Dati bibliografici
Autore: Giuseppe Cantillo
Tratto da: Bullettino filosofico
Numero: XXVIII
Anno: 2013
Pagine: 59-72
Nel suo esemplare saggio sul rapporto di Croce con De Sanctis (La lezione di De Sanctis) Fulvio Tessitore riporta opportunamente un passo tratto dalla “memoria” letta da Croce nel 1912 all’ Accademia Pontaniana, Per la storia del pensiero di Francesco De Sanctis, che può valere come un chiarimento programmatico sul suo pensiero estetico: «Si tratterà — scrive Croce — di correggere il De Sanctis col De Sanctis, cioè di sviluppare meglio i suoi stessi pensieri. E, se mi si consente di accennare per un istante all'opera mia, vorrei dire che questo per l'appunto io ho tentato: 1) col delineare una idea di storia letteraria, nella quale sia possibile il più completo rispetto dell’individualità degli artisti [...]; 2) col proporre e mettere in atto, rigorosamente e scrupolosamente [...], una critica d’arte affatto libera da ogni interferenza di giudizi circa il valore logico o morale dell’astratto contenuto [...]; 3) infine (e questo mi attribuisco a maggior merito, posto che merito sia), col fare valere praticamente e formulare teoricamente, e dedurre filosoficamente il carattere lirico dell’arte, interpretando l’alquanto vago concetto desanctisiano della “forma” come intuizione pura e questa a sua volta, come intuizione lirica» . A De Sanctis Croce riconosceva il merito di aver proposto una riforma dell'estetica hegeliana che si esprimeva «nel raccomandare con più viva insistenza lo studio della storia e dei fatti; nell’avversione per la vita contemplativa, e nella rivendicazione delle forze sentimentali e volitive contro l'esclusivo dominio delle concettuali; nella sempre maggiore importanza data alla realtà nel suo rapporto con l’idealità; nell’attenzione che gli sembrava meritasse la crisi naturalistica del pensiero e della società moderna» . Ma non si trattava tanto di un antihegelismo, quanto di una capacità critica di distinguere gli aspetti vitali del pensiero hegeliano da quelli astratti e scolastici. Di recuperare le idee fondamentali del “divenire” e dell’“esistere” , così come di recuperare dalla concezione hegeliana dell’arte — che considera il bello come rappresentazione sensibile dell’idea, dando eguale valore al concetto e alla rappresentazione — per sottolineare pero il primato estetico della rappresentazione, della forma-figura in cui il concetto è «come calato e dimenticato» . E questo è un passaggio verso una concezione estetica che metta in rilievo «il carattere sentimentale e lirico dell’arte», che, secondo Croce, restava «nascosto» in Hegel, ma non veniva neppure in primo piano in De Sanctis. Quest'ultimo però nella pratica della critica letteraria in più occasioni, «si avvicinava inconsapevolmente all’unità di lirica e di rappresentazione», al concetto di “intuizione lirica”, che qui Croce chiarisce presentando la «rappresentazione artistica come concretamento fantastico del sentimento», oggettivazione del sentimento nell’immagine fantastica. A questa concezione De Sanctis — afferma Croce — si avvicinava quando «notava, non pur una volta, che “gli artisti sono grandi maghi, che rendono gli oggetti leggieri come ombre, e se li appropriano, e li fanno creature della propria immaginazione e della loro impressione”» , e si può dire che questa citazione è più che un avvicinarsi alla concezione crociana, ne è, piuttosto, una mirabile illustrazione .
In questa riflessione del 1912 che è un riepilogo di quanto già fatto e insieme un programma, la teoria estetica sembra inclinare verso un'accentuazione del momento sentimentale e lirico, verso l’affettività e la sua espressione, lasciando più nell'ombra il momento della visione, il lato più propriamente teoretico della conoscenza estetica. Viceversa è più netta la posizione originaria dell’Estetica nel prendere l'avvio da una riflessione di teoria della conoscenza. Vi leggiamo infatti: «la conoscenza ha due forme: è o conoscenza intuitiva o conoscenza logica; conoscenza per la fantasia o conoscenza per l’intelletto; conoscenza dell’individuale o conoscenza dell’universale; delle cose singole ovvero delle loro relazioni; è insomma, o produttrice d'immagini o produttrice di concetti» . Si può dire, a prima vista, che vi sia un'evidente prossimità all'esordio della Critica della ragione pura. Per Kant la conoscenza ha a che fare con intuizioni e concetti; e il modo originario con il quale la conoscenza si riferisce agli oggetti è l'intuizione: «Attraverso l'intelletto — scrive Kant — [...] gli oggetti vengono pensati, e da esso sorgono i concetti. Ogni pensiero, tuttavia, mediante certi contrassegni deve riferirsi in ultimo — sia direttamente (directe), sia indirettamente (indirecte) — a intuizioni» .
