Dati bibliografici
Autore: Giuseppe Ledda
Tratto da: Dante e la molteplicità delle culture nell'Europa medievale
Editore: Bononina University Press, Bologna
Anno: 2022
Pagine: 121-136
La pluralità delle relazioni culturali che Dante attiva nella Commedia può essere colta anche nella rappresentazione degli animali, che una lunga tradizione critica ha invece registrato semplicisticamente sotto l’etichetta del cosiddetto “realismo” dantesco. Certo, anche l’apporto dell’osservazione diretta della realtà naturale è un elemento che va riconosciuto fra quelli che contribuiscono alla creazione del bestiario poetico dantesco, ma non è l’unico e neppure il più importante.
La presenza ampia e decisiva dei riferimenti agli animali è un fenomeno limitato, nel corpus dantesco, alla Commedia e alle epistole politiche, mentre essi sono rarissimi nelle altre opere di Dante. Si potrebbe pensare che tale presenza nella Commedia sia dovuta al genere letterario a cui quest'opera, pur nella sua complessità, si può ascrivere, quello cioè dei viaggi e visioni dell’aldilà. In effetti, la letteratura medievale dell’aldilà è ricca di animali, ma si tratta di animali realmente presenti nei vari regni oltremondani, soprattutto nell’inferno, con la funzione di tormentatori diabolici dei dannati: serpenti, scorpioni, draghi e vermi, che divorano o variamente tormentano i peccatori. Tuttavia, nei testi medievali di materia oltremondana sono invece assai rare le similitudini e rarissime quelle animali. Al contrario, nella Commedia ci sono sì alcuni animali “reali”, ma la modalità di presenza prevalente e più significativa è proprio quella, innovativa per la letteratura dell’aldilà, delle similitudini animali, che vengono applicate alle anime incontrate nei vari luoghi oltremondani, non solo dannati ma anche spiriti purganti e beati, e inoltre ai diavoli e agli angeli e perfino, in funzione soggettiva, a Dante personaggio. La varietà nell’applicazione di queste immagini, frequenti anche nel Purgatorio e nel Paradiso, rende evidente l’inefficacia della pur diffusa chiave di lettura che le considera segni della degradazione bestiale dei dannati.
Va poi tenuto presente che nella cultura medievale l’attenzione per la natura si realizzava soprattutto nella prospettiva dell’interpretazione allegorica e simbolica di ogni aspetto della realtà. La natura è un insieme di segni con i quali Dio parla agli uomini delle realtà spirituali. La presenza degli animali nel testo biblico aveva spinto gli esegeti fin dai primi secoli a impegnarsi nell’interpretazione dei valori allegorici e morali di tali riferimenti. Esemplare è il caso del Fisiologo, composto in greco probabilmente nel II secolo e poi tradotto in diverse lingue, fra cui il latino, quindi diffuso in tutto l'Occidente. Qui, a ogni animale si associano una o più citazioni bibliche, poi si spiegano le “nature” dell’animale e infine se ne danno una o più interpretazioni allegoriche e/o morali, che rendono ragione del significato ultimo del versetto biblico da cui si era partiti. Il Fisiologo può essere considerato il capostipite della tendenza ad associare le notizie sugli animali a citazioni bibliche e ad accompagnarle con una spiegazione allegorica o morale. Da questa tradizione esegetica si sviluppa una amplissima e vertiginosa biblioteca zoologica. Infatti queste “nature” degli animali vengono riprese nella letteratura naturalistica e nelle enciclopedie, sempre secondo il principio dell’interpretazione allegorica della natura, mentre sulla base degli stessi principi si sviluppa pure la serie dei bestiari, libri interamente dedicati a illustrare e a interpretare allegoricamente le nature degli animali.
