Dati bibliografici
Autore: Rosa Affatato
Tratto da: Ortodossia ed eterodossia in Dante Alighieri. Atti del convegno di Madrid, 5-7 novembre 2012
Editore: Ediciones de la Discreta, Madrid
Anno: 2014
Pagine: 759-780
«La storia del primo secolo di dantismo è ben lungi dall’essere stata scritta», affermava una decina d’anni fa Z. Baranski (2001: s/p). Ed è pet dare un contributo agli studi su questo primo secolo di commenti danteschi che ci accingiamo al presente lavoro, che prende avvio da alcuni dei commenti alla Commedia scritti appunto nel primo secolo dopo la morte di Dante. Di questi analizzeremo alcune parti dei proemi al fine di esaminare il punto di vista sulla realtà letteraria e sociale e il punto di vista sull’allegoria che emerge attraverso di essi.
A tale scopo sono stati presi come riferimento concreto i verbi utilizzati dai vari commentatori per riferirsi all’allegoria nella Commedia e pet spiegarla, proponendo alcuni esempi dell’uso che ne viene fatto e delle interpretazioni che conseguentemente ne emergono, al fine di riflettere sul cambiamento del paradigma mentale e interpretativo del reale nel momento di passaggio dal mondo feudale a quello borghese e protoumanistico.
Molti dei proemi partono dalla descrizione della struttura morale della Divina commedia offrendo fin dall’inizio, cioè nell’impostazione del discorso, spunti di analisi e di riflessione.
Cominciando dal più antico, esamineremo alcuni passi del breve proemio che precede il commento di Jacopo Alighieri (1322), in cui viene utilizzato il verbo ‘dimostrare’ o ‘mostrare’, il cui significato più evidente è quello di ‘spiegare’, ma non esclude altri suggerimenti. Jacopo afferma che «El principio delle intenzioni del presente autore è di dimostrare di sotto alegorico colore le tre qualitadi dell’umana generazione» (DDP: Jacopo Alighieri, Inferno, Introduzione).
Il punto di partenza del figlio di Dante è «l’umana generazione», di cui «dimostrare» le «tre qualitadi» attraverso il metodo dell’«alegotico colore». Così il proemio del commento che si fermerà all’Inferno spiega la relazione allegorica tra «mortale vizio» e nome della prima cantica: «La prima [parte] considera de’ viziosi mortali, chiamandola Inferno, a dimostrare che ‘1 mortale vizio opposito alla altezza della vertù siccome suo contrario sia» (ibidem).
L’allegoria spaziale alto/basso serve pet «dimostrare» l'opposizione morale virtù/vizio, perché «il luogo determinato de’ rei è detto Inferno, per lo più basso luogo e rimosso dal cielo», contrappasso che ‘dimostra’ l’Inferno, dato che il «basso luogo» in cui si trova corri sponde alla bassezza morale del vizio. In questo caso il verbo «dimostrare» sembra avere un significato quasi geometrico, vista la perfetta corrispondenza tra l’allegoria e il concetto da rappresentare, mentre nel brano precedente il significato è quello di ‘mostrare’, ‘spiegare’.
La seconda cantica viene presentata così: «La seconda considera di quegli che si partono da’ vizi per procedere nelle vittudi, chiamandola Purgatorio, a mostrare la passione dell’animo che si purga nel tempo ch’è mezzo dall’uno operare all’altro» (ibidem).
Del Purgatorio non vengono presentate coordinate spaziali, come abbiamo visto per l'Inferno e come sarà per il Paradiso. Pur essendo concepito il Purgatorio da Dante come diametralmente opposto, sia spazialmente sia in altezza, al mondo infernale quello che viene evidenziato da Jacopo è il concetto di tempo che non può essere eterno, come quello dell’Inferno e del Paradiso, ma allo stesso modo non può essere precisato: è il «tempo ch'è mezzo» tra il vizio e la virtù. La seconda coordinata che Jacopo ci fornisce è quella spaziale, visto che questo passaggio ultraterreno «spazio non ha di tempo», pet cui non si oppone (spazialmente) a nessuna «opposita qualità» (morale): «E perché dal partirsi dalle vertù a l’entrar ne’ vizî spazio non ha di tempo, però no gli si oppone opposita qualità» (ibidem).
La spiegazione è che «sanza mezzo di tempo è fatto vizioso chi si parte da virtù per procedere ne’ vizij, ché dove non è tempo non è passione» (ibidem).
Tra virtù e vizio non c’è spazio di tempo, ossia non c’è né tempo, né spazio: il passaggio da uno stato all’altro è diretto. Per questo Jacopo dice che non è possibile un’opposizione: non c’è infatti né virtù, né vizio, perché, continua, «dove non è tempo non è passione». Il Purgatorio è concepito come luogo senza tempo, data l’immediatezza e dunque l’incomputabilità del tempo necessario pet «partirsi dalle vertù» e «entrar ne’ vizi». Quindi se questo tempo non può essere misurato, il secondo contrappasso per opposizione è che se il momento in cui si passa dal vizio alla virtù è «sanza mezzo di tempo», cioè è immediato, nel Purgatorio invece il tempo passa, anche se in modo incomputabile, «per venire, quando che sia, alle beate genti» (If. I, 119-120). Rimane però un luogo senza sofferenza, senza «passione»: «dove non è tempo non è passione». Anche qui dunque c’è una dimostrazione che si avvale di coordinate geometriche e spaziali per metterle in relazione con quelle morali, come è il procedimento proprio dell’allegoria.
