Dati bibliografici
Autore: Sergio Cristaldi
Tratto da: Poesia e profezia nell'opera di Dante
Editore: Centro Dantesco dei Frati Minori Conventuali, Ravenna
Anno: 2019
Pagine: 11-41
Con una formulazione estrema e volutamente unilaterale, potremmo asserire che il profetismo dantesco è un fenomeno sostanzialmente moderno, ottonovecentesco, di cui si ravvisa abbastanza agevolmente la nascita tardiva. Sarebbe una formulazione provocatoria? Non vogliamo affatto cedere l'interpretazione profetistica, né tanto meno denunciarla come spuria rispetto all'intentio di Dante e dei suoi testi; ma solo certificare la storicità di una scoperta critica, che beninteso resta tale, effettiva e proficua scoperta, quale che sia il momento del suo verificarsi. Correttamente maneggiata, quella chiave di lettura dimostra un’indiscutibile capacità di presa, una penetrazione in grado di raggiungere e identificare fenomeni effettivamente intrinseci al corpus di Dante e, per opere come la Commedia e le epistole, di sicuro strategici. È un fatto, d‘altra parte, che un simile attrezzo sia emerso, negli studi danteschi, solo a partire dal XIX secolo, sulla scia di alcuni mutamenti di paradigma determinatisi a livello globale nella cultura europea del Settecento. Se si considera, insomma, la coscienza di Dante e la tensione dei suoi testi, allora è doveroso riconoscere che il profetismo è indiscutibilmente originario; se invece si guarda alla storia della ricezione, non c’è che da confermare un affioramento recente, tra Illuminismo e Romanticismo.
Le cause della protratta sordità degli esegeti e del pubblico rispetto a una componente così significativa dell'universo dantesco e, aggiungiamo pure, così in vista, riluttano a una frettolosa reductio ad unum e andrebbero accertate singolarmente, tanto più che quella sintonizzazione difettosa, se non interamente mancata, muove dal Trecento e si prolunga per secoli. Si capisce bene che i fattori di disturbo mutino con l’avvicendarsi degli assetti storico-culturali. Ma di sicuro ha contato, nel passaggio fra XIII e XIV secolo, l'attenuarsi di quell'aspirazione a un rinnovamento collettivo, di quella fiducia in una universale trasformazione che avevano invece caratterizzato i tempi di Gioacchino da Fiore, Pietro Valdo, Francesco d'Assisi, Pietro di Giovanni Olivi, Celestino V, Ubertino da Casale e, in genere, dei movimenti religiosi più incandescenti, incapaci di rassegnarsi a un vasto e profondo dissesto e ansiosi di veder trasformata la faccia della terra. Non sarebbe lecito, beninteso, mettere sullo stesso piano personalità e schiere fra loro ben distinte, cumulare senz'altro, poniamo, gioachimiti e frati minori, col pretesto di circoscritti fenomeni di tangenza; nessuno, del resto, tornerebbe oggi ad ipostatizzare una “prima rinascita” alimentata da Gioacchino teologo e da Francesco apostolo, con Dante a chiusura di una fatidica terna in qualità di cantore. Nondimeno, figure con ottiche e mete divaricate tentavano di rispondere, ciascuna a suo modo, alle medesime ansie, alle tensioni e ai fermenti comuni di un frangente epocale. Altro è il clima che man mano subentra coll’avanzare del Trecento, quando l’esigenza di riscatto si declina di preferenza in termini individuali e l’unica salvezza è quella della vita eterna, che ciascun credente può meritare o demeritare, a prescindere dal contesto socio-istituzionale. Se la Commedia dantesca aveva coniugato insieme la prospettiva orizzontale del futuro storico e quella verticale del traguardo ultraterreno, i suoi fruitori trecenteschi si mostravano poco sensibili alla prima, convergendo soprattutto sulla seconda. Di fronte all'enigma del Veltro — croce e delizia di future stagioni ermeneutiche - un interprete di prim'ordine quale Giovanni Boccaccio si concentra sulla destructio, peraltro assai efficace, delle decodifiche aberranti, senza esporsi gran che in positivo, vuoi per prudenza, vuoi per debole inclinazione all'argomento.
Fenomeno parallelo (interconnesso?) è la precoce rubricazione della Commedia sotto il paradigma dell'allegoria dei poeti, operazione già consumata nel XIV secolo e in seguito ribadita a varie riprese nel Quattro e Cinquecento, magari in forza di nuove esigenze e con flessioni di volta in volta inedite. Ne veniva, intanto, la riduzione della lettera del poema sacro a mero preliminare, a vestibolo da oltrepassare e lasciarsi alle spalle, nella ricerca, questa sì esegeticamente risolutiva, del nocciolo di verità nascosto entro il guscio favoloso. Ora, se il viaggio oltremondano equivale a una finzione propedeutica, allora le rivelazioni ultraterrene sortite dal pellegrino perdono risalto e attrattiva: pur rimanendo ben visibili, non fermano lo sguardo. Incluse quelle, non poche e non secondarie, sull'avvenire che si prepara, sull’incipiente trasformazione della società e delle sue istituzioni, sia politiche che religiose. Tanto più nel caso di un’allegoresi che addita il presunto senso riposto in una vicenda terrena, in un percorso di peccato e di riscatto. Come fa, ad esempio, Pietro di Dante, cominciando con l’osservare che l'andata del pellegrino all'Inferno non è che il correlativo di una discesa «ad infimum statum vitiorum». Come in certo modo seguita a fare, all'altezza dell'Umanesimo, il platonico Cristoforo Landino, per il quale le tre cantiche adombrano l'avventura dell'anima, irretita dapprima nel carcere terreno e da lì incamminata verso Dio.
La distrazione, s'intende, non fu così compatta, eccezioni si fecero strada. Un commentatore come Guido da Pisa riconobbe in Dante un attendibile profeta, e non esitò ad accostare il suo annuncio ai messaggi che, nella Bibbia, provengono da Dio stesso. L'inventario deve includere i documenti extra-letterari; anche quando appiattiti su ragioni pesantemente ideologiche. L'impeto della Riforma fu pronto ad assumere e rilanciare la requisitoria della Commedia contro la simo: nia clericale e la libido dominandi dei pontefici, e fece buon viso al Veltro e al Cinquecento diece e cinque. Certo, la polemica qui passa il segno, con escogitazioni che oggi fanno sorridere. Quando il protestante francese Francois Perrot mise in circolazione un aspro pamphlet sulla corte papale, convocando, quali testimoni a carico, Dante, Petrarca e Boccaccio, non si peritò di spacciare il DXV come premonizione, addirittura, di Martin Lutero. Un'enormità del genere è priva — troppo ovvio - di ogni diritto di cittadinanza sul terreno di una esegesi non strumentale; eppure, a contrastare l'opuscolo iroso e tendenzioso, si sentì in dovere di una replica lo stesso Roberto Bellarmino, rigettando in maniera perentoria non solo un'identificazione del tutto implausibile, ma l'idea tout court di un'attitudine profetica di Dante. I suoi vaticini, ammoniva il dotto gesuita, dovevano essere dal primo all'ultimo derubricati, rientrando in verità nel sogno poetico oppure nell'encomio, come lo stesso annuncio dell’inviato da Dio, a ben vedere un tributo a Cangrande, ospite e protettore. All'appropriazione partigiana della Commedia rispondeva in questo modo una volontà di costituzionalizzare la sua eccedenza.