Anche per Croce l’intelletto non produce la sua conoscenza, senza il riferimento alla conoscenza intuitiva. Non vi sono concetti, senza intuizioni. Ma la concezione dell’intuizione in Croce è diversa da quella che ha Kant. Mentre per Kant l’intuizione è vincolata essenzialmente alla sensibilità, per Croce questo vincolo non c'è. Per Kant anche le intuizioni pure, lo spazio e il tempo, in quanto forme delle intuizioni, sono sempre riferite al contenuto fornito dalla sensibilità. Viceversa Croce distingue l'intuizione dalla percezione. Mentre quest’ultima è «la conoscenza della realtà accaduta, l’apprensione di qualcosa come reale», l'intuizione è più estesa dell’apprensione di qualcosa di reale, l'intuizione è anche immagine, cioè apprensione di qualcosa di non presente come realtà, ma presente come possibilità, come ricordo, come qualcosa di fantasticato, di sognato. La conoscenza intuitiva comprende quindi in sé la percezione, la conoscenza dei dati della sensazione, delle cose reali, ma non si identifica con essa, si estende alla conoscenza degli oggetti ideali, semplicemente possibili, degli oggetti non più reali o non ancora reali. Ritorniamo, ora, alle coppie di elementi presenti nella definizione delle forme della conoscenza. Da un lato come sinonimi troviamo: conoscenza intuitiva, conoscenza per la fantasia (dove il per può significare tramite la fantasia o anche adeguata alla fantasia), conoscenza dell’individuale, conoscenza delle cose singole, conoscenza produttrice di immagini. L'oggetto della conoscenza è qui un ente — reale o ideale — individuale, una cosa singola: non un concetto, che sarebbe generale, universale, ma una rappresentazione determinata, individuata o anche un'immagine, con un unico termine: l'intuizione. Dal lato soggettivo, della funzione della coscienza, sono all’opera l'intuizione (come intuire, atto dell’intuire, dell’apprendere il dato reale o ideale che sia), l'immaginazione, la fantasia. Dall'altro lato come sinonimi troviamo: conoscenza logica; conoscenza per l'intelletto (tramite l'intelletto o adeguata all’intelletto); conoscenza dell’universale (o del generale); conoscenza delle relazioni tra le cose singole; conoscenza produttrice di concetti. Qui, la funzione della coscienza all'opera è il pensiero (ragione, intelletto); l'oggetto della conoscenza logica o intellettuale è il concetto, sia come concetto logico, determinazione interna del pensiero, sia come concetto che pone in relazione le intuizioni, le singole cose, reali o ideali che siano: in ogni caso un che di universale, di generale, nel duplice senso della universale validità e della estensione universale, generale. Risolvendo le sinonimie, si può dire che l'intuizione, la fantasia e i suoi prodotti, le immagini, hanno a che fare con l’individuale, mentre l'intelletto e i suoi prodotti, i concetti, hanno a che fare con l’universale, con il generale. Ed è, a questo riguardo, importante la definizione della conoscenza dell’universale o del generale come conoscenza delle relazioni tra le cose singole; si avanza, cioè, l’idea del concetto come relazione, connessione, anche unificazione, di una molteplicità di intuizioni. Scrive Croce: «che cosa è la conoscenza per concetti? È conoscenza di relazioni