti e tre quei simboli; ed eccone un bell’ esempio del De Universo di Rabano Mauro, l. VIII (per mia parte credo in molti casi più giusto, criticamente, per ragioni che mi paiono ovvie, ricorrere a taluno degli assommatori, che non a luoghi sparsi di autori anche molto vicini a Dante): «Lynx.... bestia maculis terga distincta.... typum tenet invidorum hominum atque dolosorum, qui magis cupiunt nocere quam prodesse, et ferrenis cupiditatibus intenti ea, quae superfiua sibi sunt, et caeteris prodesse poterant, inutiliter servant».
Ma torniamo al Lajolo. Posti i «principii del male» nell’ avarizia (cupidigia), invidia e superbia, egli vuol sostenere che le fiere simboleggiano quello stesso che le tre facce di colui dal quale «dee procedere ogni lutto». Commentatori antichi e moderni hanno osservato che i colori delle facce diaboliche son simbolo di qualità opposte agli attributi della Trinità; e il L. aggiunge che vi è corrispondenza fra gli attributi del Veltro e quelli della Trinità (potenza, sapienza e amore) e di conseguenza posizione antitetica fra gli attributi del Veltro-Trinità e delle Fiere-Lucifero. Ma per mia parte credo assai poco che s'abbia a far discendere le fiere nel profondo dell'inferno e ad elevare il Veltro nell'alto dei cieli; e all’obbiezione ovvia che la Potenza della Trinità non è la Virtù del Veltro, non mi pare che l'A. abbia risposto adeguatamente con i passi che riporta da Boezio (De Consol. Philos. IV, prosa II), Seneca (Ep. CV, 7) e Dante stesso (De Mon. II, 5) .
Fin qui l'ottavo capitolo. Nei cinque seguenti (IX-XIII, pp. 56-76) l'A. s'intrattiene a discorrere della corda di Dante che Virgilio gettò a Gerione per richiamo, e colla quale il poeta alcuna volta aveva pensato di prender la lonza alla pelle dipinta. Egli dice che la corda «non può essere che allusiva alla giustizia, e che quindi non può essere se non un equivalente del cingulum justitiae» ; e ricorda talune espressioni bibliche non inutili al caso nostro, benché notissime: i due luoghi dell’Epistola agli Efesii (VI, 18 e 14): Induite armaturam Dei, ut possitis stare adversus insidias diabuli; e: state ergo succinti lumbos vestros in veritate, et induti loricam justitine; e meglio questo passo d’Isaia, di profezia messianica : «et erit justitia cingulum lumborum eius; et fides cinctorium renum eius» (XI, 4). E aggiunge che «parrebbe persino suggerita dal passo seguente l’idea della vittoria della giustizia sull’ invidia della Lonza, dove Isaia aggiunge: Mabitabit lupus cum agno: et pardus cum haedo accubabit: vitulus et leo, et ovis simul morabuntur; et puer parvulus minabit eos (XI, 5); dalle quali espressioni emerge l’idea della mansuetudine susseguente alla venuta del Giusto per eccellenza, idea che pare trasfusa nel concetto dell’avere il poeta cercato di vincere, o mansuefare la Lonza, cingendo anch'egli il cingulum justitiae, secondo l’esempio del Salvatore». Per Gerione poi la corda sarebbe «un segno della presenza di un giusto che sta per attraversare il regno della frode», al qual segno Gerione si piega e ubbidisce; come alla parola di Virgilio si erano piegati lungo i precedenti cerchi Caronte, Minosse, Pluto e Nesso.