Allo scadere di quel periodo di magra che fu per Dante il secolo XVII, interessato al senso letterale del poema sacro, ma in nome di questioni formalistiche e regolistiche, tornò in auge la leva allegorica, a opera di Gianvincenzo Gravina. Era erede, Gravina, di un filone platonico propagatosi in ambito umanistico-rinascimentale, e ne condivideva l’attenzione ai miti antichi, la certezza del loro spessore, accogliendo a sua volta la tesi che quelle favole risalissero a lucidi e accorti sapienti, impegnati a travestire un arduo vero, in modo da renderlo in qualche modo accessibile a moltitudini indotte. Secondo il Discorso sopra l'Endimione e il trattato Della ragion poetica, l'alba di ogni civiltà è segnata da narrazioni fantastiche gravide di sapienza riposta: in quelle aurore, tocca interamente al discorso mitologico, frutto della doppia competenza del poeta-teologo, la responsabilità di un magistero elevato, altrimenti incomunicabile, dato il livello depresso dei fruitori. Al ruolo di sapiente e poeta primordiale aderiva intanto Omero, già certo dell'unico vero Dio, ma impegnato di necessità a versare le nozioni delle essenze e delle cause naturali e morali in altrettante personificazioni, le divinità del suo fantastico Olimpo. Con Omero fa il paio il capostipite delle lettere italiane, Dante, non meno efficace nel tradurre punti di dottrina in suggestive allegorie. Non tutto è favola, beninteso, nella Commedia, non lo è l'architettura dei tre regni, che corrisponde indiscutibilmente alla verità, e solo in seconda battuta funge anche da immagine, veicolando un significato ulteriore. Resta che la traversata dell’aldilà rimanda al «viaggio d'ogni anima in questa mortal vita».
Eppure, proprio nei pressi di questo impianto teorico e critico matura lo stacco che porrà condizioni propizie per l’accesso al profetismo dantesco. Ammiratore e sodale di Gravina, nonché convinto in un primo momento come lui della sapienza riposta dei miti, Giambattista Vico conquista la sua maturità emancipandosi da quella impostazione. Secondo la Scienza nuova, il presunto doppio fondo sapienziale delle favole antiche è un abbaglio dell'erudizione seriore, della sua raffinata sottigliezza: in realtà, nessun senso riposto e dotto può dimorare in quelle creazioni primitive, sprovviste di ogni cultura. Sì, gli artefici originari dei miti producono messaggi integralmente metaforici, favole, appunto; ma li percepiscono come integralmente reali, per cui fingono e al tempo stesso credono, fingunt simul creduntque, come suona un'incisiva espressione di Tacito, che Vico assume adattandola alle esigenze della propria analisi. Così la mitopoiesi si risolve in credenza religiosa e come tale promuove la civilizzazione: grazie al timore degli dei, l'umanità primitiva abbraccia il vivere civile, accettandone i necessari vincoli. Un processo che si riproduce, secondo il filosofo napoletano, in tutte le nazioni gentili, mentre non riguarda gli Ebrei, unico popolo non pagano, privilegiato depositario della rivelazione divina: se il paganesimo è favola, la Bibbia è verità.
Quanto del maturo sistema di Vico si ripercuote nelle sue pagine dantesche? Il dantismo vichiano consiste in incisi, accenni, sunti: qualche pagina della Scienza nuova; la lettera a Gherardo degli Angioli (1725), il compendioso Giudizio sopra Dante (dopo il 1730). Il rinnovato gemellaggio fra Dante e Omero acquista adesso un senso del tutto diverso da quello che possedeva in Gravina. Quella rinnovata barbarie che è per Vico il Medioevo, e in particolare il Medioevo italiano, rappresenta un analogo dello scenario dei primordi, generatore di immaginazioni irriflesse e potenti; i due poeti in questione mostrano, infatti, l'energia fantastica propria dei temperamenti primitivi. È acquisizione tutt'altro che indifferente; non sfocia peraltro nell’idea di una mitopoiesi dantesca equiparabile a quella di Omero. Viene registrata, semmai, la comune volontà di una storiografia poetica delle rispettive nazioni. Ma la filosofia di Vico, anche al di là delle intenzioni nutrite dal suo autore, conteneva ulteriori spunti per una lettura non convenzionale dell’opera dantesca; e questi spunti non sarebbero rimasti a lungo privi di sviluppo.
Ripubblicata a Milano nel 1801, in un clima di riscoperta e valorizzazione del filosofo napoletano, la Scienza nuova intercetta, presumibilmente l’anno successivo, l'attenzione di Foscolo; il quale ne trarrà conseguenze radicali, sia per quanto riguarda l'elaborazione di una propria visione storica (com'è risaputo), sia in ordine a un'interpretazione di Dante davvero innovativa (come non sempre si percepisce). Vero è che Foscolo possiede una raggiera aperta di paradigmi, che include anche Machiavelli, i libertini, Hobbes, Hume, Rousseau, Hélvetius. E proprio perché vichiano non ortodosso, può rimuovere senza traumi alcuni veti che l'autore della Scienza nuova si era imposto. Così, fa scattare l'assimilazione della storia sacra alla storia profana, fino a una dilatazione universale della leva poetica e mitica: «grandissimi e veri Poeti» sono, a suo giudizio, «que’ pochi primitivi di tutte le nazioni» che, assunta un'impegnativa responsabilità civile, «la Teologia, e la Politica, e la Storia dettavano co' lor poemi alle nazioni». Stiamo leggendo uno stralcio degli incompiuti Discorsi su Lucrezio, la cui elaborazione si situa tra il 1802 e il novembre 1803. Evidente, nel lacerto appena citato, la lezione di Vico; e insieme la curvatura che le viene imposta. Il processo di civilizzazione attraverso la poesia abbraccia per Foscolo «tutte le nazioni», senza discriminazione tra Gentili ed Ebrei, per cui è teologia poetica anche quella del popolo eletto, consegnata alla Bibbia. A riprova, giungono gli esempi immediatamente prodotti, che abbracciano peraltro anche Medioevo ed epoca moderna: «onde Omero, e i Profeti Ebrei, e Dante Allighieri, e Shakespeare sono da locarsi nei primi seggi».
Su questa base, era lecito il passo ulteriore: assumere la Commedia come opera composta in forza di una coscienza particolarissima, quella di una visione effettivamente ricevuta; coscienza, s'intende, ascrivibile al quadro di una poesia teologica, interamente debitrice, in ogni sua manifestazione — ebrea o greca, antica o medievale - a soggettive inarcature mentali. Doveva passare del tempo perché Foscolo formalizzasse tale conclusione; nel 1824-25, ad ogni modo, il passo è compiuto, e all'interno di uno scritto con ambizioni sistematiche, il Discorso sul testo della Commedia di Dante, sigillo finale dell’intensa riflessione sulla Commedia svolta da Foscolo durante gli anni inglesi. Nel Discorso, la fisionomia con cui il capolavoro dantesco si offriva ai lettori coevi è tratteggiata senza esitazioni, l'intentio auctoris colta con motivata sicurezza: intendeva alimentare, Dante, un progetto di riforma religiosa e civile; e pertanto «le sue rivelazioni de’ regni de’ morti, a riescire potenti sul mondo d'allora, avevano da parere non immaginarie, ma vere». Maggiori cautele circondano un'intuizione ulteriore, presentata a titolo di ipotesi, ma con dichiarata propensione a favore:
Se, come io presumo, il poeta sentisse nell'animo, o solo stimasse utile di far credere, ch'egli era il delegato dagli Apostoli, è uno degli arcani de‘ quali gli uomini perseveranti a meta pericolosa ed altissima, non sogliono mai parlare che alla loro coscienza.
Non va comunque trascurato che questo passo, accanto alla congettura di un'effettiva persuasione dantesca, sta ammettendo, sia pure in subordine, la diversa eventualità dell’artificio, e in questo modo sta rivelando una compresenza di modelli tra loro antagonistici. Per quanto ammiratore della Scienza nuova, Foscolo fino all'ultimo non rinuncia a Machiavelli, e lascia margini alla dottrina dei legislatori e riformatori disposti a unire ideale e calcolo, e pronti a millantare un'ispirazione soprannaturale di fronte a interlocutori non meno superstiziosi che refrattari.