Per quanto riguarda la terza parte, cioè la terza cantica, Jacopo spiega che «[Dante] considera [quella] degli uomini perfetti, chiamandola Paradiso, a dimostrare la beatitudine loro, e l’altezza dell'animo congiunto con la felicità, sanza la quale non si discerne il Sommo Bene» (Jacopo Alighieri, op. cit.).
Anche qui, come per la spiegazione precedente circa l'Inferno, le coordinate spaziali alto/basso sono usate per «dimostrare» la beatitudine morale attraverso un contrappasso pet analogia tra l'altezza spaziale del cielo-Paradiso e l’«altezza dell’animo congiunto con la felicità» degli «uomini perfetti», e anche qui il verbo «dimostrare» connota l’allegoria in senso prettamente geometrico.
I verbi ‘mostrare’ e ‘dimostrare’ inoltre, nel contesto latino medievale riportato dal glossario di Du Cange, hanno un significato relativo a ‘esporre’, più che ‘provare’, significato relativo solo all’ambito giuridico. Jacopo, che come abbiamo visto usa il verbo ‘dimostrare’ proprio nel senso di ‘provare’, cioè in senso giuridico, tende probabilmente a scongiurare il pericolo di una lettura meramente letterale del testo, come doveva essere probabile per il pubblico di un’opera in volgare (Bellomo 2004: 64). Potremmo concludere che era necessario, nell’orizzonte culturale in cui Jacopo scriveva, provate ai lettori la corrispondenza ‘geometrica’ dell’allegoria, che probabilmente sfuggiva alla maggior parte del pubblico che leggeva l’opera — e il commento — in volgare.
Passando al primo commento relativo all’intera Commedia, cioè quello di Jacopo o Jacomo della Lana (1324-1328), scritto in volgare, osserviamo che l’autore fa notare ai lettori «quattro cose», di cui la prima è «la materia overo subietto della presente opera la quale è lo stato delle anime dopo la morte». Anche Jacomo parla direttamente della condizione morale delle anime dopo la morte, ma il dato concreto con cui la mette in relazione è la divisione del «lo volume» dantesco:
Ad intelligenza della presente Comedia sì come usano li espositori in le scienzie è da notare quattro cose [...]. La prima cosa com'è detto è da notare la materia overo subietto della presente opera la quale è lo stato delle anime dopo la morte; lo quale universalmente, siccome ello parte lo suo volume, è di tre condictioni (Jacomo della Lana 2009: 113).
Per quanto riguarda l’interpretazione di tale divisione, Jacomo parla di «stato delle anime», non come Jacopo Alighieri di «umana generazione», riferendosi dunque al piano morale:
La prima condizzione è quelle anime le quali sono dannate e sono in pene e senza speranza d’uscire di quelle. La seconda condizzione è quelle anime le quali sono in pene ma hanno speranza dopo sua putgazione d’uscite di quelle e andare in vita etterna; e questa parte è appellata Purgatorio. La terza condizzione è quelle anime le quali sono in gloria etternale pasciute, piene e contente di suo stato. E questa apella paradiso (ibidem).
La prospettiva umana e ‘materiale’ viene invece richiamata successivamente, quando propone un altro punto di vista interpretativo che ha come «materia overo subietto» l’uomo: «Un altro modo può esser considerando la materia overo subietto d’essa: cioè lo uomo lo quale per lo libero arbitrio può meritare overo peccare; per lo quale merito overo colpa ello li è attribuito gloria overo punito all’altro mondo» (ibidem).
Della Lana introduce, rispetto a Jacopo Alighieri, l'elemento tomistico del libero arbitrio dell’uomo nella corrispondenza binaria merito/gloria e colpa/punizione tra il mondo umano e «altro mondo», aggiungendo quindi la spiegazione teologica del poema dantesco, dimostrando non solo una più solida base di conoscenza dottrinaria rispetto a Jacopo Alighieri, ma anche di muoversi in un orizzonte culturale che conosce diversi piani interpretativi ed esamina diversi punti di vista da essi derivanti.
Per questo subito dopo, rifacendosi all’Epistola a Cangrande, Jacomo della Lana spiega i quattro sensi delle scritture, ma attraverso un esempio differente rispetto a quello dantesco, cioè spiegando la figura di Minosse nell’Inferno:
Si è da sapere che universalmente la detta Comedia può avere quattro sensi. Lo primo si è litterale overo istoriale, lo quale senso no si estende piue inanzi che come suona la lettera [...]; sì come quand’ello pone Minos in lo inferno pet uno demonio giudicatore delle anime. Lo secondo senso è allegorico, per lo quale lo termine della litteratura significa altro che ello non suona come ad interpretare lo detto Minos la giustizia [...]. Lo terzo senso è detto tropologico cioè mortale, per lo quale s’interpreta lo detto Minos sì come uno Re che fu in Creti che fu giusto e virtudioso: donando a’ viziosi pena e a’ vittudiosi merito. [...]. Lo quarto senso è detto senso anagogico per lo quale s’inzerpreta spiritualmente li essempli [...] ma spirituale s’intende che quello vizio che è attribuito a colui, overo vertude, per tale modo è purgato, overo remunerato, pet la iustitia di Dio (I. della Lana, op. cit., 115, 117).