Tutte queste notizie si trovano poi raccolte nelle sezioni de bestiis delle enciclopedie, dalle Etymologiae di Isidoro, testo influentissimo nei secoli successivi, a quelle duecentesche di Bartolomeo Anglico, Vincenzo di Beauvais e Brunetto Latini, per citarne solo alcune di particolare importanza in prospettiva dantesca. Il De proprietatibus rerum di Bartolomeo Anglico risulta particolarmente interessante, non solo perché è la più diffusa tra le enciclopedie duecentesche ma anche per l’esistenza in una percentuale notevole della tradizione manoscritta più antica di glosse allegorizzanti che funzionano prevalentemente in chiave di moralizzazione, pensate forse originariamente per un pubblico di predicatori. Anche le notizie provenienti dalle opere più “scientifiche” della letteratura naturalistica antica, come la Naturalis Historia di Plinio e il De animalibus di Aristotele, entrano progressivamente nella letteratura dei bestiari e nelle enciclopedie, ma spesso le notizie da loro offerte, accumulate insieme con quelle di altra provenienza, vengono piegate alla stessa procedura allegorizzante e moralizzante.
Sulla base di questa pluralità di tradizioni, gli animali venivano anche assunti, in funzione esemplare e in senso morale, all’interno del discorso religioso, sia in sede di trattatistica teologica su vizi e virtù sia nelle varie forme della letteratura devota e spirituale, e soprattutto nella predicazione, tanto che anche alcuni dei bestiari approntati nel XIII secolo si presentano come strumenti adatti alle esigenze di un predicatore alla ricerca di esempi animali per arricchire e rendere più incisive le proprie prediche.
Dunque l’uomo medievale aveva a disposizione un thesaurus ampio e diversificato di animali biblici, simbolici, allegorici, moralizzati, esemplari, scientifici, poetici, i quali non potevano non popolare la sua memoria e il suo immaginario, e condizionare il suo modo di guardare e interpretare anche gli animali osservati nella realtà.
Come segnalavo in apertura, i riferimenti agli animali nel corpus dantesco sono limitati alla Commedia e alle epistole politiche (Ep. V, VI, VII, XI). Al contrario, la lirica dantesca e la Vita nova ne sono sostanzialmente prive, benché la lirica romanza medievale vantasse invece un ricco repertorio che aveva perfino trovato un momento di raccolta e sistemazione nel Bestiaire d’amours di Richart de Fornival, una sorta di enciclopedia-bestiario in forma di trattato-narrazione che racconta tutta una vicenda amorosa interamente attraverso le similitudini animali. E qualcosa di simile avviene anche, in ambito toscano e poetico, nel Mare amoroso. Le immagini animali furono care anche ai poeti siciliani ed ebbero un’ampia diffusione nella lirica del Duecento, ma furono evitate nella poesia lirica di Dante e dei poeti a lui vicini.
Nella Commedia, invece, Dante concentra molti riferimenti animali proprio nelle sezioni dedicate al tema amoroso, come la rappresentazione del cerchio infernale dei lussuriosi, nel canto V dell’Inferzo, e quella dei lussuriosi del purgatorio, nella settima e ultima cornice, a cui è dedicato il canto XXVI della seconda cantica. Nel primo caso, i dannati trascinati dalla bufera infernale sono paragonati prima a storni e poi a gru, mentre infine Paolo e Francesca sono rappresentati come «colombe dal disio chiamate». Nel secondo caso, i lussuriosi penitenti del purgatorio, impegnati a purificare nel fuoco la loro passione smodata procedendo lungo la settima cornice in direzioni contrarie a seconda della tipologia di lussuria, eterosessuale o omosessuale, a cui hanno ceduto in vita, sono paragonati dapprima a formiche e poi a gru. La prima di queste immagini è riferita al momento in cui gli spiriti si incontrano e si scambiano un bacio fraterno in segno di affettuoso saluto, prima di riprendere il cammino:
Lì veggio d’ogne parte farsi presta
ciascun’ ombra e basciarsi una con una
sanza restar, contente a brieve festa;
così per entro loro schiera bruna
s’ammusa l'una con l’altra formica,
forse a spiar lor via e lor fortuna
(Purg. XXVI, 31-36).