La proposta foscoliana non è deviante (come qualcuno ha sbrigativamente insinuato), semmai fiorisce su un terreno moderno; che, a dirla tutta, non include soltanto una serie di svolgimenti e aggiustamenti teorici a proposito della mito poiesi, ma anche un mutato rapporto degli individui con la storia, specie all’indomani della Rivoluzione francese e del suo dilagare nel continente europeo. Dobbiamo adire, nuovamente, a generalizzazioni su vasta scala, con tutti i rischi del caso, ma in fondo questo è anche un modo per sollecitare, a partire da una conclusione provvisoria, nuove analisi di dettaglio, ad alto grado di precisione. Che la crisi e poi il collasso dell’ancien régime abbiano sollecitato, in ampi strati, una percezione inedita della possibilità di mutamenti sociali e istituzionali, e dunque una sensibilità accentuata per la novità che si fa strada nella storia, investendo e trasformando le macrostrutture, per quanto secolari e sedimentate, è un fenomeno troppo noto perché lo si debba qui sceverare; basterà la postilla che adesso il nuovo non è più demandato a un intervento dall'alto, come nell’escatologismo medievale, bensì attribuito al protagonismo umano, al suo proprio, autonomo impeto, fuori di ogni tutela e sorveglianza. Tanto più che la messa in discussione della religione tradizionale sottrae ogni timoroso stato di minorità. Non per questo viene meno il bisogno di una figura-guida, abilitata a orientare le coscienze. Essa non è più ravvisata, tuttavia, nel sacerdote, che pare soggetto a eclissi più o meno parziale: e a colmare quel vuoto si candidano dapprima il filosofo e successivamente il poeta. Quest'ultimo, rivalutando le lettere, facendone non più, semplicemente, un mestiere, ma un vero e proprio sacerdozio, indossa la nuova veste di mistico e profeta dell'avvenire. Ingente la posta in gioco: surrogare un quadro religioso non più saldo e indiscusso con una devotio alternativa, e ammortizzare in questo modo l'ipoteca della secolarizzazione.
Foscolo è il primo grande scrittore italiano che abbia maturato la sua vocazione letteraria all'indomani della Rivoluzione francese. Un ruolo fondamentale ha certo giocato per lui l'esempio di Vittorio Alfieri, col suo brusco rifiuto del letterato tradizionale, di un ruolo cortigiano e decorativo ormai irricevibile. L'allievo ha potuto spingersi più in là del maestro; e dare il colpo di grazia a una plurisecolare accezione e pratica della letteratura che pure aveva prodotto capolavori di rinomanza europea, in grado di plasmare su larga scala la sensibilità e il gusto. Quel modello aveva fatto il suo tempo. E non per caso, è lo stesso Foscolo, sulla scia di Alfieri e al buon fianco di Vincenzo Monti, a farsi co-promotore delle nuove fortune di Dante, dopo la lunga sottostima che il classicismo nostrano, dal Cinquecento in poi, aveva riservato all'autore della Commedia, privilegiando come vertice assoluto la lirica di Petrarca. Agli esordi della produzione foscoliana campeggia l'ode A Dante; e più di una volta il grande medievale verrà evocato nei capolavori dell'allievo della Rivoluzione, il quale aspirava a una formula attuale di poesia promotrice di nuova socialità. Ora, questo scrittore era anche un critico, e come tale avrebbe concluso la propria carriera. Non meraviglia che il suo ultimo Dante sia appunto il poeta-profeta, fautore di una nuova società da annunciare e suscitare con una letteratura intrisa di sacro, e proprio per questo incisiva politicamente.
L'imporsi di un vero e proprio culto di Dante nella temperie risorgimentale e quindi nei primi decenni dell'Unità, quando le statue accigliate dell'esule e servitore dell'ideale si moltiplicavano nelle piazze della penisola, non comportò automaticamente un successo dell'indicazione foscoliana, secondo la sua integralità e radicalità. Foscolo, certo, fu largamente assecondato per il parallelo fra Dante e Petrarca, per la valorizzazione dell'elemento passionale nei personaggi della Commedia, per l'accento sull’ira anticuriale del ghibellino in fuga; ma non altrettanto per il profilo del profeta insignito in excelsis di un mandato riformatore. Garbato ma fermo dissenso espresse subito il Monti, proprio il sodale che aveva contri buito, e non poco, al rialzo delle azioni dantesche. Quanto al De Sanctis, sensibile per tanti versi al dantismo foscoliano, non lo fu riguardo a questo punto; né mostrarono maggiore disponibilità gli esponenti della scuola storica. Rispetto agli accertamenti storico-eruditi, rappresentò uno scarto Giovanni Pascoli, per la sua sintonizzazione con il versante teologico e mistico della Commedia; nemmeno lui, comunque, volle riaprire un dossier che rimaneva inascoltato. Lungo le mille e più pagine della trilogia inaugurata da Minerva Oscura e coronata da Sotto il Velame e La Mirabile Visione, nel segno di un transito ermeneutico dall'enigma alla rivelazione conclusiva, Pascoli aspirava a sciogliere altri arcani; non senza nutrire la convinzione che il proprio approccio fosse inedito, senza precedenti di sorta. In ogni caso, il focus era per lui il sistema morale della Commedia, alfa e omega di un'inchiesta che doveva convergere (e sfibrarsi) sulle corrispondenze, più o meno strette, tra lo schema etico della prima cantica e quello della seconda, nonché sulla presunta conversione del pellegrino dalla vita attiva alla vita contemplativa. Solo di sfuggita Pascoli toccava la nozione dantesca della storia della salvezza; contrassegnata, a suo giudizio, da una redenzione poco incisiva — «per la maggior parte degli uomini Gesù si è incarnato invano e invano è morto sulla croce» - e perciò bisognosa del soccorso dell'Impero. «In verità c'è bisogno della autorità imperiale a confermare, per così dire, la redenzione». Cenno tutt'altro che anodino, nella sua eccentricità; ma per il momento, senza elaborazione degna di nota.
Notevole, invece, ai nostri fini l'apporto di Luigi Pietrobono; allievo e amico del Pascoli, come si sa, e magari disposto a riprenderne i sentieri interrotti, ma sostanzialmente autonomo e ben in grado di piegare, se necessario, in altra parte. Tant'è: nella cospicua indagine intitolata emblematicamente Il poema sacro - ma ad enfatizzare l'aggettivo piuttosto che il nome - egli asserisce con tutta franchezza che «si è perso tempo a discutere se l'ordinamento morale del Purgatorio corrisponda a quel dell'Inferno»; e l'addebito, pur evitando di individuare i bersagli, non può non coinvolgere anche Pascoli, assieme ai suoi avversari. Pietrobono si dissocia da tutto un dibattito incapace di sorprendere il cuore del mondo di Dante: «non si è capito che il criterio del Poeta non fu soltanto morale, ma storico». E infatti, di un poeta assai singolare si trattava, che senza cessare di esser tale si era annesso in sovrappiù «il carisma di profeta», e nelle Sacre Scritture, suo abituale nutrimento, aveva cercato «il corso della storia universa». Inquadratura intrigante, specie in un libro che appariva alla vigilia della grande guerra. Pietrobono, del resto, non fa di Dante un oracolo situato alle origini, intento a fondare una società, a darle, attraverso leggi e statuti, una fisionomia matura; e nemmeno un riformatore a capo di una successiva transizione, che si scioglie da un assetto ormai esaurito per accedere a un altro più compiuto e sublime. Quelle sagome non sono nelle sue corde. Egli scorge, piuttosto, nella Bibbia veggenti costernati, intimamente oppressi dal malcostume imperante, dalla deriva di un'intera compagine sociale; tali si rivelano ai suoi occhi i profeti dell'Antico Testamento, si tratti di Isaia, di Geremia, di Ezechiele. Il diagramma storico che questo studioso ricava dalla Sacra Scrittura non prevede, insomma, un progressivo innalzamento verso mete sempre più fulgide, bensì il precipitare da un culmine originario in un abisso di desolazione. La stessa prospettiva messianica nasce, a suo giudizio, da questa perdita immane e umanamente irrimediabile, che solo un inviato divino è in grado di sanare.