di cose, e le cose sono intuizioni» . È importante, perché di qui scaturisce che mentre la conoscenza intuitiva può stare senza la conoscenza intellettiva, quest’ultima non può stare senza la conoscenza intuitiva; scaturisce cioè la tesi dell’indipendenza dell’intuizione dai concetti, della conoscenza intuitiva da quella intellettiva. Le intuizioni costituiscono, quindi, lo strato originario della vita spirituale a cui «la distinzione tra realtà e non realtà è estranea», sicché si può dire che «l'intuizione è l’unità indifferenziata della percezione del reale e della semplice immagine del possibile» . La peculiarità della posizione di Croce, che apre la strada alla sua identificazione dell’arte con l'intuizione, sta proprio nell’allargare l'intuizione al di là dall’esser posto di una cosa nello spazio e nel tempo. Quel che è l'oggetto intenzionato dalla coscienza nella intuizione non è il riferirsi di una cosa allo spazio e al tempo, ma il suo significato individuale, la sua fisionomia individuale, la sua determinatezza. «Ciò che s’ intuisce, in un’opera d’arte, non è spazio o tempo, ma carattere o fisionomia individuale» . Quest’affermazione si può applicare anche a oggetti che non sono opere d’arte. Per esempio a fatti storici o a stati della coscienza, a fatti psicologici, a relazioni intersoggettive, che sono altrettanto individuali. L'intuizione viene concepita come una funzione o categoria caratterizzante: «categoria o funzione, che dà la conoscenza delle cose nella loro fisionomia individuale». Ma cos'è che dà la fisionomia individuale all'atto dell’intuire che come tale è formale, è la forma del raccogliersi e dell’apprendere immediato? Il carattere individualizzante è dato dalla materia che determina la forma concreta, l'atto spirituale concreto: «[la materia] è un di fuori che ci assalta e ci trasporta, [la forma] è un di dentro che tende ad abbracciare quel di fuori e a farlo suo. La materia, investita e trionfata dalla forma, dà luogo alla forma concreta. È la materia, è il contenuto quel che differenzia una nostra intuizione da un’altra: la forma è costante, l’attività spirituale; la materia è mutevole, e senza di essa l’attività spirituale non uscirebbe dalla sua astrattezza per diventare attività concreta e reale, questo o quel contenuto spirituale, questa o quella intuizione determinata» . Qui materia è da intendersi non solo come i dati della sensazione, della percezione sensibile, ma più in generale come contenuto, materia sia reale, empirica, che ideale, immaginata, fantasticata. L’intuizione è un atto di apprensione, ma al tempo stesso è il risultato di una elaborazione di sensazioni e, soprattutto, è un atto di oggettivazione, di espressione: «ogni vera intuizione o rappresentazione è, insieme, espressione». L’intuire, quindi, non è soltanto un vedere, ma insieme è un fare, un produrre, un portar-fuori, nell’aperto del mondo l'elaborazione interiore: «Lo spirito non intuisce se non facendo, formando, esprimendo». Non c'è prima un conoscere intuitivo e poi una espressione, una oggettivazione di ciò che si è intuito, ma vedere e fare, intuire ed esprimere sono una cosa sola, sicché Croce ammonisce: «Chi separa intuizione da espressione, non riesce mai più a congiungerle».