La scena dell’incontro fra le formiche, che certo fa parte anche dell’esperienza comune, era ampiamente attestata nella letteratura enciclopedica, sulla scorta di un passo di Plinio: «Iam in opere qui labor, quae sedulitas! Et quoniam ex diverso convehunt altera alterius ignara, certi dies ad recognitionem mutuam nundinis dantur. Quae tune earum concursatio, quam diligens cum obviis quaedam conlocutio atque percuntatio!». Nella tradizione enciclopedica la notizia è offerta a commento del versetto biblico «vade ad formicam o piger et considera vias eius et disce sapientiam quae cum non habeat ducem nec praeceptorem nec principem parat aestate cibum sibi et congregat in messe quod comedat» (Prov. 6, 6-8). Infatti, si spiega, quando una formica ne incontra un’altra che porta un chicco di qualche seme, non glielo porta via, ma le chiede dove l’ha preso e si mette sulle sue tracce per trovarne a sua volta uno da portare nei loro abitacoli.
Tuttavia, qui potrebbe essere attiva anche la cultura letteraria di Dante, con funzione intensamente allusiva. I commentatori rimandano infatti a un passo di Ovidio (Metamorfosi VII, 624-626) ma soprattutto a uno di Virgilio, con il quale le rispondenze sono più puntuali:
Migrantis cernas totaque ex urbe ruentis,
ac veluti ingentem formicae farris acervrom
cum populant, hiemis memores, tectoque reponunt:
it nigrum campis agmen praedamque per herbas
convectant calle angusto, pars grandia trudunt
obnixae frumenta umeris, pars agmina cogunt
castigantque moras, opere omnis semita fervet
(Virgilio, Aen. IV, 401-407).
Oltre alla ripresa dell’espressione «nigrum [...] agmen» (Aen. IV, 404) in «schiera bruna» (Purg. XXVI, 34), anche la frettolosità del saluto, sottolineata dalle espressioni «sanza restar, contente a brieve festa» (v. 33), trova un corrispettivo nella frenetica attività delle formiche virgiliane che «castigant [...] moras» (Aen. IV, 407).
Nel IV libro dell’Ereide l’immagine delle formiche rappresenta i Troiani che si preparano a lasciare Cartagine. Dopo il cedimento all'amore di Didone, Enea, obbedendo al comando degli dèi, decide di ripartire con i suoi: è una fuga dalla lussuria verso il compimento della missione. Così le anime dei lussuriosi purgatoriali riprendono il percorso penitenziale di fuga dal vizio, proprio quello di lussuria di cui Didone è simbolo riconosciuto, per volgersi al viaggio penitenziale nel fuoco che li condurrà alla salvezza. Alla ripresa di notizie diffuse nella cultura naturalistica medievale, Dante aggiunge dunque una forte riscrittura di un celebre passo virgiliano, relativo proprio alla figura più emblematica dell’amore folle e lussurioso, quella di Didone, alludendo nel contempo alla possibilità di una sua lettura in senso allegorico-morale. Ciò è confermato dalla presenza costante di Didone in tutti i luoghi del poema in cui Dante riflette sull’amore folle e lussurioso. Didone non può quindi mancare nella cornice purgatoriale dei lussuriosi, ma vi compare in termini allusivi e indiretti. L'attenzione è qui invece sulle formiche troiane che fuggono dalla lussuriosa regina di Cartagine per riprendere il viaggio verso la meta.
Il secondo momento, quello della ripartenza delle due schiere di anime di lussuriosi penitenti in direzioni opposte, è illustrato da una nuova sorprendente similitudine con le gru:
Poi, come grue ch’a le montagne Rife
volasser parte, e parte inver’ l’arene,
queste del gel, quelle del sole schife,
luna gente sen va, l’altra sen vene;
e tornan, lagrimando, a’ primi canti
e al gridar che più lor si convene
(Purg. XXVI, 25-48).
Le gru erano già presenti nella cornice infernale dei lussuriosi (Inf. V, 46-49). Ma se le gru infernali sono portate dalla bufera e non vanno da nessuna parte, quelle purgatoriali si affrettano verso il viaggio migratorio, sia pure in direzioni contrarie a seconda del tipo di lussuria (etero- o omosessuale) a cui gli spiriti hanno ceduto in vita. La meta ultima della migrazione delle gru-spiriti lussuriosi penitenti è la «pace» paradisiaca (Purg. XXVI, 53-54), e precisamente l’Empireo, «il ciel [...] ch'è pien d’amore e più ampio si spazia» (vv. 62-63).