La Commedia è a sua volta un convulso e affranto verbale del declino. E Pietrobono riepiloga la diagnosi dantesca con una formula a effetto, anche se teologicamente assai improbabile: il poema avrebbe certificato una vera e propria reiterazione del peccato originale, da cui gli effetti a catena di dissesto. Artefice della nuova caduta l'imperatore Costantino, con la sua generosità verso papa Silvestro; malintesa, catastrofica generosità, a detrimento di Impero e Chiesa, e per conseguenza di tutto l'umano consorzio. Il discepolo di Pascoli sfruttava così il seme deposto ma non coltivato dal maestro: la presunta fragilità dell'opus Redemptionis e la funzione imprescindibile devoluta all'autorità imperiale. Beninteso, quel motivo germinale è rimodulato: Pietrobono tiene a precisare che, nell'orizzonte dantesco, la croce di Cristo basta da sé, senza ausilio dell'Impero, a schiudere la salvezza ultraterrena, e che questa autonoma efficacia non viene mai meno. Rimarca vigorosamente, ad ogni modo, che la salvezza terrena, insomma la beatitudo huius vitae, secondo l'espressione della Monarchia, dipende dalla guida politica del genere umano; il che riuscirebbe senz’altro in accordo con la consueta ricezione di Dante, se non fosse per l'aggiunta che la Donatio Constantini ha rinnovato la colpa di Adamo. Uno sviluppo, va detto, a cui Pascoli non aveva mai pensato; ma l'enfasi di Pietrobono sulla gravità dell’offesa all'Impero può risentire in parte della pascoliana cooptazione dell'Aquila a sostegno della Croce. Fatto sta che con la Donatio l'umanità è ripiombata nelle condizioni in cui si trovava prima della redenzione. Che questo sia il parere di Dante risulterebbe dai canti finali del Purgatorio: se la pianta dell'Eden è stata derubata due volte (come il testo dantesco, in effetti, denuncia), ebbene il primo rubamento è il peccato dei progenitori, il secondo la Donazione di Costantino (come è molto dubbio che Dante intenda dire). Madre di tanto male, la liberalità del primo imperatore cristiano verso il primo ricco padre. Ma il male non può essere l’ultima parola della storia, e un secondo riscatto si prepara: «La nuova redenzione è decretata, il poeta, che deve annunziarla, già scelto».
L’antagonista di Pietrobono in memorabili duelli, Michele Barbi, colpì questo punto nevralgico e - va pur detto - non mancò di fiuto, individuando il velen dell'argomento, il vulnus a una corretta idea della redenzione e della coscienza che Dante ne aveva avuto. Secondo Barbi, andava denunciato un duplice fraintendimento: da un lato, si pretendeva che un effettivo riscatto dovesse azzerare meccanicamente ogni fomite al peccato; dall'altro, si assegnava un peso iperbolico alla Donatio, corruzione della stessa natura umana. Due errori, in fondo, solidali: se la redenzione è annullamento di ogni spinta al male, allora un male di nuovo dilagante implica la vanificazione dell'economia redentiva. Ma come attribuire a Dante simili abbagli? Barbi si ergeva a quell'epoca come vigile custode di una corretta falsariga ermeneutica: con la stessa perentorietà rintuzzava, ad esempio, le fughe in avanti di Alois Dempfe di Ernesto Buonaiuti, i quali avevano spinto l’annuncio dantesco in direzione gioachimita, fino ad accreditare una parziale coincidenza con la teologia dell'abate da Fiore e la sua attesa della terza età sotto l'egida dello Spirito Santo. Sbandamenti e aberrazioni, postillava il direttore dei severi «Studi Danteschi».
A difesa del Pietrobono doveva però intervenire un medievista come Bruno Nardi, mettendo a servizio della causa il suo arsenale di competenze, l’acribia appuntita e, last but not least, la verve di irruento polemista. Nel saggio Dante profeta - pubblicato (è un caso?) nei primissimi anni Quaranta - Nardi volle però guardarsi da un eccessivo slittamento “a sinistra”; si dissociò, pertanto, anche lui dagli sfondamenti di Dempf e di Buonaiuti, escludendo una compromissione forte del poema dantesco con la dottrina di Gioacchino, il suo eversivo spiritualismo, il suo comunismo anarchico. Un verdetto motivato da imparziale rigore storiografico; eppure assai utile a coprirsi le spalle e riguadagnare apprezzabili margini di manovra. Allontanata dall’orizzonte dantesco l’ipoteca del terzo stato del mondo, era possibile tornare a leggere la Commedia come deplorazione di un gravissimo sviamento e annuncio di una seconda redenzione. Doveva essere ormai chiaro: quella tesi non implicava una subordinazione dell'economia del Figlio a un'economia successiva e superiore — prospettiva irreperibile in Dante —, bensì l’avvertimento di una crisi eccezionale, in grado di compromettere l’opus Redemptionis se Dio non fosse prontamente intervenuto. Non intendeva proporre, Nardi, una Commedia gioachimita; semmai un poema in ansia per una degradazione da medicare con urgenza. Poema in parte prossimo, dunque, alle correnti rigoriste, nell’avversione al temporalismo ecclesiastico, nell'ideale di un cristianesimo evangelico e povero; ma sostanzialmente originale per la valorizzazione della humana civilitas e della sua ossatura politica. Se un precursore di Dante esisteva, non portava il nome di un frate pauperista, e magari diffidente verso l’Imperium, bensì quello di Arnaldo da Brescia.
Ma non è una messa a fuoco di contenuti a determinare la notorietà del contributo di Nardi; bensì la rivendicazione della forma del messaggio dantesco. Due le carte giocate su questo tavolo: l'esclusione di un significato secondo, di un costante, statutario allegorismo della Commedia, i cui passi allegorici sarebbero invece pochi e ben delimitati; l'innalzamento del poema a effettivo resoconto di un contatto con l'aldilà e di una investitura da parte di Dio stesso, in vista di una pubblica missione di annuncio. Evidente la connessione tra queste mosse. Additare una dorsale allegorica da un capo all’altro del testo, un senso riposto che relativizzi la lettera, significa - ecco il cave di Nardi — mettere fuori gioco l'ambientazione escatologica, farne il pretesto per una rassegna di vizi e virtù, e significa ancora mortificare l'eccezionalità del protagonista, ridotto a sbiadito rappresentante dell'umanità posta tra bene e male, insomma a un manichino privo di vigore, che da sé non sta in piedi. Occorre, al contrario, distruggere l'impalcatura del duplice senso, svelarne la natura posticcia e allotria; si potrà recuperare, allora, tutta la statura del pellegrino dei tre regni, personalità eccezionale, profeta al pari di quelli biblici, e come tale depositario di una visione soprannaturale, a beneficio di contemporanei confusi e sbandati.
Nardi, in questo modo, ritrovava il percorso di Foscolo. E non lo intimoriva che a sbarrargli il passo ci fosse l’auctoritas ostile di Benedetto Croce. Nella monografia dantesca pubblicata per la ricorrenza del 1921, Croce aveva accreditato la dimensione poetica della Commedia, delimitandola però drasticamente, a norma del sistema filosofico dei distinti. Ed era inevitabile che su questa direttrice si stabilisse una dicotomia perentoria tra il poeta e l'uomo di fede. Croce anzi re: spingeva e irrideva ogni attribuzione a Dante di una effettiva visione, incauta of: fesa a quel genio, immissione di una «troppo grande mistura di demenza» nella «limpidezza e consapevolezza della mente e dell'animo di lui». Nardi aggredì frontalmente l'ostacolo, e spinse il suo contrattacco fino a escludere qualsiasi assunzione della Commedia come finzione letteraria, condannando con pari energia tanto un'antica e radicata prudenza, volta a smussare oltranze ecclesiologiche, quanto il distinzionismo di primo Novecento, in cerca di pure essenze estetiche, al di qua dell'impegno ideologico e morale. Vero è che la remora crociana non restava senza effetto; costringendo se non altro Nardi a chiarire la portata di un disegno ermeneutico tutt'altro che ingenuo e fideistico. Non è questione, egli puntualizza, di difendere la realtà effettuale di un accostamento al divino: lo storico deve assestarsi su un altro livello, comprendere il fenomeno che ha di fronte secondo il suo dinamismo interno, illuminando la coscienza di sé nutrita dallo scrittore:
Si deve dunque credere colle donnicciole di Verona, che Dante scendesse davvero all'inferno, e davvero salisse all'Empireo? Non precisamente questo; bensì che Dante credette gli fossero mostrati in visione l'Inferno, il Purgatorio, il Paradiso terrestre, come veramente sono nella realtà; gli fosse concesso per grazia [...] vedere il trionfo di Cristo e [...] pregustare la beatitudine eterna.