Con il termine espressione Croce intende sostanzialmente riferirsi al linguaggio, anzi ai linguaggi, non solo a quello verbale, ma a tutte le forme di manifestazione, di espressione, di comunicazione: il linguaggio dei suoni, il linguaggio dei colori, il linguaggio dei gesti, il linguaggio del corpo. Con l’ampliarsi del termine espressione all’intero orizzonte della rivelatività, della manifestatività che è propria dello spirito, il territorio dell’arte, che è essenzialmente intuizione-espressione viene a coincidere con la totalità della vita spirituale, di cui costituisce la forma originaria, la distinzione originaria. L'estetica, in senso proprio è la scienza dell’arte , ma in senso ampio è la conoscenza intuitiva in tutte le sue modalità. Perché tra l'intuizione della vita quotidiana e l'intuizione artistica non c'è una differenza qualitativa, intensiva, ma solo una differenza quantitativa, estensiva, empirica. L’intuizione artistica implica una più ricca e complessa elaborazione: «l'intuizione di un semplicissimo canto popolare d'amore, che dica lo stesso, o poco più, di una dichiarazione di amore quale esce a ogni momento dalle labbra di migliaia di uomini ordinari, può essere intensivamente perfetta nella’ sua ‘povera semplicità, benché, estensivamente, tanto più ristretta della complessa intuizione di un canto amoroso di Giacomo Leopardi» . L’artisticità dell’intuizione ha a che fare quindi con il formare, il dar forma: «l’atto estetico è [...] forma e nient'altro che forma» . Croce scarta la separazione di forma e contenuto, e rigetta sia la tesi che fa consistere l'atto estetico nel contenuto sia la tesi che la forma si aggiunga al contenuto come un ornamento o comunque un elemento estrinseco. Per Croce il contenuto nasce con la forma, è il prodotto della forma, dell’intuizione- espressione che elabora la materia, le impressioni, l’ emozionalità. Molto acutamente egli sostiene che la materia è contenuto dell’atto intuitivo, elaborato e formato dall'atto intuitivo, ma proprio perciò non è il contenuto dell’arte, perché il contenuto dell’arte è la forma stessa concreta, l’attività spirituale oggettivata, l’intuizione-espressione. «Nell’atto estetico, l’attività espressiva non si aggiunge al fatto delle impressioni, ma queste vengono da essa elaborate e formate» . Si comprende lo sforzo di Croce di ricondurre interamente il contenuto alla forma, per cui l’atto estetico è nient'altro che la forma concreta, che è anche contenuto. Il che non significa annullare una qualche distanza tra la materia e la forma, tra la materia dell’intuizione e l'intuizione come forma, in quanto non si può evitare di far riferimento al processo spirituale che fa diventare la materia, il contenuto — le impressioni, le emozioni, le sensazioni etc. — materia elaborata, formata, contenuto formato. In effetti, il contenuto di per sé è una “x” che può essere trasformato in forma, ma appunto finché non è stato formato, elaborato, non è passato da impressione a espressione, non ha nessuna qualità determinabile, è semplicemente una “x”. Questo vuol dire anche che qualsiasi contenuto, qualsiasi materia, può diventare l’ingrediente della forma concreta che è l'intuizione artistica: non vi sono contenuti che hanno in se stessi la qualità estetica, contenuti di per sé destinati ad essere contenuti esteticamente formati, ma è la forma dell’intuizione-espressione che li fa essere contenuti estetici viventi dentro la forma concreta che è l’opera d’arte. In questa forma dell’intuizione, del fatto estetico, dell’arte rientra anche il fatto storico, sicché non è giustificato ricorrere a una terza forma di conoscenza, alla forma teoretica della storicità. Nella storia l'elemento caratterizzante è l'intuizione dell’individuale; «il questo qui, l’individuum omnimode determinatum, è il dominio di essa, com'è il dominio dell’arte», per cui si può affermare che «la storia si riduce [...] sotto il concetto generale dell’arte» . Si può quindi ribadire che «intuizione e concetto esauriscono completamente [lo spirito conoscitivo)» e «nel passare dall'una all’altro e nel ripassare dal secondo alla prima, s'aggira tutta la vita teoretica dell’uomo» . Il che significa che nella fluente continuità della vita spirituale, nel suo “divenire”, «il rapporto tra conoscenza intuitiva o espressione e conoscenza intellettuale o concetto, tra arte e scienza, tra poesia e prosa, non si può significare altrimenti se non dicendo ch'è quello di un doppio grado. Il primo grado è l’espressione, il secondo il concetto: l’uno può stare senza l’altro, ma il secondo non può stare senza il primo. Vi è poesia senza prosa, ma non prosa senza poesia. L'espressione poetica è infatti la prima affermazione dell'attività umana. Vichianamente, la poesia è “la lingua materna del genere umano”; i primi uomini “furono da natura sublimi poeti”» . L'arte e in primo luogo la poesia si conferma come una forma del conoscere, una forma teoretica autonoma rispetto alla conoscenza intellettuale, tanto quella delle scienze naturali e più in generale dei saperi positivi, quanto quella della filosofia.