Sul tema delle migrazioni delle gru, Dante leggeva, tra l’altro, due passi di Stazio che mostrano proprio i due momenti della migrazione: quello in cui hanno lasciato il freddo invernale per recarsi verso sud, verso il Nilo, ma anche quello opposto, in cui, alla fine dell’inverno, fuggono dal clima di Faro, sereno, privo di nubi, assolato, per dirigersi invece verso il vento del nord, il freddo, la pioggia. L’invenzione di Dante unisce questi due momenti, separati in natura, in uno solo, attribuendoli, però a due diversi gruppi di gru. Di frequente, del resto, nel parlare degli uccelli migratori in generale, gli autori antichi e medievali sottolineano la diversità dei comportamenti. Nello stesso momento alcuni uccelli si dirigono verso sud, altri migrano invece verso nord. Ma entrambi seguono la propria natura e vanno verso il luogo dove possono trovare benessere. Ambrogio, per fare un esempio, indica le due direzioni della migrazione, esemplificandole con i tordi e le cicogne, poi conclude citando le gru, le quali «amant frequenter peregrinari», senza indicarne la direzione, osservazione che viene ripetuta spesso.
Credo che fra i valori veicolati dalla similitudine delle gru non possa essere escluso quello di allusione al pellegrinaggio e alla sua funzione penitenziale. Le gru in migrazione rappresentano la fuga dal vizio, come già le formiche alludevano alla fuga dalla lussuria dirigendosi verso la penitenza e insieme verso la salvezza, e con baci casti e fraterni purificavano i baci lussuriosi dati in vita come colombe lascive.
La terza similitudine animale di Purgatorio XXVI è anche l’ultima tra quelle riferite agli spiriti purganti. Guido Guinizzelli, al termine del dialogo con Dante, si nasconde nel fuoco: «disparve per lo foco / come per l’acqua il pesce andando al fondo» (vv. 133-135). Lo stesso gesto è ripetuto anche da Arnaut Daniel, che risponde alle domande di Dante e «poi s’ascose nel foco che li affina» (v. 148). La similitudine si basa sul rapporto analogico: i pesci stanno all’acqua come le anime al fuoco. Questa immagine è frequente nella letteratura medievale di argomento oltremondano, dove è usata in riferimento agli animali diabolici infernali, vermi, serpenti, draghi e scorpioni che vivono nel fuoco come i pesci nell’acqua: «Tertia [scil. poena], vermes immortales, vel serpentes et dracones visu et sibilo horribiles, qui ut pisces in aqua, ita vivunt in flamma»; «E sì com’entro l’aigua se noriso li pissi, / così fa en quel fogo li vermi maléiti»; «Li vermini venenusi in l’eternal calura / scorpion, bisse, serpenti, dragon de grand pagura, / com fan li pisci entr’aqua, ghe viven per natura».
Rispetto a questa tradizione, concorde nel paragonare i pesci nell’acqua a esseri diabolici o infernali, è evidente il rovesciamento operato da Dante, che si serve della stessa immagine per indicare invece gli spiriti del purgatorio, immersi in un fuoco dalla funzione purificatoria. Il percorso sarà completato dalla prima similitudine animale riferita ai beati del paradiso (Par. V, 100-105). Non più nel fuoco, gli spiritipesci sono ora in «peschiera ch’è tranquilla e pura»: hanno raggiunto, attraverso la penitenza «nel foco che li affina», la «pace» paradisiaca a cui anche le anime-pesci del purgatorio sono infine destinate.