Non è difficile accorgersi che, in questo modo, Nardi supera anche l’esitazione di Foscolo, per il quale si doveva certo riconoscere che l’autore della Commedia si presentasse come titolare di una visione, ma era opportuno lasciare insoluto se tale egli davvero si credesse. Cosa permette di abolire questa sospensione del giudizio? Nardi si appella a un'ottica integralmente storica, in asse con la mentalità e sensibilità di una temperie ben determinata. E ne ricava ragioni per la stessa tenzone con Croce e i suoi residui di antistoricismo illuminista: ad applicare un atteggiamento del genere al fenomeno religioso bisognerebbe definire dementi Mosè, Geremia, Ezechiele, Paolo e Giovanni, nonché Maometto e Zarathustra.
A questo punto, la replica a Croce si è insensibilmente spostata, e più che insistere sul rapporto fra poesia e religione (come ambito sovradeterminato, inclusivo del profetismo), sta ormai affrontando il rapporto fra religione e filosofia. Tra le righe dell'argomentazione crociana c'era in effetti un certo modo di impostare quel nesso. Dobbiamo ammetterlo: se don Benedetto avesse solo nutrito la preoccupazione di salvaguardare la poesia dantesca (s'intende, come pura lirica), si sarebbe potuto limitare al filtraggio di ogni elemento dottrinale ed etico. Perché, dunque, quell'affondo sull’attentato alla «limpidezza» della mente di Dante? Il fatto è che Croce è fermo a una rigida antinomia fra il mito o universale fantastico (la religione) e il concetto puro (la filosofia). Obietta, di rimando, Nardi che una simile polarità è insussistente, e che in ogni presunto superamento, in ogni supposta transizione da un'illusione mitica a una concezione filosofica è in gioco, in realtà, uno scontro tra due concezioni: non è che la filosofia superi la religione, semmai una concezione ne supera un’altra, senza per questo liberarsi da ogni traccia di mitologismo e adeguare una volta per tutte la presunta trasparenza di un concetto scevro di opacità. Quando si aggancia Dante al profetismo, si torna dunque a inserirlo nella vicenda delle idee, abbattendo ogni pregiudizio di stampo volterriano, inetto a intendere l'universo della religiosità.
Furono di vario tenore le reazioni alla sfida di Nardi. La maggioranza degli addetti oppose un diniego, riaccreditando la tesi della fictio e dell'allegoria dei poeti. Più complesso l'atteggiamento di Giorgio Padoan, il quale aveva fruttuosamente frequentato Nardi e a lui doveva dedicare un importante volume di studi danteschi. Da un lato, Padoan accolse la promozione della Commedia ad autentica visione, fino a trovarne conferma nell’Epistola a Cangrande, che a suo dire accertava la realtà del viaggio oltremondano di Dante. Dall'altro, osservò che la Commedia era opera composita, costituita da elementi non omogenei, e intrisa sì di spiritualità, ma al tempo stesso condizionata dalla tradizione letteraria: un «poema sacro», appunto, secondo un sintagma da ricevere integralmente, dove “sacro” richiama senza dubbio «una visione voluta dal Cielo», ma “poema” sottolinea la «forma letteraria», dovuta all'autore umano e non al dettato divino.
Da parte sua, Nicolò Mineo volle tentare una sistemazione complessiva che valutasse il ruolo del profetismo nell'intero edificio della Commedia, non senza verifica del rapporto tra l'attuazione dantesca e i paradigmi preesistenti. L'impresa fu affrontata in una monografia dei tardi anni Sessanta: un'epoca con valore di svolta - e per più motivi - nella cultura e, in genere, nella società europea. Intensa era la dialettica fra lo strutturalismo, coi suoi modelli acronici e comprensivi, e una tradizione storicistica vivacizzata da un nuovo slancio; mentre l’intera scena sociale incitava aspettative di trasformazione globale, da costruire attraverso un protagonismo diffuso. Assumendo l'esigenza, allora pressante, di una lettura attenta all'organizzazione del testo e facendola incontrare con la tradizione di studi danteschi culminata nella lezione nardiana, Mineo individuava lo «strato di base» della Commedia proprio nell'elemento profetico. Non una struttura nascosta 0 persino inconsapevole: in Dante c'era stata una chiara volontà di organizzazione, riscontrabile intanto nel carattere composito di questo medesimo strato, da definire più precisamente profetico-apocalittico. Il poema dantesco integra infatti due filoni; contrassegnati entrambi dalla proiezione verso il futuro, dal racconto di visioni, dal messianismo, dal linguaggio simbolico; ma aventi poi tratti propri, da un lato l'invettiva, la minaccia, l'invito a conversione (profetismo), dall’altra l’escatologismo trascendente, il viaggio oltremondano, la premonizione di un traguardo collettivo (apocalittica). L'alta ingegneria dantesca realizza insomma un miracolo di fusione senza residui, anche se può giovarsi di precedenti significativi in cui i due generi erano entrati in contatto (ad esempio, l’Apocalisse di Giovanni). C'è poi, nella Commedia dantesca, un livello ulteriore di dialettica e di sutura, quello tra l'asse profetico-apocalittico e le altre componenti, in primis la componente ascetica. Nell'esame di questo aspetto, Mineo mostra la possibilità e l'opportunità di reimmergere le strutture nel tempo e di rilevare così il loro carattere storico, che ne fa l'esito di una progressione e stratificazione diacronica, per apporti successivi. Una purificazione individuale è certo reperibile presso i profeti veterotestamentari, ma viene esaurita in tratti essenziali. Doveva essere il cristianesimo a incrementare il sondaggio dell'esperienza personale di peccato e grazia, infermità e rinascita, fino all'elaborazione, nel Basso Medioevo, di percorsi accuratamente scanditi in tappe, secondo la convinzione che la conversio non fosse un fenomeno istantaneo, ma richiedesse una graduale, paziente progressione. Dante recepisce questo apporto, articolando il viaggio oltremondano sulla base dei gradi ascetici delimitati e disposti in serie dalla spiritualità del suo tempo. Ma sussiste un'apprezzabile relazione tra vettore ascetico e vettore profetico? La scommessa di Mineo è postulare, anche a questo riguardo, un'organicità: il primo vettore, senza perdere per questo la sua importanza, è in vista del secondo, poiché il rigetto del male e la progressiva acquisizione delle virtù rappresentano per il protagonista la condicio per l’accesso alle rivelazioni: «il tema penitenziale [...] è subordinato a quello profetico, che lo annuncia nei primi canti dell'Inferno e lo conclude alla fine del Purgatorio».