Una peculiare applicazione della estremamente moderna idea crociana dell'autonomia dell’arte, che ad essa viene dal suo essere intuizione pura, lirica, quindi essenzialmente forma, si sperimenta nella rivendicazione dell'autonomia della poesia rispetto alle varie forme di espressioni della vita spirituale e di conoscenze intellettive. Questa autonomia della poesia emerge in modo particolarmente chiaro nella Introduzione a La Poesia di Dante , tramite la distinzione tra poesia e non poesia, tra le parti poetiche e l'elemento strutturale della Divina Commedia, vale a dire le parti informative, le parti storiche, filosofiche, politiche, o anche rispetto a quelle parti in cui il sentimento, l’emozionale, non si è lasciato trasfigurare nella forma poetica . Altrettanto essa emerge nella distinzione tra allegoria e poesia. A questo riguardo Croce si riferisce in un primo caso a luoghi in cui l’allegoria è estrinseca alla poesia o addirittura viene cercata dagli interpreti, e per così dire, viene sovrapposta ad essa. Ne è illustrazione netta, perfino eccessivamente brusca nei toni, quanto Croce dice a proposito di Beatrice «negli ultimi canti del Purgatorio e nel Paradiso, la quale sarà allegoricamente tutto ciò che Dante avrà voluto o gli interpreti avranno farneticato (la Teologia, la Rivelazione, l'intelligenza attiva e via dicendo), ma, quale che sia in quest’arbitrio d’imposizione di nomi, in poesia è semplicemente una donna già amata e ora felice e gloriosa e pur benigna e soccorrevole all’antico amatore» . E lo stesso vale per Matelda, di cui si sono egualmente proposte una serie di interpretazioni che ne fanno il simbolo della “Vita attiva” o della “Grazia”, o anche della “Natura umana perfetta”, o del “Misticismo pratico” , o della “Conciliazione della Chiesa con l'Impero”, e inoltre si sono proposte una serie di identificazioni storiche: «la contessa Matilde di Canossa, una santa Matilde di Hackenborn, una beghina Matilde di Magdeburgo, la beata Matilde madre dell’imperatore Ottone I, santa Maria Maddalena, un'amica di Beatrice del tempo della Vita Nora». Ma, afferma Croce, nel contesto poetico essa è soltanto quello che il poeta ci fa vedere «nelle immagini» e ci fa rivivere «nel sentimento», vale a dire «una giovine donna, la quale, nella frescura del mattino, in un boschetto, “si gìa cantando e scegliendo fior da fiore’: figura infinitamente più ricca (in poesia) di quella che si pretenderebbe arricchire ed annullare con uno di quegli scarabocchi di secondi sensi e di allusioni storiche» . Commentando l’incontro con Matelda Croce esprime in modo esemplare questa percezione del valore poetico delle terzine dedicatele: «E qui accetteremo semplicemente quella ventina di terzine su Matelda come una delle molte — ma delle più belle — espressioni della vaghezza che trae l’uomo a comporre in immaginazione paesaggi incantevoli, animati da incantevoli figure femminili» . E osserva ancora che questa figura di una giovane donna che va raccogliendo fiori era ricorrente nella poesia provenzale e italiana; «Dante ripiglia il comune motivo e lo svolge, con gran diletto, in una nuova forma di squisita perfezione, in cui il fascino della gioventù, della bellezza, dell'amore e del riso si esalta in ogni immagine», e conviene completare i riferimenti che Croce riporta in parentesi, per condividere meglio il suo giudizio sulla poeticità di queste terzine:
Una donna soletta che si gìa / cantando e scegliendo fior da fiore / ond'era pinta tutta la sua via.
Tosto che fu là dove l’erbe sono / bagnate già dall’onde del bel fiume, / di levar li occhi suoi mi fece dono; / non credo che splendesse tanto lume / sotto le ciglia a Venere, trafitta / dal figlio fuor di tutto suo costume. / Ella ridea dall'altra riva dritta, / trattando più color con le sue mani, / che l'alta terra sanza seme gitta [...].
Cantando come donna innamorata, / continuò col fin di sue parole: / Beati quorum tecta sunt peccata!/ E come ninfe che si givan sole per le salvatiche ombre , disiando /, qual di veder , qual di fuggir lo sole, / allor si mosse contra il fiume, andando / su per la riva; e io pari di lei, / picciol passo con picciol passo seguitando.