Nello spiegare i quattro sensi l’autore usa i verbi ‘interpretare’ e ‘intendere’ come indicanti l'operazione mentale di passaggio dal termine concreto (Minosse) a quello astratto (allegorico, morale e anagogico). Il verbo ‘significare’, usato pet spiegare in cosa consiste l’allegoria, assume invece una connotazione più specificamente grammaticale, riguardante la figura retorica e il suo uso: «lo termine della litteratura significa altro che ello non suona» (ibidem).
A questo punto Jacomo della Lana passa alla vera e propria esposizione, richiamando il verbo ‘intendere’ come collegato all’‘esposizione’: «Vero è che in quelli luoghi là dove lo testo sarà sì averto che pet se stesso s’intenderà non li faremo esposizione perché sarebbe superfluo e d’avanzo» (ibidem). ‘Intendere’ è dunque un verbo che il lettore può utilizzare da sé, mentre ‘esporre’ è quello che ha bisogno dell’intervento del commentatore, che qui appare cosciente della sua funzione di ‘ministrare’ il pane della filosofia e più specificamente di essere mediatore tra il testo e il suo pubblico, operazione che in Cv. I, xi è diretta ai «laici», cioè agli «illitterati» che, come spiega R. Imbach, sono tutti coloro che non hanno seguito in maniera regolare un ciclo di studi universitari, inglobando una concezione non tanto anti-universitaria, quanto soprattutto non-universitatia del sapere (cfr. Imbach 2003: 20). Probabilmente anche per questo della Lana opta per il volgare nel suo commento: «L’opzione linguistica di della Lana presuppone [...] un pubblico di non elevata cultura e, per meglio dire, analogo a quello, ignaro del latino, a cui si rivolgeva Dante nel Convivio» (Bellomo 2004: 33), lo stesso pubblico della Commedia che Jacomo identifica infatti in senso ampio: «terzo e ultimo [scopo della Commedia] per rimuovere le persone che sono al mondo dal vivere misero e in peccato e produrli al virtuoso e grazioso stato» (Jacomo della Lana, op. cit., 117).
Il primo commentatore religioso, il frate carmelitano Guido da Pisa (1327-1328?) che scrive in latino il suo commento per il solo Inferno, dà nel suo proemio diverse interpretazioni della struttura morale della Commedia attraverso riferimenti biblici che associa liberamente al testo dantesco, anche per giustificarne la distanza tra «altezza di contenuto e bassezza di forma» come accade appunto nella Bibbia (Bellomo 2003: 75):
Scribitur Danielis, quinto capitulo, quod cum Baltassar rex Babillonie sederet ad mensam, apparuit contra eum manus sctibens in pariete: Mane, Thechel, Phares. Ista manus es noster novus poeta Dantes, qui sctipsit, idest composuit, istam altissimam et subtilissimam Comediam (DDP: Guido da Pisa, Inferno, Introduzione, nota).
Frate Guido spiega qui la divisione della Commedia attraverso la corrispondenza allegorica tra l’immagine della mano apparsa al re di Babilonia e la mano di Dante e, qui di seguito, le tre parole scritte sul muro e la divisione del libro in Inferno, Purgatorio e Paradiso, da «interpretare»:
Nam Mane correspondet Inferno; interpretatur enim Mane «mumerus»; et iste poeta in prima parte sue Comedie numerat loca, penas et scelera damnatorum. Thechel correspondet Putgatorio; interpretatur enim ‘Thechel «appensio» sive «ponderatio»; et in secunda parte sue Comedie appendit et ponderat penitentias purgandorum. Phares autem correspondet Paradiso; interpretatur enim Phares «divisio»; et iste poeta in tertia parte sue Comedie dividit, idest distinguit, ordines beatorum et angelicas ierarchias (ibidem).
Sottolineiamo l’uso dei verbi esse, correspondere, interpretare che Guido utilizza come dipendenti tra loro secondo il procedimento allegorico di corrispondenza logica: un termine è un altro (la mano sulla parete è la mano di Dante) e da questa esatta corrispondenza deriva una interpretazione precisa, secondo il concetto che nomina sunt consequentia rerum. L’allegoria quindi non è un ‘esercizio di interpretazione’ nel senso soggettivo che il termine ‘interpretare’ prenderà da Boccaccio in poi, ma rivela una corrispondenza oggettiva e logica dovuta «a un esercizio gnoseologico proposto all’intelletto lettore» (Varela-Portas 2010: 30), cioè il medesimo processo mentale dell’allegoria dantesca. Tali consequentiae rerum, che possono apparirci un po’ forzate, sono per il commentatore assolutamente logiche, come abbiamo visto per i nomi Mane, Techel, Phare e come vediamo qui per l’interpretatio nominis di Dante legata all’immagine della mano: «Igitur manus, idest Dantes; nam per manum accipimus Dantem. Manus enim dicitur a mano, manas, et Dantes dicitut a do, das; quia sicut a manu manat donum, ita a Dante datur nobis istud altissimum opus» (ibidem).
I due sensi letterale e allegorico corrispondono tra loro grazie a congiunzioni e a verbi di significato assertivo, come «est» o «idest» che sottolineano la corrispondenza nomina/ res, utilizzato pet spiegare il nome di Dante e riferirlo alla sua Comedia, come sottolinea C. Di Fonzo (Ottimo 2008: 53).