Sembra quindi che Dante abbia voluto alludere alla ricchezza delle immagini animali nella tradizione della letteratura amorosa utilizzando a sua volta i riferimenti zoologici per costruire la propria riflessione su questi temi tramite la rappresentazione delle anime dei dannati e dei penitenti lussuriosi. Anche per questo mi sembra possibile che si possa scorgere un’ulteriore allusione, stavolta implicita, a un animale che vive nel fuoco e a cui si paragonano frequentemente i poeti provenzali e italiani: la salamandra, la quale, come scriveva il maggiore dei poeti siciliani, Giacomo da Lentini, «vive nel foco stando sana». Tra i tanti poeti che paragonano variamente la propria condizione a quella della salamandra, c’è proprio Guido Guinizzelli, incontrato nel fuoco purgatoriale, il quale scriveva:
già per cui lo meo core
altisce in tal lucore
che si ralluma come
salamandra ’n foco vive,
ché n ogne parte vive — lo meo core.
Dante non cita la salamandra, ma la sostituisce con il pesce, come se, divenendo pesce nel «foco che li affina», i poeti d’amore da lui incontrati nella cornice dei lussuriosi, Guido Guinizzelli e Arnaut Daniel, purifichino qui la loro vita di salamandre nel fuoco amoroso.
Il quadro si complica se si considera che la salamandra è presente anche nel bestiario cristiano, dove diviene simbolo degli uomini santi di cui parla il profeta Daniele, che bruciano nella fornace ardente, ma ne escono salvi. Benché dunque la salamandra non sia citata, Guinizzelli che si nasconde nel fuoco come un pesce nell’acqua sembra alludere all'immagine della salamandra che vive nel fuoco, immagine che il poeta aveva usato come metafora per il proprio vivere nel fuoco d’amore. Ma ora si ha una metamorfosi, da salamandra amorosa a salamandra sacra, che vive non più nel fuoco d’amore bensì nel fuoco purificatore da cui uscirà per giungere alla vera salvezza.
Va poi osservato che la riflessione sull’amore va ben oltre questi luoghi deputati e naturalmente coinvolge anche il rapporto con Beatrice, per la quale si realizza un selettivo ma eloquente bestiario, in cui è paragonata a un’aquila che fissa gli occhi nel sole e a un uccello-madre che attende il sorgere del sole per poter procurare il cibo con cui nutrire i figli nel nido. Inoltre, le immagini animali citate in Inferno V e Purgatorio XXVI, in particolare quella delle colombe e quella delle gru sono riprese anche nel Paradiso, come a prolungare, attraverso i riferimenti al bestiario, la riflessione sull’amore e sulla letteratura d’amore.
Accanto al bestiario d'amore, un percorso compatto che si presta a esemplificare la molteplicità degli apporti culturali attivati nella rappresentazione dantesca degli animali è quello che possiamo definire il bestiario della cecità e della visione, che Dante costruisce attivando non solo la cultura naturalistica nelle sue varie declinazioni ma anche la scienza ottica che stava avendo negli ultimi decenni del Duecento e nei primi del Trecento un grande sviluppo e una grande influenza anche sulla cultura comune del tempo. Il testo dantesco invita a ricostruire i momenti di un tale bestiario, dato che presenta in posizione strutturalmente rilevata due forti emblemi animali della cecità e della visione: l’ultima immagine zoologica dell’Inferno è Lucifero dalle ali di pipistrello, animale simbolo della cecità alla luce e dell’amore per le tenebre; la prima similitudine animale del Paradiso mostra Beatrice che con capacità visive superiori a quelle di qualsiasi aquila fissa gli occhi nel sole. Ma tra il pipistrello e l’aquila ci sono gli animali del Purgatorio, alcuni dei quali rappresentano uno stadio intermedio nei fenomeni della vista e nel simbolismo associato: animali colti in una condizione di cecità, ma destinati a recuperare la vista, assimilabili a chi, pur attualmente accecato, giungerà comunque, come tutte le anime del purgatorio, come Dante e come il suo «lettore», a ritrovare la vista, sino a vedere Dio, a compiere l’«atto» in cui «si fonda / l’esser beato» (Par. XXVIII, 109-110).