La seconda parte del canto XXIX — ma, è da ritenersi, anche parte del XXVII — si possono ascrivere alla “non poesia”, perché, scrive Croce, «Matelda compie ufficio d'informazione [...] e poi è chiamata ad altri gravi uffici, più o meno allegorici, che non hanno nulla da vedere con la ispirazione poetica ond'ella fu generata e apparve la prima volta» . Un secondo caso del rapporto con l’allegoria è invece indicato da Croce in quei luoghi, non solo della Commedia, in cui l’allegoria è intrinseca alla poesia in modo tale però che finisce per annullarla, «ponendo un complesso d'immagini discordanti, poeticamente frigide e mute, e che perciò non sono vere immagini ma semplici segni». Un terzo caso infine è quello in cui l’allegoria viene trasfigurata «compiutamente in immagini», cioè, in effetti, tende a scomparire come allegoria . È questo il caso di quanto egli afferma delle scene degli ultimi canti del Purgatorio, a partire dall’apparizione sul carro di «una donna velata di bianco, cinta d'oliva, in manto verde e veste color fiamma», cioè Beatrice . In queste ultime scene — osserva Croce — pur essendo le immagini segni e mezzi per colpire «l'immaginazione [e] fermare l’attenzione perché la mente accolga un insegnamento o un ammonimento» — quel che predomina «è il sentire del poeta, che vede svolgersi dinanzi agli occhi alcune delle tante immagini, gravide di misterioso significato, a cui la letteratura biblica e cristiana e l’arte sacra avevano adusato gli spiriti. Donde la particolare poesia che si sente e si gode in questa parte del poema, la quale si sottrae alla frigidità dell’allegorismo, perché non serve all’allegoria, ma la presuppone e se ne serve» . Il senso delle importanti riflessioni sull’allegoria è la delimitazione dell’interpretazione estetica, o anche storico-estetica, rispetto alle interpretazioni che Croce definisce «allotrie», che inseguono «gli allegoristi, gli storicisti, gli aneddotisti, i congetturasti», in generale i «filologi» e i «commentatori», quando esasperano la loro opera. Di fronte a questi eccessi è giusto l’ammonimento di «leggere Dante, gettati via i commenti, “da solo a solo”» — il che non significa fare a meno dei commenti quando si attengono ai «soli dati giovevoli alla interpretazione storico-estetica» — ma appunto mantenersi liberi per «metter[si] in immediata relazione con la sua poesia» e riuscire a cogliere, anche al di là della complessa strutturazione e della ricchezza sovrabbondante di informazioni, di ragionamenti, di saperi particolari, di un’opera a molti strati qual è la Divina Commedia, «lo spirito della poesia di Dante». Per coglierlo, è necessario, secondo Croce, non solo evitare di accentuare l'elemento didascalico, pedagogico, la visione della poesia di Dante come poesia teologica, filosofica, dottrinaria, che la renderebbe più vicina alla letteratura che non alla poesia vera e propria, ma, superata questa più antica tendenza, evitare anche tanto una sopravvalutazione dell'elemento ideale, spirituale, metafisico, come nel caso della critica idealistica, quanto una sopravvalutazione dell'elemento passionale, puramente sentimentale, come nel caso della critica romantica, dalla quale, poi, sviluppando l'elemento realistico, derivata l’interpretazione “veristica”: «la tendenza a concepire l’arte come riproduzione della realtà, di una realtà anch'essa arbitrariamente delimitata, grossa, tangibile, rumorosa, gridante» . Alla critica idealistica e a quella romantica si deve contrapporre una critica che sia fondata sul «concetto dell’arte come lirica, intuizione lirica», per cui l’arte «non ritrae cose ma sentimenti, o, piuttosto, sui sentimenti crea le sue alte fantasie» . Per essa la materia è «il pratico sentire» che viene trasfigurato dalla forma, che è l'intuizione, il vedere teoretico che crea l’immagine. L'’intuizione lirica, la «liricità», spiega Croce non è l’indice di un genere letterario accanto ad altri, ma è «la poesia stessa, e anzi ogni opera d’arte, pittorica, plastica, architettonica, musicale o altrimenti che si chiami» . Un esempio evidente di questa concezione poetica è dato dall’interpretazione che Croce dà dell’episodio di Francesca e Paolo: «elle terzine consacrate alla pietà dei due cognati, al tragico amore di Francesca da Polenta e Paolo Malatesta, si ha la prima grande e compiuta poesia di Dante». Dalla suggestiva descrizione di Croce emerge l'essenza della poesia, la fascinazione che viene dall’intuizione-espressione della commozione profondamente umana che si effonde dalla «tragedia dell’amore-passione», che «è il significato poetico dell'episodio di Francesca», il disvelamento dell’essenza lirica della poesia .