Un'altra spiegazione allegorica interessante è quella relativa alla struttura morale dell’opera dantesca messa in relazione con la triplice divisione dell’arca di Noè:
Ista re vera Comedia figurari potest etiam in archa Noe, que fuit tricamerata. In inferiori enim camera erant animalia silvestria et serpentes; in media erant animalia domestica atque mitia; in superiori vero erant homines et aves. Per primam cameram possumus accipere Infernum, in quo sunt animalia silvestria et inmitia, idest homines damnati et serpentes, idest demones. Per secundam cameram possumus accipere Purgatorium, in quo sunt animalia mitia, idest anime mites, que patienter sustinent passiones. Per tertiam vero cameram possumus accipere Paradisum, in quo sunt homines et aves, idest sancti et angeli in gloria sublimati (G. da Pisa, op. cit.).
Il verbo usato è ‘figurare’, che sottolinea come il punto di partenza dell’allegoria sia un'immagine concreta come l’arca di Noè che fa riferimento all’interpretazione visiva, e questo anche nella prima immagine, cioè quella della mano. Ci sembra importante sottolineare l’incisività del procedimento ‘pet immagini” che il commentatore attinge dall'orizzonte culturale medievale ma anche dalla stessa Commedia soprattutto perché è la prima interpretazione che si discosta dall’Epistola a Cangrande e che si riferisce a conoscenze proprie dell’autore che non appartiene al mondo dell’intellettuale laicus come i commentatori già visti, ma a quello ecclesiastico, da cui attinge possibilità e facoltà interpretative grazie allo studio biblico, evidenziando la differenza messa in rilievo da Imbach sulla formazione culturale del clericus rispetto a quella del laicus: «Laicus è sinonimo di illitteratus e idiota [che] significa prima di tutto colui che possiede una sola lingua e [...] ignora il latino. [...] La cultura, il sapere, la scienza che facevano di qualcuno un litteratus erano privilegio esclusivo di chi aveva ricevuto la tonsura» (2003: 19-20). Procedendo quindi alla spiegazione dei personaggi in chiave allegorica, Guido precisa che «non debemus credere cos ibi esse, sed exemplariter intelligere» (G. da Pisa, op. cit.). Il verbo «credere» viene messo in opposizione a «intelligere», pet mettere in guardia i lettori dall’interpretazione puramente letterale riferita al verbo ‘credere’ e incamminarli verso l“intelligere’ allegorico grazie alla spiegazione del commentatore che, come della Lana, è consapevole della sua funzione culturale verso un pubblico che non possiede (più?) gli strumenti interpretativi utili alla intelligentia dell’allegoria ma forse mentalmente già uso al più letterale ‘credere’, come vedremo in Giovanni da Serravalle.
Il proemio della terza redazione dell’Ottimo commento (1338), molto diversa dalle due precedenti tanto che secondo C. Di Fonzo può avere un autore diverso (Ottimo 2008: 46), riprende la struttura dei commenti precedenti di della Lana e di Guido da Pisa, aprendosi con un lungo proemio contenente un’apologia nei confronti di Dante a cui fa seguito la descrizione della materia del poema:
[Dante] fue singulare poeta, ma più che poeta, però che finse la celestiale gloria la quale, se fue dimostrata per gratia ad alcuno apostolo, evangelista o santo, non si truova con penna et inchiostro descripta. Fu la materia sua lo stato de l’anime partite da li mortali corpi, lo quale stato universalemente, sì come l’auctore parte nel suo volume, è di tre conditione (DDP: Ottimo 3, Inferno, Introduzione).
L’autore usa il verbo ‘fingere’, che nel significato di ‘immaginare, rappresentare’ relativo all’area semantica latina medievale fa ancora una volta riferimento al sistema immaginativo del mondo feudale che vede l’immagine e la sua rappresentazione come veicolo di conoscenza (cfr. Varela-Portas 2002: 178), esplicitamente richiamata nel riferimento alla dimostrazione per gratia, dunque astratta, a cui bisogna dare un corpo perché sia intesa, cioè la descrizione con penna e inchiostro, ossia concreta e fisica. La materia, riprendendo Jacomo della Lana, è quella delle «anime partite da li mortali corpi», a cui segue una spiegazione in termini che ricordano Jacopo Alighieri per i riferimenti spaziali e temporali ai tre regni riferiti alle tre condizioni delle anime, come spiega già della Lana:
La prima conditione è de l’anime dannate, a li quali per luogho di pena eternale s’asegna lo inferno, luogho situato nel centro della terra. La seconda è de l’anime che si purgano della rugine del peccato, a li quali per luogho di temporale pena s’asegna il purgatorio, lo quale l’auctore situa in su la terra. La terza è de l’anime glorificate, a le quali s’asegna il paradiso, dove si vede l’ultima felicitade, sommo bene, infinito et eterno gaudio (DDP: Ottimo 3, op. cit.).
AI proemio segue la descrizione della materia dell’Inferno, in cui l’autore spiega il proprio metodo ermeneutico e didattico basato sulla «divisione e notitia delle parti» che fa pervenire «più lievemente» il lettore a un «perfecto conoscimento»: «Perché a perfecto conoscimento del tucto più lievemente se perviene pet la divisione e notitia delle patti, impetciò il presente libro divideroe in due principali parti» (ibidem).
L’autore di questa redazione dell’Ottimo ha dunque chiara la funzione del commento, che è quella di mediazione pedagogica che abbiamo già visto in Jacomo della Lana e in Guido da Pisa, operazione che l’Ottimo fa nella lingua volgare, «lengua comun distinta al sacralizado latin» della nuova classe sociale borghese emergente dalla crisi del mondo feudale e dall’ascesa di quello mercantile (Varela-Portas 2006: 28).