L'aggancio della Commedia a un paradigma sostanzialmente biblico, anche se inclusivo dei testi extracanonici, nonché della produzione classica, non lascia affatto nell'ombra un decisivo coefficiente poetico. Intanto, Mineo ha ben presente il fatto che il capolavoro dantesco va a innestarsi in un alveo letterario, più precisamente in una letteratura nazionale ancora agli inizi, che da quel capolavoro riceve un timbro indelebile. Mentre le altre letterature in volgare sono inaugurate di norma da testi epici, dove lo scrittore si immedesima coi valori di una collettività e se ne fa l’araldo, la letteratura italiana, quando ha solo un secolo di vita, si ritrova qualificata da un poema religioso, portatore di una differenza rispetto al quadro istituzionale. Non per caso, il protagonista non è qui l'eroe in terza persona di una saga militare, bensì lo stesso autore, il quale si affida all'autodiegesi per proporsi quale personaggio-poeta. Come interagisce, costui, col suo alter ego, col personaggio-profeta? Per la verità, Mineo sostiene l'identità delle due figure, piuttosto che la loro convergenza: Dante ha creduto che i grandi vati, a differenza dei comuni versificatori, sono prediletti da Dio e ammessi ai misteri dell'aldilà, come nel caso paradigmatico di Virgilio. Si annida qui la ragione di un'intrigante assenza nel metalinguaggio dantesco, pur così ricco e articolato. Dante non si è mai definito profeta, il che riesce una pietra d'inciampo per le inquadrature che lo riconducono a quella tipologia. Una prima spiegazione si presenta: agirebbe in Dante la coscienza dei confini del proprio annuncio, non una rivelazione sul dogma, e tanto meno l'inaugurazione di un nuovo patto, di una inedita economia religiosa, bensì il bando di una restaurazione morale e sociale. Ma pare risolutiva una diversa pista. Dante non si avverte veicolo passivo di un messaggio che lo trascende interamente, ma co-produttore di quel messaggio: egli è in possesso «di scienza e dottrina dialetticamente acquisite, di più affinati strumenti espressivi e di metodi più complessi di composizione». Incarna appunto, come già Virgilio, il tipo del vate sublime che, in quanto tale, è depositario di veggenza, ma è inoltre titolare di cultura e stile.
Dato il taglio della sua indagine, Mineo aveva volutamente escluso i contenuti dell'annuncio dantesco. Su di essi puntava invece un altro studioso, Raoul Manselli, anche lui, peraltro, attivo sul fronte dantesco a partire dagli anni Sessanta, che ci appaiono sempre più come una fase intensamente produttiva delle ricerche intorno al nostro argomento. Storico di formazione e di mestiere, indagatore partecipe dei movimenti religiosi del Medioevo, sulla scia del suo maestro Raffaello Morghen, che vi aveva dedicato sondaggi memorabili, Manselli approdava a Dante dopo una serie di ricerche sugli Spirituali francescani, la frangia rigorista tenacemente ostile all'evoluzione dell'Ordine fondato dal santo di Assisi. E già allora, l'eroe di Manselli era Pietro di Giovanni Olivi, il frate minore che aveva unito approfondimento teologico e attivismo pauperistico, fino al capolavoro ermeneutico e militante dei suoi ultimi anni di vita, il commento all’Apocalisse di Giovanni. Il progetto di Manselli sarà allora stabilire un gemellaggio tra Olivi e Dante, accomunati - ecco il credo che questo ricercatore coltiva - da una medesima diagnosi sui trascorsi della Chiesa e sul suo polso attuale, nonché da un'attesa assai simile, imparata sulle pagine del Nuovo Testamento e, in particolare, del suo ultimo e profetico libro. Non per caso, il primo contributo di Manselli rispondente a questo piano reca il titolo Dante e l’«Ecclesia spiritualis», attribuendo d'emblée al poeta l'ideale normativo dei francescani rigoristi, criterio della loro condotta e orizzonte per il loro aspro cammino, fra calunnie e persecuzioni. Per sua esplicita ammissione, Manselli riparte dal conflitto che aveva opposto Buonaiuti e Barbi; assai critico verso il secondo, si rende conto peraltro che l'ipotesi di Buonaiuti, quella ardita proposta di un Dante cantore del gioachimismo, non è riproponibile come tale. Ambisce allora a guadagnare spazio per un diverso tandem, che sembra maggiormente autorizzato dai testi. Il trait d'union sarebbe appunto l'ideale ecclesiologico di Olivi (e del dissenso francescano): «di questo ideale Dante, per quanto riguarda il suo mondo religioso, condivise senza dubbio alcuni degli elementi fondamentali». Primo, e più importante di tutti: «l'esigenza della Chiesa povera». Posta in questi termini, la tesi pareva ampiamente ricevibile; e fu in effetti ricevuta e a lungo ribadita dai dantisti, comprensibilmente rispettosi di un esperto con competenze in un ambito assai specifico. Per un difetto (non raro) di comunicazione tra settori scientifici, questo consenso fu ben più duraturo di quello che gli stretti colleghi di Manselli tributarono alle sue tesi su Olivi e sul discepolo di lui Ubertino da Casale. Emerse infatti che i due francescani, pur connotando la futura età dello Spirito con il tratto della povertà evangelica, finalmente diffusa nell'Ordine e nella Chiesa tutta, non avevano per questo sottratto a quell'epoca straordinaria ingredienti tipicamente gioachimiti, come l'insegnamento diretto dello Spirito a ogni credente, l'accesso faccia a faccia alla verità e l'instaurazione ecumenica di un regno di libertà e di pace, esente da costrizioni e conflitti. Presso Olivi e Ubertino, l'Ecclesia spiritualis del terzo stato del mondo non è soltanto povera, è inscindibilmente contemplativa e giubilante, aliena da ogni responsabilità (ormai superflua) di istruzione e direzione, esclusivamente assorta in una visione e in una gioia che quasi coincidono con quelle paradisiache. L'asimmetria rispetto a Dante riesce di tutta evidenza.
È prudente arrestare a questo punto la nostra rassegna; che dovrebbe altrimenti inoltrarsi in zone troppo prossime, smarrendo quella distanza indispensabile per riconoscere valori effettivi, linee di tendenza, raggruppamenti più o meno omogenei e tentare con qualche possibilità di riuscita un quadro non arbitrario. Occorrerà ancora del tempo per ricondurre a un diagramma fungibile apporti come quelli di Guglielmo Gorni, Mirko Tavoni, Teodolinda Barolini, Maurizio Palma di Cesnola, Lino Pertile, Amilcare Iannucci, Giuseppe Ledda, Robert Wilson, Elisa Brilli. L'argomento, per la sua riconosciuta centralità, è intersecato del resto da molti altri ricercatori, che sarebbero a loro volta meritevoli di menzione. Ma lo dicevamo: è proibitivo render giustizia a una situazione ancora magmatica e non sedimentata e occorre evitare la pretesa di una sistemazione che, con tutta la buona volontà, sarebbe comunque parziale e lacunosa, ben più di quella tentata, chissà con quali esiti, nei paragrafi precedenti.
Se non è dato seguire in maniera ragionata il contrappunto delle ricerche, si può nondimeno dar conto di qualche singola nota, che impressiona per lo scarto rispetto ad atteggiamenti in apparenza consolidati. Ci interpella intanto la proposta di Umberto Carpi, proposta non afferente in maniera diretta al nostro terreno, eppure espressione di un modo di leggere Dante che, per le sue implicazioni, non può non riguardarci. Interessa a Carpi il rapporto fra l’attività politica di Dante e la sua attività letteraria; rapporto che sarebbe assai stretto, con ricadute quasi immediate della prima sulla seconda. È con lente minuziosa, dunque, che Carpi prende a svolgere circostanziati rilevamenti biografici, puntando soprattutto sulla militanza del cittadino e dell’esule, assecondata nelle sue pieghe minute; del resto, «il rapporto di Dante con gli eventi della politica è serratissimo, una reattività quasi giorno per giorno alle contingenze». Le risultanze non valgono certamente a incrementare una fama di eroismo, un'antica leggenda di sapore agiografico; al contrario, mettono in discussione l'effettiva linearità di una condotta e di una ideologia, meglio, contestano l'irreversibilità delle svolte ideologico-politiche, svolte che erano magari note a critici e lettori in genere, ma si ritenevano definitive, non soggette a ripensamenti, e perciò non lesive di una sostanziale fermezza. Non sempre è così, avverte Carpi. Negli anni fra la battaglia della Lastra e l'avventura italiana di Arrigo VII, grande ed effimera illusione, Dante ha patito incertezze e ondeggiamenti, fino a tornare sui propri passi, contraddirsi apertamente e pubblicamente. La primitiva adesione dell'uomo di partito all'alleanza tra nuovi e vecchi fiorentini in esilio, tra l'Universitas alborum e gli sbanditi ghibellini — adesione ufficiale e con ruoli non indifferenti - entra a tal punto in crisi dopo le sconfitte militari da suscitare in lui non solo la decisione di far parte per se stesso, ma un clamoroso pentimento, che aspira a una riconciliazione col partito dei Neri, al potere in Firenze. L'attività poetica ne è vistosamente condizionata: oltre a riversarsi nell’epistola (perduta) Popule mee, quid feci tibi?, passo formale verso i governanti fiorentini, il pentimento pervade la canzone Tie donne intorno al cor mi son venute e innerva inoltre «tutta la fabula infernale». È così che nasce un Inferno guelfo; e si badi, guelfo non perché lambito da residui dell'antica militanza nella pars Ecclesiae, ma in quanto nato da un revirement rispetto a un recente posizionamento filoimperiale, benché questa inversione sia più tattica che ideologica. Ben diverso il Purgatorio o, più precisamente, la sua seconda parte, che accompagna la discesa sfortunata, main un primo tempo assai promettente, di Arrigo VII in Italia.
