Dati bibliografici
Autore: Giorgio Barberi Squarotti
Tratto da: L'ombra di Argo. Studi sulla Commedia
Editore: Genesi Editrice, Torino
Anno: 1992
Pagine: ???
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A questo punto, è chiaro che la lettura della Commedia non deve prescindere dal carattere allegorico del poema, ma, anzi, deve fare perno su di esso. La polemica contro l’allegoricità della Commedia è uno dei tanti e negativi risultati di una diffusissima operazione antistorica che discende dal razionalismo settecentesco e dalla pateticità delle estetiche romantiche: per un verso, l’allegoria sarebbe una forma di soffocamento e di costrizione della libertà espressiva e delle idee di Dante a opera dell’ideologia religiosa che, essendo irragionevole e falsa al lume della ragione, non può che portare a risultati negativi; per l’altro, l’allegoria sarebbe fredda, esteriore, imposta al libero manifestarsi dei sentimenti, negazione di quella passionalità da cui nascerebbe la poesia. Sono due diversi aspetti della lunga incomprensione dell’opera di Dante, anche nel momento in cui, magari, più fu studiata e celebrata: il De Sanctis e il Croce sono i due più clamorosi esempi di tale assoluta sordità nei confronti della Commedia. Come Dante stesso dice nel Convivio e nell’epistola a Can Grande della Scala, la lettura di qualsiasi testo letterario comporta la penetrazione sia della lettera sia del significato allegorico che il testo possiede. Sono idee che Dante deriva dall’ormai lunga tradizione dell’esegesi biblica, ed è noto che Dante pone il proprio poema non già sullo stesso piano “divino” della Bibbia, ma certamente su un piano analogo di opera ispirata da Dio e, di conseguenza, propone la Commedia come un testo che ha da essere letto secondo la duplice faccia di letteralità e di allegoricità, come si legge e interpreta la Bibbia. Non che essere un elemento esterno ed estraneo rispetto alla poesia della Commedia, l’allegoria ne è l’intima struttura, quella che regola figure, episodi, situazioni, aspetti incomprensibili nella loro complessità e verità, di pensiero e di poesia, se si prescinde dal significato allegorico che essi hanno. Si considerino le due figure di Virgilio e di Beatrice, che accompagnano Dante nel viaggio ultraterreno. Virgilio è, sì, il poeta “storico” dell’Eneide, l'’ammirato modello di stile, e anche l’inconsapevole profeta dei tempi nuovi e del cristianesimo della quarta ecloga, ma è anche il “savio che tutto seppe” nei termini della possibilità della ragione umana, quello che più avanti è giunto senza la luce della grazia. Virgilio accompagna Dante dalla selva oscura fino al culmine del monte del purgatorio, prima dell'ingresso nel paradiso terrestre: ma tutte le vicende del viaggio, i riferimenti di Virgilio alla volontà di Dio quando si presentano ostacoli e obiezioni, i momenti meditativi, non sono comprensibili se si considera il poeta latino soltanto un personaggio, e non anche colui che incarna la ragione umana priva della grazia, i limiti, quindi, di essa e delle sue capacità di comprendere l’universo, se, cioè, non si tiene presente il significato allegorico che Virgilio ha. Allo stesso modo fondamentale è la componente allegorica in Beatrice, che, sia detto di passaggio, non è affatto identificabile storicamente con nessuna persona effettivamente vissuta, se non al prezzo di una notevole confusione e di gravi errori, dal momento che nella Vita nuova Dante dichiara che il nome di Beatrice è un senhal, cioè è il nome con cui viene designata la donna amata che, nel sistema amoroso stilnovista e provenzale, non può mai essere rivelata nei suoi dati anagrafici, la cui indicazione sarebbe una colpa imperdonabile di carattere morale e sociale da parte dell'amante, e il nome di Beatrice allude, appunto, alla capacità di rendere beati e puri non soltanto chi l’ama, come è il protagonista del giovanile libretto, ma chiunque la incontri e la veda. È, sì, la donna celebrata nella Vita nuova, ma già nel libretto giovanile la protagonista è la nuova incarnazione della divinità, tanto da essere “desiderata in sommo cielo”, e la descrizione della morte di Beatrice ripete, nei fenomeni che l’accompagnano, la descrizione evangelica della morte di Gesù, e il “libello”, come Dante chiama l’operetta giovanile, si chiude sulla “mirabile visione” che è il preannuncio di quella raccontata nella Commedia e anche il poema è preannunciato nel proposito di dire di Beatrice quello che non fu mai detto di nessuna donna. Ma Beatrice è, appunto, colei che ha la capacità di rendere “beati”, nel senso della beatitudine celeste: e questa è ottenibile soltanto attraverso la conoscenza e la meditazione del vero Dio. La figura di Beatrice nella Commedia è, quindi, composta sia dal personaggio beatificante apparso nella Firenze della fine del duecento a diffondere intorno a sé valore e virtù e bene, poi subito portata via dalla morte, sia dalla funzione assunta dopo la morte di via istituzionalmente necessaria per la salvezza in quanto scienza e lode di Dio. Allo stesso modo, Firenze è, sì, la città dove Dante è nato e vissuto fino al momento dell'esilio e della condanna, il luogo dello scontro più aspro fra i partiti, fino al sangue, alle cacciate, alle uccisioni, alle persecuzioni, lo spazio dove è risonata dapprima la voce dei nuovi poeti come Guido Cavalcanti e Dante stesso, ma è anche la città che ha avuto, per un breve tempo, la possibilità di convertirsi al bene attraverso l’esempio e la presenza di Beatrice, e non l’ha colta, precipitando nella degradazione più grave e radicata, facendosi, di conseguenza, immagine di quella Babilonia infernale che è omologa della città di Dite nell’inferno e si contrappone alla città celeste quale Dante contempla nel paradiso, e i cui cittadini sono i beati (là dove fiorentini moderni sono i colpevoli dell’oltranza nel male, della superbia, dell’amore dei sùbiti guadagni, della dismisura, e proprio per questo popolano l’inferno, mentre l’intera città è l'esempio del disordine, del male, della confusione). Non si può comprendere il significato della Commedia se non si tiene conto di questo doppio e concorrente aspetto che vi hanno personaggi, eventi narrati, situazioni, figure: sì, reali e storici, ma anche fatti partecipi e significativi di un discorso che è escatologico sempre, cioè riguarda sempre la verità definitiva di tutti gli uomini e delle loro azioni quale è definitiva dopo la morte, dal punto di vista del giudizio di Dio, e non è mai, di conseguenza, realistico e storico e patetico. L’allegoricità è intrinseca alla rappresentazione poetica e alla narrazione del poema; non ne è un elemento esteriore, aggiunto a posteriori.