Anche per Pietro Alighieri la causa materialis del poema, così come la espone nel proemio al suo Comentum in latino, la cui terza redazione risale al 1359-1364, è describere «cum allegorico quodam figmento, sub analogia et typo Inferni, Purgatorii et Paradisi, de triplici vita humana natura», ripetendo più volte che di tale materia il poeta «tractabit sub allegorico sensu» e «sub allegorico intellectu»:
Materialis vero causa erit ut ad premissa poetice deseribenda auctor deveniat cum allegorico quodam figmento, sub analogia et typo Inferni, Purgatorii et Paradisi, de triplici vita humana natura disserendo {Arist., Eth. I III 96a 1-3}, [...] et de hac [...] tractabit sub allegorico sensu {Arist., Eth. I III 96a 1-3} [...]. Item scribet ipse auctor aliqua ac multa sub allegorico intellectu (DDP: Pietro Alighieri 3, Inferno, Introduzione).
La preoccupazione del figlio di Dante di sottolineare più volte l’allegoricità del poema è diretta a preservare l’opera paterna dalle interpretazioni false e tendenziose che si andavano diffondendo, pet cui è fondamentale citare non solo l’allegoria, ma anche altre figure retoriche come l’analogia e il tipo e ribadire la definizione di allegoria come abbiamo già visto nell’Ottimo, da cui «ut genus» derivano i significati anagogico e tropologico:
Dicitur enim allegoria quasi alieniloquium, ut cum lictera unum sonat et aliud intelligi debet {Isid., Etym. I xxxvii 22} [...]. Que ‘allegoria’, ut genus, comprehendit ut species ‘anagogiam’, de qua spiritualis sensus resultat, et ‘tropologiam’, de qua moralis intellectus emanat (ibedem)
Pur accogliendo il modello del Convivio e dell’Epistola a Cangrande, da buon filologo, Pietro — giurista formato e dunque cosciente di arte retorica e di latino, a differenza del fratello più giovane Jacopo — rafforza le sue affermazioni con altre fonti che non siano gli scritti paterni, come teologi contemporanei della caratura di Bonaventura da Bagnoregio, spiegando l’interpretazione della Commedia con quella delle Scritture:
Motus est frater Bonaventura de Bagnoreto ad dicendum in suo Breviloquio sic: Habet ipsa Sacra Scriptura profunditatem que consistit in multiplicitate misticarum intelligentiarum. Nam, preter licteralem sensum, habet in diversis locis exponi tripliciter, scilicet allegorice, anagogice et tropologice {Bonav., Brevil. prol. 4} (ibidem).
Anche per Pietro Alighieri la lettura è un esercizio di conoscenza che svela la «multiplicitate misticarum intelligentiarum» comprese «preter licteralem sensum». Emerge da tale minuziosa insistenza sui modi di intendere le Scritture la preoccupazione dell’intellettuale di confutare le interpretazioni come quella di Cecco d’Ascoli, la cui opera, l’Acerba, continuava a seminare confusione a discapito della comprensione della Commedia (Gomez 2009: 222). Per questo motivo scrive in latino, rivolgendosi a un pubblico di dotti, in molti dei quali, tra cui lo stesso Petrarca, la Commedia aveva provocato sconcerto anche per motivi di forma come la lingua e il titolo, che suscitava non poche perplessità e che metteva in serie difficoltà i commentatori, come testimonia tra gli altri Francesco da Buti (Baranski 2001: 77).
Tali difficoltà fanno pensare a quanto stesse diventando difficile, con il passare degli anni, la condivisione dell’orizzonte allegorico del poema dantesco, sia per il suo contenuto allegorico, sia per la scelta linguistica e stilistica dantesca che il mondo intellettuale rinascimentale non riesce a recepire e ad accettare.
Il proemio del commento in latino di Benvenuto da Imola (1375- 1380), professore dello Studium bolognese, patte dallo stesso presupposto di quello di Pietro Alighieri, spiegando come Dante descriva «historice, allegotice, tropologice, anagogice» i regni oltremondani, sempre riferendosi al Convivio e all’Epistola a Cangrande: «Hic namque poeta peritissimus, omnium coelestium, terrestrium, et infernorum profunda speculabiliter contemplatus, singula quaeque descripsit historice, allegorice, tropologice, anagogice» (DDP: Benvenuto da Imola, Inferno, Introduzione).
Aggiunge quindi che il poeta utilizza ‘rappresentazioni’ perché sia manifesto («ut patere potest») che l’intero poema è mirabilmente ‘figurato’ («totum poema mirabiliter figuratum»): «Hic autem poeta perfectissimus convenientissime repraesentationibus usus est, ut patere potest discurrenti totum poema ejus ubique mirabiliter figuratum» (ibidem). L'utilizzo di vocaboli pertinenti all’ambito dell'immagine e della sua interpretazione, cioè «representatio» e soprattutto «figuratum» mostrano come l’allegoria e la figura siano strumenti retorici la cui conoscenza è essenziale alla comprensione del poema. Infatti, per fare un esempio, nel canto XXVI dell’Inferno, spiegando il contrappasso relativo alle fiamme dei consiglieri fraudolenti Benvenuto identifica ben cinque significati dell’allegoria delle fiamme, introdotti dal verbo fingere: «Hic autor [...] fingit enim quod isti astuti ingeniosi sunt inclusi, involuti et circumvelati flammis igneis, intra quas calidissimo ardore cremantur multis rationibus» (ibidem).