Non commenteremo, in questa sede, l'angolazione di Carpi e nemmeno le sue conclusioni, che abbiamo del resto annoverato scorciando e semplificando non poco; ci limiteremo a constatare lo sgretolamento di un profilo di saldezza e imperturbabilità tramandato fiduciosamente nei secoli, e ancora la desublimazione di una poesia già avvolta da un alone auratico, e adesso sorpresa nel suo reagire a caldo, con inevitabili incongruenze, ai vari stimoli di una histoire événementielle assai mossa e accidentata.
Senza convergere su tutti i dettagli di questa analisi, si mostra però assai prossimo alle sue premesse di metodo e alla sua falsariga Marco Santagata, che traccia a sua volta, nella biografia-ritratto Dante. Il romanzo della sua vita, l'identikit del pentito, quale Dante sarebbe stato a partire dalla primavera 1306. Dopo il fallimento delle guerre mugellane, dopo il primo grave scacco subito dal cardinale Orsini - impegnato nell'impresa improba di mediare tra le fazioni fiorentine e ben presto inviso ai Neri, nonché ai guelfi di Bologna, che lo cacciano da quella città nel maggio 1306 - Dante concepisce la soluzione della richiesta di amnistia inuno stato d'animo particolare. «Un'idea simile può nascere solo dalla disperazione»; quando appaiono chiuse «tutte le strade che potevano riportare a Firenze». Quanto all'esibito pentimento, esso era «forse insincero»: più che la sofferta autocritica di chi riconosce il proprio errore, una mossa con forte componente strumentale. Il reo confesso dimostrava più che altro «quanto dolorosa gli fosse la condizione di esule e come il desiderio di porvi fine [...] fosse in lui incoercibile». Fatto sta che il tentativo determina la facies della prima cantica, finalizzata a offrire «un autoritratto di guelfo leale», a garanzia di una «fedeltà ai valori di Firenze». Concepire un capolavoro a partire da «esigenze contingenti» e in vista di «obiettivi pratici»: anche questo è tipico di Dante. Certo, quando egli scrive le altre due cantiche, lo stimolo non è più quello di tornare a Firenze con un attestato di guelfismo; eppure, a sollecitare la stesura concorrono pur sempre, in percentuale tutt'altro che irrisoria, istanze concretissime di un umano troppo umano. Tanto che Purgatorio e Paradiso attestano in filigrana i passaggi di schieramento politico del loro autore, nonché le migrazioni da un protettore all’altro, magari nemico del precedente.
Questa, certo, è solo una faccia della medaglia, quella in ombra, segreta, per certi aspetti inconfessabile. Vi è poi l’altra faccia, in piena luce: un autobiografismo come elevazione e celebrazione dell'io, autobiografismo che costituisce il filo rosso dell'intera produzione dantesca e, traversando testi letterari e non letterari, approda infine alla Commedia, l'opera più di ogni altra condizionata dall'esigenza che Dante nutre di parlare di sé, del proprio vissuto, di eventi e iniziative, degli ideali maturati, della singolare vocazione. Contrassegno di questo soggetto costantemente in primo piano, l'eccezionalità; vesta egli i panni dell'amante, del poeta, del trattatista, del cittadino intrepido sulla breccia e poi dell’esule perseguitato con incredibile accanimento. Quel furore, del resto, dimostra che la vittima possiede una statura spirituale superiore alla norma. A incrementare l’effetto di rilievo sta la tattica dantesca di cooptare realtà e finzione, dati referenziali ed elementi di fantasia, azzerando ogni distinzione fra gli uni e gli altri, resi senz'altro complanari. Tanto che parlare, come si fa tradizionalmente, di Dante personaggio riesce inadeguato: categoria più rispondente è quella di «arcipersonaggio», un’entità che riconduce a sé «tutte le scritture nelle quali si manifesta», abolendo perciò, con le differenze di genere letterario e di impianto discorsivo, «anche quelle primarie tra storia e invenzione, verità e menzogna».
Ebbene, Santagata conduce queste acquisizioni fino alla grande problematica del profetismo. La Commedia comporta «la costruzione di un personaggio autobiografico dotato di carisma profetico». Inevitabile una professione di agnosticismo sull'intimo orientamento di una coscienza che ci rimane inibita: «È impossibile stabilire se Dante si sentisse realmente un profeta». In compenso, si può senz'altro riconoscere la modulazione profetica di un dire che si pone come frutto di ispirazione trascendente: «è innegabile, però, che nella Commedia egli si proclama tale [i.e. profeta] più volte», non perché ha il privilegio «di leggere nel futuro e di predire gli eventi», ma perché «può riferire ai vivi i vaticini ascoltati nel mondo ultraterreno». Cacciaguida e san Pietro, nel Paradiso, «lo investono esplicitamente di quel compito», e se l'investitura riguarda propriamente il personaggio e non l'autore, è anche vero che la Commedia costituisce il compimento dell'incarico ricevuto, per cui «l'investitura data al personaggio finisce per ricadere sull'autore stesso». Il peso specifico del presunto mandato celeste non si può ovviamente sopravvalutare, visto che le parole del trisavolo e quelle del principe degli apostoli sono interne alla fictio; un segno oggettivo, nondimeno, viene offerto, la rottura del fonte battesimale su cui Dante si sofferma autobiograficamente in Inferno XIX, non senza insinuare l'analogia di quella effrazione con un analogo gesto del profeta Geremia.
Ma questo è il recto luminosamente intonacato; a cui in segreto aderisce un verso di ben altro tenore. Il profeta che si erge sul piedistallo di un’elezione divina cela il disperato pronto a rinnegare convinzioni e compagni di strada pur di rientrare nella città natale; accanto al giudice dei vivi e dei morti, con le sue imparziali sentenze, sta il vagabondo senza fissa dimora, in attesa di offrire encomi e visibilità a protettori più o meno ospitali. Naturalmente, i due aspetti vanno colti nella loro dialettica: il senso della personale diversità che Dante nutre, persuaso com'è della propria eccezionale levatura, può essere «una sorta di reazione a un disagio», per cui «una sensazione di inadeguatezza» si rovescia «in una perfino spropositata affermazione di sé». La volontà di mettere al centro il proprio io avrebbe, dunque, una radice di traumi. Il che spiegherebbe la tenacia di questa vox clamantis in deserto di fronte alle smentite, sempre più ingenti, della storia:
Il fatto che la voce profetica diventi più nitida e ferma proprio in corrispondenza della grande delusione subita con il fallimento di Enrico VII corrisponde bene a quanto intuiamo del carattere di Dante, del suo modo di reagire alle sconfitte, della sua volontà di rovesciare la realtà proiettandosi nel futuro. Il che può essere, se si vuole, un modo di sfuggire la realtà.