Ho voluto riferire con una certa ampiezza l'opinione del L. intorno alla corda; ma egli, se si fosse informato un po’ più amorosamente, si sarebbe accorto da sé che le porte, cui si sforza d’aprire, erano tutte porte aperte: basta vedere i due studii, che più ampiamente trattano della corda, quello del Chistoni sulla Lonza e l'altro, anteriore, del Proto su Gerione (Giorn. Dant., VIII). A dire il vero, questi due studii, benché fondati su materiali affini, vengono a risultati diversi; ma non è forse fuori d’opportunità notare che la diversità non è tale da impedirci un tentativo di conciliazione. Il simbolo proposto dal Proto, per cui la corda è «il segno della Grazia, che Gesù Cristo donò agli uomini per effetto dell’incarnazione», e quello sostenuto dal Chistoni, per cui la medesima corda simboleggia «la virtù attuale della sapienza, o ciò che è lo stesso, della giustizia», erano stati fusi insieme dagli esegeti molto prima di Dante. Rabano Mauro, commentando il passo dei Proverbi XXXI, 24 «et cingulum tradidit Chananaeo», luogo sfuggito, se mal non m'appongo, ad altri commentatori, spiega così: «... et Chananaeo cingulum tradidit, quia per vigorem demonstratae justitiae fluxa opera gentilitatis dextruxit, ut hoc quod praecipitur vivendo teneatur: Sint lumbi vestri praecincti. Bene etenim nomine ‘Chanaan’, qui et gentilium populum procreavit, et interpretatur ‘commutatus’, conversa ad fidem gentilitas designatur, quae felicissima commutatione, a vitiis ad virtutes, a diabulo transmigravit ad Christum» . Dunque il cingolo è la fede o la giustizia? È l’una e l’altra; è la fede che si è affermata nel mondo con la giustizia. Ma in fondo, a guardar questo simbolo nelle sue ultime risoluzioni, credo anch'io vero che il concetto che richiamava per primo fosse quello della giustizia. Lo stesso Rabano, catalogando i simboli biblici nelle Allegoriae quaedam in Sacram Scripturam e pur riferendosi proprio a questo stesso luogo dei Proverbi, non si rammenta più che della giustizia: «Cingulum est vigor justitiae, ut in Parabolis: Et cingulum tradidit Chananaeo quod vigorem justitiae Dominus dedit populo gentili». E poco diversamente si esprimeva nel De Universo (1. XXI, cap. XXV), riferendosi invece al passo di Isaia, riportato anche da noi poco sopra, citando il L.: «Succinctorium significat solidamentum justitiae et veritatis». Esempi consimili abbondano negli esegeti medievali. È dunque molto probabile che anche Dante, quando immaginò per l'occasione di esser cinto da una corda, ovvero si ricordò di portarla (ciò che val proprio lo stesso, benché anche di questo si disputi!), abbia ripensato quel simbolo come si presentava comunemente; e infatti non senti punto il bisogno di spiegarlo in qualche modo. Vero è che gli antichi pensarono tutti al cingolo della castità; ma noi sappiamo che furono fuorviati dalla loro interpretazione della lonza come lussuria . Del resto non è possibile altra scelta, fuori di queste due soluzioni, la moderna e l’antica. A spiegare un simbolo che è tutto racchiuso in un concetto unico, la corda attorno cinta, che non è altrimenti illustrato, ma anzi dovrebbe servire esso stesso di chiave per altri problemi, per me non è lecito far a meno della tradizione. Stenterei già a credere che Dante se lo fosse inventato senza alcuna connessione con idee precedenti, ov’anche non riuscissimo a trovarne; ma dal momento che il cingolo aveva già quei dati significati simbolici, non capisco come potesse esserci ancora posto per immaginazioni nuove, a meno che, chi ne avesse escogitate, si compiacesse di rendersi inintelligibile.
E al cingolo di Dante il simbolo della giustizia conviene pienamente. Conviene per la lonza, giacché Dante, che si è sempre proclamato giusto (il Lajolo raduna nei capitoli che ci han dato luogo a questa digressione opportune testimonianze), poté bene illudersi di dominare per quella sua virtù l'invidia traboccante nel mondo e nella sua Firenze: ed è infatti vero che la rettitudine finisce col trionfare dell’invidia, anche nel mondo, mentre non si può dire di essa altrettanto, rispetto alla superbia e alla cupidigia. Conviene inoltre per Gerione, perché un segno della presenza di un giusto nell’ Inferno doveva effettivamente bastare per richiamarlo a proda. S'aggiunga che sta bene che Dante somministri questa volta a Virgilio l'argomento per procedere oltre nel viaggio, perché egli solo poteva offrire un segno sensibile della giustizia portata da Cristo nel mondo con la fede; segno sensibile che doveva anche bastare a far palese la suprema volontà di Dio circa questa insolita traversata dell’Inferno. Ma soprattutto si consideri che Dante, pel modo come aveva posto la scena, aveva bisogno di un mezzo materiale per far salire quella «sozza immagine di froda»; e si ammiri il sapiente accorgimento con cui è riuscito a nobilitare un atto per sé volgarissimo .