È possibile notare come il verbo fingere sia quello che descrive l’allegoria in quanto appartenente allo stesso campo semantico della representatio che abbiamo visto nel proemio. Capire l’allegoria significa pet Benvenuto farne un’esegesi per rivelarla al di sotto della fico, pet cui se da una parte il livello dell’analisi deve essere approfondito da diversi punti di vista, evidenziando la «sfida» all’intelletto di cui parla Varela-Portas (2010: 30), dall’altro rivela la diffusione della Commedia anche come testo di studio e quindi inevitabilmente distante dal paradigma mentale medievale e dantesco, come apparirà più avanti in un giudizio ‘professionale’ dello stesso Benvenuto. Tale distanza è sottolineata inoltre dalla lingua: Benvenuto ha scritto il commento in latino e non in volgare per ragioni diverse da Pietro Alighieri, cioè destinandolo a un pubblico ristretto e colto come quello delle università a cui poteva permettersi di descrivere con precisione la struttura allegorica per evidenziarne l’interpretazione morale in un contesto culturale che è ormai umanistico, dimensione che non possiamo ancora ritenere del tutto compiuta invece pet Pietro Alighieri.
Il commento di Francesco da Buti (1385-1395), quasi contemporaneo a quello di Benvenuto da Imola costituisce uno spartiacque rispetto ai commenti precedenti perché segna il passaggio dal commento esegetico a quello interpretativo, in maniera da rendere apprezzabile il processo di autodefinizione dell’intellettuale nell’orizzonte culturale e sociale preumanistico. Da Buti infatti identifica se stesso come un ‘io’ commentatore e si mette anche nei panni del lettore e addirittura dell’ascoltatore. Tale atteggiamento è evidente fin dalle prime parole del suo proemio:
“Poca favilla gran fiamma seconda”. Lo eloquentissimo poeta vulgare Dante, lo quale al presente intendo incominciare, nel primo canto della terza cantica, che si chiama comunemente Paradiso, pone la suprascritta sentenzia la quale /0 prendo, per fare una breve collazione, come usanza è, pet mia escusazione [...] (DDP: Franceso da Buti, Inferno, Introduzione).
Francesco da Buti, pisano, scrisse il suo commento negli ultimi vent’ anni del Trecento, probabilmente settantenne. Fu notaio e come tale ricoprì incarichi politici per il comune di Pisa, ma fu anche doctor gramatice e tenne a Pisa una propria scuola, per poi passare allo Studium pisano come maestro di grammatica. Ci interessa evidenziare il suo metodo ermeneutico e filologico che come Benvenuto da Imola, propone diverse soluzioni per l’allegoria.
Nel suo proemio prende le mosse da Paradiso I, 34 («Poca favilla gran fiamma seconda») e dopo aver spiegato ciò che Averroè, Boezio, ma anche Virgilio e Orazio intendono pet «favilla» conclude che «Adunque bene appare che sotto li predetti vocabuli; cioè favilla, fiamma, fuoco e luce, alcuna volta s‘intende lo intelletto; alcuna volta, la verità». Il procedimento che vediamo qui applicato è quello della moderna filologia, nata proprio nell’Umanesimo, che attraverso corrispondenze e parallelismi ricercati in diversi testi argomenta la spiegazione dell’allegoria. Paragoniamo lo stesso passo di Pd. I, 34 in Pietro Alighieri e in Benvenuto da Imola, che hanno seguito un metodo simile, come abbiamo visto, cioè confrontare varie soluzioni interpretative:
«ultimo dic ei auctor quod ab eius voce ut a modica favilla inflamabitur gens in maiorem flammam ad rogandam Cirram predictam civitatem ad respondendum, idest ad dandum precantibus noviter vertutem tallem tui Appollinis» (DDP: Pietro Alighieri 3, Pd. I, 1-34).
Vediamo che Pietro non utilizza verbi di significato interpretativo, bensì esplicativi («dici») o congiunzioni esplicative («ut», «idest»), così come Benvenuto, che spiega direttamente l’allegoria, come abbiamo già visto per [f XXVI, interpretando la «gran fiamma» come un «poeta eloquentior»:
quasi dicat autor: ego Modicum excitavi favillam sopitam et extinctam, sed forte sequetur magnus ignis, idest, clarior poeta me; (...) quasi dicat. forte veniet alius poeta eloquentior me, (...) nam tempore quo florebat Dantes novissimus poeta Petrarcha pullulabat, qui vere fuit copiosior in dicendo quam ipse. Sed certe quanto Petrarcha fuit maior orator Dante, tanto Dantes fuit maior poeta ipso Petrarcha, ut facile patet ex isto sacro poemate (DDP: Benvenuto da Imola, Pd. I, 34-30).
Benvenuto interpreta tale favilla come il «novissimus poeta Petrarcha [...] qui vere fuit copiosior in dicendo quam ipse [Dante]», ma conclude salomonicamente che «Sed certe quanto Petrarcha fuit maior orator Dante, tanto Dantes fuit maior poeta ipso Petrarcha». Il dato importante è il parere ‘tecnico’, da professore, sulla letteratura precedente, che lo identifica quindi non solo come esegeta, ma diremmo oggi come critico letterario, put lasciando aperta al dubbio la sua interpretazione e senza sbilanciarsi troppo, come evinciamo dalla congiunzione dubitativa «quasi» ripetuta ben due volte.