Lucidità fino alle estreme conseguenze, quella di Santagata. Che rende al meglio una certa atmosfera attuale, avversa a ogni mito (anche laico), corrosiva, demistificatrice, fonte di disincantamento e sconsacrazione. Un ciclo inaugurato agli albori dell'Ottocento sembra, almeno per Dante, ormai al termine: l'antica ammirazione per un eroismo stagliato sulle avversità e sempre confidente, anche sotto la pressione dei momenti più oscuri, quell’entusiasmo che sconfinava nel culto, orientando sottotraccia le dissertazioni accademiche in apparenza neutrali e qualche volta increspando la loro superficie usualmente uniforme, tutto questo cede adesso all'accertamento di un'autopromozione tanto velleitaria quanto ostinata. Del profeta, allora, potrà sopravvivere al massimo il visionario, il quale si illude di possedere il corso degli eventi, per rivelazione dall'alto o personale forza di anticipazione, e mentre si confessa o si finge inviato, nasconde agli altri e a se stesso il regolare scacco di ogni suo avviso ante eventum, aggiornando faticosamente premonizioni che non si verificano, buone novelle senza riscontro? Le pagine di Carpi, di Santagata - e di qualche altro studioso con analoghe inclinazioni - non costituiscono di necessità il prosciugamento di un tema critico, possono rappresentare invece l'incentivo per una sua ripresa non fideistica. Un antidoto era necessario rispetto alla promozione indebita di un intellettuale a leader religioso, come pure di un poema a nuova Bibbia, operazioni magari generose ma (quanto meno) iperboliche, destinate perciò a patire, prima o poi, l’'inevitabile, impietoso rovesciamento. Nella felice Dante renaissance seguita a secoli di svalutazione, c’è dunque qualcosa a cui dobbiamo rinunciare e in via definitiva, sacrificio ormai obbligato e del resto produttivo per la stessa reputazione dell'uomo e della sua opera, che non è detto abbiano guadagnato da certe iperletture, per quanto armate di equipaggiamento medievistico. Il che non significa affatto accomiatare il profeta, e tanto meno sperare, da siffatto benservito, il salvataggio almeno del poeta, come se la grandezza del secondo potesse conservarsi nell’eclissi del primo. Sul margine di una svolta negli studi danteschi, ci rendiamo ugualmente conto che nell'eredità ricevuta c'è anche qualcosa a cui non possiamo rinunciare, tanto più che la crescente attenzione di un pubblico extra-accademico, non solo nazionale ma ormai planetario, apprezza nell’autore della Commedia l'«altissima valenza cognitivo-interpretativa».
La piattaforma critica a cui affidarsi, per un nuovo percorso che non azzeri quello precedente, ma ne costituisca il debito avanzamento, sembra allora la fusione del poeta e del profeta; al netto, però, di ogni sovrastima del profeta. Non si toglie nulla al capolavoro dantesco congedando l'ipotesi, non suffragata dall'assetto testuale, di una visione effettivamente sperimentata o comunque creduta; e quindi di un resoconto soggettivamente fedele, magari con la farcitura di metafore, allegorie e invenzioni narrative a opera di un’ancillare perizia letteraria.
Dissociarsi da un'accezione integralmente o sostanzialmente referenziale della Commedia riesce anzi produttivo. Senza quella onerosa ipoteca, torna lecito parlare di un'esperienza religiosa - intessuta di ascesi sofferta e di viva preoccupazione ecclesiologica - come fattore propulsivo. Nessuna antitesi tra questa esperienza e una scrittura liberamente creativa: solo una fede giocata in un percorso di conversione personale e attenta alle sorti della Chiesa, tutt'altro che pacifiche, poteva attivare un'opzione poetica forte, un'invenzione sintonizzata sui dinamismi della mistica e del profetismo. Non stridono, in questo quadro, gli errori di prospettiva, le distorsioni ideologiche, i meccanismi autopromozionali di cui Dante è responsabile; né le manovre testuali volte a presentare come anticipazioni veritiere quelle che sono in realtà profezie post eventum. Siffatti fenomeni possono convivere con un'intensità di appello che sfida anche il lettore contemporaneo, raggiunto da un segnale remoto e pur riconoscibile. Proviene certo, quel richiamo, da un universo altro; ma non totalmente altro, almeno in alcune esigenze e aspettative di fondo.
L'apologia del fondamentale e qualificante vettore poetico, con le sue componenti di elocutio e (rimarchiamo) di inventio, non deve perciò suscitare il sentore di una riduzione di coefficiente, per cui un’opera impegnata a raccogliere il testimone dei testi sacri, per scortare ancora una volta l'umanità de statu miseriae ad statum felicitatis, verrebbe parificata a qualunque disinvolto epifenomeno di belle lettere, a quegli scritti che chiedono soltanto una momentanea e indolore sospensione dell’incredulità. È che ogni riferimento alla poesia - vogliamo dire in ambito dantesco, a causa di ben note vicende di primo e pieno Novecento - finisce oggi per richiamare, anche senza averne l'intenzione, idee di effusione gratuita, di caleidoscopio esente da ogni responsabilità etica. Con il corrispettivo di una ricezione sulla stessa lunghezza d'onda, dove a esser sospesa non è solo l'incredulità, ma ogni seria apertura esistenziale, e la fruizione si risolve in una parentesi. Tutto questo non vale sicuramente per il periodo e per l'autore in esame. Opportuno ricordare l'integrazione medievale e specificamente dantesca di poesia e retorica, che può disporre anche un'opera di finzione a docere e soprattutto a movere, sollecitando in tale direzione l’intera rappresentazione artistica, divenuta «un diverso mezzo di proselitismo e di redenzione». È su questa base che Dante recupera la nozione già virgiliana di una poesia affacciata, come tale, sul mistero del tempo e dell’oltretempo, e perciò con altissime responsabilità verso il proprio pubblico.
Non c'è dubbio: la perorazione di Dante è sostanzialmente a pro della speranza. Ma in che cosa invita a confidare? Il sogno di una veniente età dell'oro, di un paradiso in terra instaurato nella maturità della storia, al suo culmine senza ombre, riesce incompatibile con il sistema dottrinale dantesco e con la stessa proiezione profetica della Commedia, che mette invece in preventivo il ripristino delle due guide. L'epoca futura di Dante non è dunque all'insegna di una perfezione senza smagliature, comporta piuttosto il controllo storicamente possibile delle contraddizioni, quell’argine costituito dal potere politico e religioso, necessari proprio perché la pressione del negativo è pur sempre attiva. La soglia incontaminata e pacifica è per il poema dantesco extrastorica; e a riguardo un apprezzamento del senso letterale, con rivalutazione di quel plot - immediatamente percepibile — costituito dal viaggio nell'aldilà, può cogliere il valore di un’opera che riguadagna l'eterno rispetto all'investimento gioachimita sul futuro. Resta, semmai, del gioachimismo e soprattutto dello spiritualismo francescano, in merito assai più drastico, il profondo disagio verso il presente, avvertito come paesaggio devastato, waste land di alienazione e violenza. L'hic et nunc rappresenta il punto più basso di un processo regressivo; processo attivato, per Dante come per Olivi, dalla Donazione di Costantino, lesione incalcolabile della povertà della Chiesa (ma secondo l'araldo della humana civilitas, attentato inoltre all'Impero, a quella monarchia universale così poco stimata, invece, dal frate di Provenza). Non c'è bisogno di evocare il peccato originale - contro l'evidenza dei testi — per cogliere la dimensione plenaria che la Commedia attribuisce a una simile involuzione: E se la crisi è, poco 0 tanto, nell'occhio dell'osservatore, il dissidio di Dante con la realtà è indiscutibile; persino più violento di quello di Olivi, depositario di un organicismo storico che faceva della notte attuale la condizione per il transito all'alba veniente. Per Dante, la corruzione non è leva di uno sviluppo, non è il disfarsi del vecchio a favore del nuovo: rimane assente dall'ottica di questo allarmato testimone l'idea che un'aetas si sia ormai esaurita e che questo collasso prepari una fase inedita e superiore. L'autentica terra promessa è quella anagogica. Sulla scena disastrata dell'oggi non mancano tuttavia eventi-luce, le grandi personalità contemporanee di cui il poema è attestazione, specie nella terza cantica. Sono le loro biografie terrene, tracciate sullo sfondo dei cieli, a recuperare un rapporto non antitetico fra storia ed eterno, condizione in via e condizione in patria: l'attualità, nel poema dantesco, è anche il luogo di una prefigurazione felice, che attende non la sua dura smentita, bensì il compimento.