E chiudiamo con ciò l'esame di questa prima parte del libro del L., il quale allo studio dei simboli esaminati fa seguire ancora un capitolo (XIV, pp. 76-83), dove vuol dimostrare che le fiere non possono indicare individui o collettività; e che il «sovrasenso politico» deve invece chiamarsi «effetto politico» dei disordini a cui dan luogo i vizii simboleggiati nelle tre fiere.
Sarò più breve nel riferire sulla seconda parte, perché la questione in essa agitata (La missione, il carattere e la dignità del Veltro e del DXV) è, si può dire, la questione del giorno, e resta facile intendersi in più brevi parole.
L’A. comincia dall'esporre le principali opinioni sia degli antichi che dei moderni dantisti. Quanto alle interpretazioni del tanto discusso DXV, ha avuto tempo di conoscere anche quelle recenti del Torraca e del Chistoni, che non approva (p. 99 in nota): ma la soluzione ch’egli propugna, che cioè sia da trarne fuori un Domini Xristi Vltor o Vindex, ovvero un Defensor Xristi Vicarii, — «così, sia ciò fortuito o sia voluto» la sigla DXV «avrebbe quel duplice significato che sogliono avere le espressioni sibilline», — non pare altro che una variazione nuova sopra un motivo vecchio. Del resto le espressioni che il L. intende di ricavare dai numeri danteschi sono soltanto la formula che risponde al suo concetto circa la missione del Messo di Dio. Questi, l'executor justitiae, è un imperatore destinato a compiere una missione straordinaria in favore e in difesa della Chiesa, togliendo di mezzo gli usurpatori della sua dignità e ad un tempo gli oppressori di essa e dell'impero. Chi però sia non si può dire: «forse Dante stesso non lo ha riconosciuto; gli parve bensì di averlo intraveduto come propinquo a venire, ma poi vide dileguarsi tale sua speranza, sino a concepire il dubbio sulla sua venuta, confortandosi al pensiero che ‘la spada del cielo non taglia in fretta né tardo’» (p. 123). E così l’A., che altra volta si era mostrato favorevole all'idea che il Messo fosse da identificare con Enrico VII, ora lo esclude addirittura, solo concedendo al Davidsohn, che, se il canto XXVII del Purgatorio fu veramente scritto fra il luglio e il novembre del 1314, possa trattarsi di qualcuno dei nuovi candidati, dopo la morte di quell’ imperatore: «Ma — aggiunge — il caso vuole qui che la pluralità dei pretendenti all'eredità imperiale ci metta nella quasi assoluta impossibilità di distinguere a quale dei concorrenti, nella mente del poeta, fosse dovuta la palma» (p- 126). Senonché il L. non conosceva ancora lo scritto del Parodi su La data della composizione e le teorie politiche dell'’Inferno’ e del ‘Purgatorio’, né so se troverebbe tuttora che gli argomenti suoi reggano al paragone.
Pel Veltro poi si ritorna col nostro A. all'idea che sia un Papa; e le ragioni, come si comprende di leggieri, sono in grandissima parte quelle che nella secolare disputa si sono andate assommando. Una che forse è tra le nuove, giacché il L. se ne fa molto forte, che cioè il Veltro non può essere l’imperatore perché questi, dovendo, secondo il concetto dantesco del monarca, posseder tutto, non ha modo di desiderare alcuna cosa «e quindi non può dare esempio di virtù contro la Lupa o cupidigia, o, se ne può dare, ne darà in misura minimam inter mortales» (p. 157), non è che una sottigliezza la quale immiserisce di molto la grande utopia del poeta. Il quale avrà anche pensato all'efficacia dell'esempio; ma è certo che non era l’esempio la principal cosa che si attendeva dal Veltro: era l’azione .
Concludo che questo nuovo libro del Lajolo confermerebbe, se già non sì sapesse dai suoi precedenti lavori, ch’egli è un conoscitore esperto delle opere dell’Alighieri, alla pari e meglio di critici anche più fortunati. Ma, perché il libro potesse riuscire utile, doveva venire alla luce molto prima: e io mi auguro che non tocchi una sorte uguale al secondo volume che l'A. promette.