Tra il commento di Benvenuto da Imola e quello di Francesco da Buti è poco lo scarto temporale, ma se l'identità consapevole dell’intellettuale in Benvenuto appare ancora in embrione, in da Buti la vediamo qui di seguito già formata, laddove identifica se stesso nella lettura della Commedia come commentatore, lettore e ascoltatore: «Vegno alla intenzione della ditta autorità [scil. Dante] la quale può essere in tre modi; cioè adattandola a me tanto, adattandola a me e a’ lettori, adattandola a me e a li auditori» (Francesco da Buti, op. cit).
La novità è non solo nell’utilizzo della prima persona singolare, di certo importantissima per rivelare il cambiamento mentale e sociale della figura dell’intellettuale e del commentatore che finora ha sempre usato la forma impersonale della terza singolare o il pluralis maiestatis nella prima persona plurale. Tale ‘personalizzazione’ infatti non è del tutto nuova, in quanto è già stata usata da commentatori precedenti come Guglielmo Maramauro che tra 1369 e il 1373 scrive a Napoli un commento in volgare limitato all’Inferzo nel cui proemio afferma:
faria la divisione de questo libro: de la materia, e de la forma, e del titolo del libro, e a che parte de filosofia se sotomete, e ancora de la forma del tractato, e ancora de la forma del tractare. Ma, per non fare prolixità de parole, io lo pretermeto e solo a la parte de filosofia morale io reduco questa opera. (DDP: Maramauro, Inferno I, Nota).
Lo stesso Giovanni Boccaccio, che però commenta come sappiamo solo i primi diciassette canti dell’Inferzo (1373-1375) utilizza nel proemio la prima persona: «Io che debbo di me presummere, conoscendo il mio intelletto tardo, lo ‘ngegno piccolo e la memoria labile, e spezialmente sottenttando a peso molto maggiore che a’ miei omeri si convegna [...]?» (DDP: Boccaccio, Inferzo, Introduzione).
La novità di da Buti si trova invece a un livello diremmo più profondo di coscienza, cioè nell’intenzione del commentatore. I contesti di questi due ultimi commenti rivelano infatti intenzioni ben diverse da quelle dell'io’ di da Buti: Maramauro propone una divisione «de la materia, e de la forma, e del titolo del libro», divisione comunque ‘tecnica’ e non nuova, in quanto già vista in quasi tutti i commenti precedenti, senza però mettere in pratica il suo intento «per non fare prolixità de patole», Boccaccio fa per il suo «io» un’ammissione di umiltà «conoscendo lo mio intelletto tardo» e bisognoso quindi dell’aiuto divino. Da Buti invece stupisce per la consapevolezza di autonomia dal punto di vista ermeneutico e dell'efficacia del suo esempio intellettuale, del suo ‘studio’ e ‘industria’ come espone in questo passo che riportiamo:
Quanto al primo, dico che la preditta autorità suona questo; e questo ne voglio prima intendere che: Poca favilla; cioè lo mio poco intelletto, secorda gran fiamma; cioè cresce in gran fiamma d’intendere. Speculato e veduto la verità di questo nostro autore [...] aprirannosi molte altre grandissime verità [...].
Secondo, dico che la ditta autorità si può intendere per me e per li altri lettori, e allora si spone così: Poca favilla; cioè la mia debile e lieve lettura, seconda gran fiamma; cioè seguiterà grandissima e validissima lettura delli altri valentissimi ingegni, che piglieranno a leggere incitati per esemplo di me. [...].
Terzio dico che la ditta autorità si può intendere per me e per voi auditori, e allora si può esponer così: Poca favilla; cioè la mia breve lettura, seconda gran fiamma; cioè seguiterà grande eccellenzia d’ingegno in voi auditori [...].
Così io vi sarò cagione dell’acuità de’ vostri ingegni, quantunque io mi sia ottuso (F. da Buti, op. cit.).
L’autore mette il suo sapere a disposizione dei suoi ascoltatori e dei lettori in una forma che rivela un orizzonte culturale proprio dell’Umanesimo, in cui il commentatore si pone come intellettuale fortemente consapevole della propria funzione pedagogica nella società: «Così io vi sarò cagione dell’acuità de’ vostri ingegni, quantunque io mi sia ottuso».
Nel proemio del commento in latino di Filippo Villani, iniziato ormai nel nuovo secolo (1405) e relativo solo al primo canto dell’Inferno, la prospettiva è completamente diversa: la Divina Commedia sarebbe un dono fatto da Dante nientemeno che a Dio stesso, come i Magi al bambino Gesù, in quanto Inferno, Purgatorio e Paradiso sono messi in relazione con mirra, incenso e oro: «Cui [scil. Dei] noster poeta, pietatis intuitu, secutus orientalium regum yraginem qui Christo infantulo obtulerunt, esennium tradidit mirre asperrime in Inferno, thuris odoriferi in Purgatorio et auri purissimi in Paradis» (DDP: F. Villani, Inferno I, nota).