Un animale che rappresenta una condizione di cecità temporanea, funzionale alla trasformazione da «selvaggio» a «queto», è lo sparviero cui è imposta la ciliatura. Attraverso tale immagine, Dante attiva un altro bacino culturale di enorme importanza per la rappresentazione degli animali nel mondo medievale, quello della falconeria. Le anime penitenti degli invidiosi, nella seconda cornice, hanno infatti le palpebre legate con fil di ferro così da chiuder loro gli occhi, impedire il passaggio della luce e la visione, come i falchi e gli sparvieri da caccia nel primo periodo di addomesticamento, operazione descritta anche da Federico II nel De arte venandi cum avibus:
E come ali orbi non approda il sole,
così a l’ombre quivi, ond’io parlo ora,
luce del ciel di sé largir non vole;
a tutti un fil di ferro i cigli fora
e cusce sì, come a sparvier selvaggio
si fa però che queto non dimora
(Purg. XIII, 67-72).
Dante si serve invece dello sparviero ciliato per indicare una cecità temporanea e imposta all’animale come strumento di addomesticamento, affinché possa tornare, purificato, alla luce, al volo, alla caccia. Così la cecità temporanea dei penitenti, come quella degli sparvieri da caccia, consiste in un periodo di purificazione e di preparazione alla liberazione eterna dalla cecità e all’approdo a una forma più alta di visione.
Anche la punizione degli iracondi è costituita da una forma di cecità, non imposta attraverso la chiusura delle palpebre ma causata da «un fummo [...] come la notte oscuro» che copre la terza cornice, coinvolgendo pure Dante e Virgilio. Per il momento in cui Dante e Virgilio si avvicinano alla fine della cornice, dove il fumo inizia a diradarsi, viene usata una nuova similitudine animale. Il poeta chiede al lettore di ricordare se si è mai trovato in una nebbia tanto fitta da non riuscire a vedere più nulla, come una talpa che non vede a causa della pelle che le copre gli occhi; e poi di pensare a quando i vapori della nebbia si diradano e la luce del sole inizia a filtrare. Se immagina questi due momenti, il lettore può comprendere la situazione del protagonista che si è trovato dapprima immerso nel fumo, in cui non vedeva nulla, ma poi dove il fumo è meno denso e inizia a filtrare la luce del sole:
Ricorditi, lettor, se mai ne l’alpe
ti colse nebbia per la qual vedessi
non altrimenti che per pelle talpe,
come, quando i vapori umidi e spessi
a diradar cominciansi, la spera
del sol debilemente entra per essi;
e fia la tua imagine leggera
in giugnere a veder com'io rividi
lo sole in pria, che già nel corcar era
(Purg. XVII, 1-9).
La tradizione naturalistica antica e medievale attribuisce alla talpa una totale e perpetua cecità: «damnata caccitate perpetua tenebris», secondo la formula di Isidoro di Siviglia (Etymzologiae XII, iii, 5), che fissa un'espressione già presente in Plinio (Nat. hist. XXX, 19,7). Le occorrenze bibliche della talpa portano l’esegesi biblica a dare di questo animale un’interpretazione allegorica sempre negativa, sfruttando le metafore tradizionali della cecità del peccatore incapace di vedere e scegliere il bene e/o della cecità dell’infedele o dell’eretico, incapace di conoscere e amare Dio.
Quanto alla natura e alle cause della cecità della talpa, le spiegazioni addotte sono diverse. Un primo gruppo di autori non ne dà alcuna, limitandosi a rilevare che la talpa «non vede», o è «cieca». Tra quelli che indicano le cause vi è chi ritiene che la talpa sia un animale privo di occhi («absque oculis»). Ma nel De azimalibus di Aristotele e quindi a partire dalla traduzione e diffusione delle opere biologiche del filosofo si afferma una posizione problematica e “sperimentale”. La talpa sarebbe cieca e priva di occhi, ma nel luogo in cui dovrebbero trovarsi gli occhi avrebbe la pelle più chiara e morbida che nel resto del corpo. E rimuovendo tale pelle si troverebbero al di sotto non dei veri occhi ma una materia affine a quella che costituisce gli occhi negli altri mammiferi, la quale però non avrebbe raggiunto il pieno sviluppo sino a formare dei veri occhi. Anche Plinio riprende la posizione aristotelica e attribuisce alle talpe una «oculorum effigies» al di sotto della pelle.