Più difficile la distinzione di poesia e non poesia, di poesia e allegoria, nella terza cantica, dove un ampio spazio è dato alla poesia didascalica e alla poesia oratoria. Nel Paradiso è come abbreviata la distanza tra il senso letterale e poetico delle immagini e il loro significato dottrinale; essi tendono a compenetrarsi. Con una finissima analisi, Croce osserva: «Il concetto della gioia paradisiaca restringe il poeta a pochissimi, e anzi a quasi un ordine solo d’immagini, riduce la sua tavolozza a un solo colore, che egli non può differenziare se non nel grado, nel meno e nel più» . Quel che si prova e si vede avvicinandosi a Dio è ineffabile, la fantasia non lo «ridice», se non inclinando verso una visione intellettuale, verso l’astrattezza concettuale. In effetti quella gioia che fa tutt'uno con la luce del Paradiso non si lascia rappresentare e neppure pensare, perché «non si pensa e non si rappresenta se non la gioia concreta, che nasce dal dolore ed e venata di dolore e torna al dolore; la luce che è insieme ombra, e combatte con l'ombra, e la vince e n'è in parte vinta» . La poesia del Paradiso si afferma, perciò, lottando contro un limite costitutivo che è dato dal «contrasto tra l'infinito dell’intenzione e il finito della rappresentazione» . Perciò, afferma Croce, si fermano nella nostra mente «alcune particolari visioni di bellezza e di lietezza, i paesaggi fantastici o i lembi di paesaggi fantastici che pur ci sono» e ci danno «quel senso di vitalità» che ora, nello scenario del Paradiso, «gioisce [...] in quel che di più fresco e gentile e soave possono i sensi umani bramare, e passa in perpetuo da estremo piacere a estremo piacere» . E ad esemplificare tali sensazioni e immagini poetiche Croce in parte riassume e in parte riporta tre splendide terzine del XXX Canto in cui a me pare, seguendo l'indicazione crociana, che veramente si fonde il vivido ricordo del terreno paesaggio e del movimento della vita delle persone con l’immagine fantastica di una perfetta natura celeste abitata dalle anime infiammate dall'amore divino:
E vidi lume in forma di rivera / fluvido di fulgore, intra due rive / dipinte di mirabil primavera.
Di tal fiumana uscìan faville vive, / e d’ogni parte si mettien ne' fiori, / quasi rubin che oro circunscrive.
Poi, come inebriate dalli odori, / riprofondavan sè nel miro gurge; / e s’una intrava, un'altra n’uscia fori.
Alla fine del lungo confronto con la poesia di Dante attraversando tutte e tre le cantiche — «da solo a solo» e portandosi però come criterio l’idea della poesia e più in generale dell’arte come «intuizione lirica» — Croce propone una delineazione sintetica dello «spirito poetico di Dante» , del suo «ethos e pathos», ch'egli indica «in brevi e semplici parole» in «un sentimento del mondo, fondato sopra una ferma fede e un sicuro giudizio, e animato da una robusta volontà». La consapevolezza della ineffabilità dell'esperienza mistica, a cui la poesia può solo, con le sue immagini, alludere col linguaggio delle “cifre”, la comprensione degli affetti umani e la capacità di giudicare tra il bene e il male costituiscono la salda «inquadratura intellettiva e morale» in cui si immette però il dinamismo di un vivace e inquieto «sentimento del mondo»: «il più vario e complesso sentimento, di uno spirito che ha tutto osservato e sperimentato e meditato», che conosce valori e disvalori delle cose e delle azioni umane, «per aver vissuto quegli affetti in sé medesimo, nella Vita pratica e nel vivo simpatizzare e immaginare» .