La motivazione per cui Dante avrebbe scritto il poema («pietatis intuitu, secutus orientalium regum ymaginem») mette in evidenza come il paradigma mentale della corrispondenza allegorica ‘geometrica’ e analitica abbia perso il riferimento concreto del testo. È evidente la corrispondenza analitica nei termini Commedia/doni, tradere al centro con significato sia letterale sia allegorico: cioè ‘consegnare’, riferito ai doni, ‘tramandare’ allegorico, riferito alla Commedia, così come oro-incenso-mirra/Paradiso-Purgatorio-Inferno, ma l’interpretazione è assolutamente personale e non sembra avere altro fondamento che l’intuito ‘personale’ del commentatore che cerca di riallacciarsi alla tradizione allegorica di tipo dantesco ma facendo riferimento a un’interpretazione soggetti va che come abbiamo visto emerge in questo secolo e di cui non spiega il punto di partenza, probabilmente non più ritenuto necessario a causa dell’autonomia interpretativa del commentatore.
Il proemio dell’ultimo commento che abbiamo scelto, quello del frate francescano Giovanni da Serravalle (1416-1417) che accompagna con un commento in latino la sua traduzione latina della Commedia, spiega come la Comedia sia stata scritta «ad correctionem vitiorum et sequelam virtutum» — riprendendo il proemio di Guido da Pisa — e usando verbi come comunicare e compilare che denotano come il cambiamento mentale nel mondo intellettuale dei commentatori sia ormai avvenuto:
Ideo hic auctor Dantes, cupiens aliquid comzzunicare ex horreo plurime sue scientie [...] hunc talem librum ad correctionem vitiorum et sequelam virtutum studiosissime compilavit, in cuius continentia, de vitiis et sceleribus [...] in primo et secundo libris, scilicet in Inferno et Purgatorio, de virtutibus et ipsarum operationibus atque premiis [...] in Paradiso lucidissime declaratur (DDP: J. da Serravalle, Inferno, Introduzione).
Anche nell’ambito ecclesiastico infatti appare mutata la funzione dell’intellettuale, che non deve più demonstrare ma communicare, cioè mettere in comune il proprio sapere ‘compilando’ la sua opera: l’idea dantesca del ‘dare a molti’ si è in parte realizzata, perché se da un lato l’intellettuale comunica ai lettori la sua scientia, dall’altro i lettori — tra cui gli stessi commentatori — possiedono già degli strumenti interpretativi autonomi che li indirizzano diremmo soggettivamente, in questo secolo, nella lettura, come abbiamo visto già in Filippo Villani. Giovanni da Serravalle continua dunque spiegando al suo pubblico: «Esentialis Infernus est locus, qui communiter creditur esse in centro, sive ptope centrum, terre: [...] tamen communiter creditur quod in celo empireo sit Paradisus» (ibidem).
Ci sembra importante pur in questi brevi passi sottolineare l’uso del verbo credere e l'assenza di verbi come demonstrare come segno abbastanza indubbio — anche da parte di un appartenente a un ordine ecclesiastico — di come il passaggio all’orizzonte culturale umanistico sia avvenuto anche per gli intellettuali non ‘laici, ancora più evidente se confrontato con un altro commento di un ecclesiastico come Guido da Pisa. L’uso del ‘creditur’ fa sì che non ci sia più nulla da demonstrare, perché rivela ciò che ‘si crede” come un dato acquisito e non più forse ‘dimostrabile’ nella consapevolezza intellettuale e sociale non solo del commentatore ma anche del lettore. Parafrasando Varela-Portas (2010: 24) il verbo «credere» testimonia già un tempo in cui «si crede di credere», cioè fuori dalla crisi dell’orizzonte culturale feudale. Il fatto che Giovanni da Serravalle non utilizzi la prima persona singolare ma la forma impersonale può essere dovuto da una parte alla sua ‘affiliazione’ ecclesiastica che non lascia spazio all'autonomia interpretativa ma lascia al commentatore un mandato rappresentativo ufficiale di quanto bisogna credere; dall’altra alla lingua utilizzata, il latino, e al principio umanistico dell’imitatio degli autori classici che utilizzano questa forma o il pluralis maiestatis evitando spesso la prima persona; ma questa resta un'ipotesi da verificare nella lettura del resto del commento.
Concludendo, dai dati esaminati — necessariamente parziali e riferiti solo ai proemi — l’allegoria sembra aver cambiato prospettiva tra fine Trecento e inizio Quattrocento, in quanto non ‘mostra’ né ‘dimostra’, come diceva Jacopo Alighieri nel 1322, ma diremmo che ‘va dimostrata’, secondo la prospettiva che appare da Francesco da Buti in poi.
Possiamo riassumere in una tabella quanto fin qui esposto, inserendo anche le immagini relazionate con i verbi utilizzati per esporre le allegorie:
[…]
Possiamo concludere che, man mano che si assiste alla sparizione dei verbi assertivi monstrare, describere, dicere a favore dei verbi opinativi come credere vadano scomparendo anche le immagini concrete dalle spiegazioni delle allegorie per sostituirvi concetti astratti, a testimoniare il cambiamento mentale in atto che non riconosce più l’immagine come veicolo di conoscenza ma la sua concettualizzazione astratta, propria di un differente approccio alla realtà sociale e culturale dovuta alle ideologie borghesi e «letteraliste» umanistiche che hanno portato all’«esilio» dell’allegoria (Varela-Portas 2006: 142).
Infine il commento visto dalla parte del lettore si traduce in uno strumento di cultura e di conoscenza — o virtù e conoscenza, come dice l’autore dell’Ottimo — anche per il borghese meno colto e appartenente al mondo mercantile, che cita a memoria versi della Commedia (Bec 1967: 100), anch’esso destinatario del progetto culturale annunciato da Dante nel Convivio: «dare a molti, dare utili cose, e sanza essere domandato lo dono, dare quello» (I, VII, 3).