Gli enciclopedisti medievali che raccolgono la notizia aristotelica manifestano qualche oscillazione e perplessità, sino a formulare una spiegazione alternativa: l’animale avrebbe gli occhi, ben formati e potenzialmente in grado di vedere, ma ricoperti da uno strato di pelle che impedisce la visione rendendoli completamente ciechi. Così Tommaso di Cantimpré, dopo aver ripreso il testo aristotelico, conclude che il Creatore ha dato alla talpa degli occhi «ad plenum formatos» ma ciechi, e resi ciechi proprio dalla pelle che li ricopre; e Brunetto Latini: «Et sachez que taupe ne voit goute, car nature ne vost pas ovrir la pel qui est sor les iauz, et ensi n’i valent il neant, por ce que il ne sont descoverz».
Se la cecità della talpa è dovuta solo alla pelle che ne copre gli occhi, si potrebbe andare ancora oltre: immaginare che tale pelle si rompa e consenta all’animale di aprire gli occhi e vedere. È una posizione riportata in un testo influente quale il De proprietatibus rerum di Bartolomeo Anglico, il cui capitolo sulla talpa sviluppa la notizia aristotelica sulla presenza di occhi o almeno di «vestigia latentium oculorum» sotto la pelle riferendosi a una tradizione («putaverunt aliqui»), della quale non ho finora trovato tracce, secondo cui la pelle che ricopre gli occhi della talpa si romperebbe durante la sofferenza della morte: «quod illud corium rumpitur prae angustia, quando incipit mori, et tunc incipit aperire oculos in moriendo, quos clausos habuit in vivendo». Accanto alla notizia dell’apertura degli occhi da parte della talpa in punto di morte, nei manoscritti si trova la glossa «Nota quod penitentia aperit oculos quos claudit peccatum».
Nel Purgatorio la talpa può diventare così l’immagine di una cecità non perpetua ma temporanea. In particolare, la similitudine con la talpa è relativa a Dante personaggio, ma la sua cecità causata dal fumo e il successivo passaggio alla visione della luce sono gli stessi che provano tutti gli spiriti purganti. La talpa può rappresentare tutti gli abitanti del purgatorio, che sono peccatori pentiti e convertiti, rivoltisi, presto o tardi, a Dio. Nel bestiario purgatoriale della cecità e della visione le immagini dello sparviero ciliato e della talpa sono emblemi di una cecità penitenziale, imposta ai peccatori come strumento di purificazione.
Vorrei concludere questa breve rassegna con un ulteriore esempio della pluralità complessa, e a volte anche conflittuale, delle tradizioni culturali che Dante riesce ad attivare in una singola immagine animale, esaminando la similitudine infernale della fenice, posta nel canto centrale tra quelli delle Malebolge per illustrare l’incenerimento di Vanni Fucci, morso alla nuca da uno dei terribili serpenti che popolano la bolgia dei ladri, e il suo immediato ricostituirsi con lo stesso aspetto corporeo di prima:
Ed ecco ad un ch'era da nostra proda,
s'avventò un serpente che ’l trafisse
là dove ‘l collo a le spalle s'annoda.
Né O sì tosto mai né I si scrisse,
com'el s'accese e arse, e cener tutto
convenne che cascando divenisse;
e poi che fu a terra sì distrutto,
la polver si raccolse per sé stessa,
e’n quel medesmo ritornò di butto.
Così per li gran savi si confessa
che la fenice more e poi rinasce,
quando al cinquecentesimo anno appressa;
erba né biado in sua vita non pasce,
ma sol d’incenso lagrime e d’amomo,
e nardo e mirra son l’ultime fasce
(Inf. XXIV, 97-111).
Il caso della fenice è straordinariamente interessante, perché oltre all'immagine animale coinvolge anche la poesia classica, proprio all’interno di un episodio, quello della bolgia dei ladri, tutto costruito sul confronto-scontro con la grande poesia antica, evidente sin dall’intervento proemiale, che allude ai luoghi popolati di serpenti cantati nel poema di Lucano (Inf. XXIV, 85-90), e che poi, dopo numerose riprese e allusioni, si chiuderà con il celebre vanto «Taccia Lucano [...] Taccia [...] Ovidio» (XXV, 94-102). Sul piano letterale e delle riprese lessicali, oltre che per molti particolari della descrizione, il testo principale cui Dante attinge per le terzine sulla fenice è proprio Ovidio, come è regolarmente segnalato dai commentatori danteschi.
Inoltre, se per il momento della rinascita il modello sembra la fenice ovidiana, per quello precedente, il morso del serpente, sembra agire invece ancora Lucano, al cui testo già si alludeva indirettamente nel proemio (Inf. XXIV, 85-90), e che sarà poi chiamato in causa direttamente nel canto successivo: « Taccia Lucano omai là dove e’ tocca / del misero Sabello e di Nassidio» (XXV, 94-96). E proprio l’episodio lucaniano di Sabello è citato da tutti i commentatori danteschi già come modello per quello di Vanni Fucci, in quanto nella Farsaglia questo soldato morso alla gamba da un serpente ha il corpo disfatto e dissolto dal veleno mortale. Indubbiamente questo modello può aver agito, ma si tratta di un modello parziale sul quale Dante opera importanti variazioni. Intanto cambia il luogo del morso, non la gamba ma la nuca. Inoltre, la modalità del disfacimento non è la liquefazione e il totale dissolvimento come per Sabello, ma un accendersi e bruciare che porta all’istantanco incenerimento. E proprio l’incenerimento è l'aspetto che permette il passaggio al modello della fenice, che sarà poi attivo anche per il momento successivo, quello della rinascita-ricostituzione dell'individuo a partire dalle proprie ceneri.
Ma questi modelli intertestuali espliciti (citato apertamente quello della fenice, suggerito dai riferimenti nel contesto quello di Sabello) va aggiunto un altro, quello offerto dalla presenza dei serpenti nell’aldilà islamico, secondo il racconto del Libro della Scala, la cui pertinenza è stata segnalata da Maria Corti. Non è questa la sede per discutere della conoscenza di questo testo da parte di Dante e dei suoi rapporti con l’escatologia islamica. Tuttavia non pare dubbio che alcuni luoghi del Liber Scalae offrano una serie di parallelismi rispetto al passo dantesco. Vi si ritrovano infatti alcuni degli elementi presenti in quello dantesco, tra cui il veleno dei rettili infernali, draghi e scorpioni, che distrugge e annienta i peccatori, i quali però tornano come prima per essere nuovamente tormentati e distrutti all’infinito. In particolare vi si ritrova l’annientamento per combustione e si sottolinea con grande enfasi la continua ricostituzione della pelle bruciata e distrutta dal fuoco, perché il peccatore possa essere ancora bruciato all’infinito.
Pur non citato esplicitamente, il testo escatologico islamico potrebbe allora essere tacitamente entrato nella complessa rete intertestuale e interculturale su cui è costruito l'episodio dantesco. Esso offre un numero notevole di riscontri puntuali: i serpenti e gli altri rettili; il loro terribile veleno; il preciso effetto di combustione e incenerimento delle membra che esso provoca sino all’annientamento del peccatore o la sua riduzione in cenere; la sua ricostituzione nello stato precedente, per essere nuovamente punito.
La fenice era un animale straordinariamente importante nel bestiario cristiano, anche per la sua presenza nel Fisiologo, il capostipite di questo genere letterario, che ne propone un’ interpretazione cristologica, come emblema di resurrezione: «Est aliut volatile quod dicitur phenix. Huius figuram gerit Dominus noster Iesus Christus, qui dicit in Evangelio suo: “Potestatem habeo ponendi animam meam et iterum sumendi cam”». Nel bestiario cristiano la fenice conta innumerevoli occorrenze e un’interpretazione univoca e costante come simbolo della resurrezione di Cristo e di quella promessa al cristiano. Un altro aspetto, decisivo nel contesto del passo dantesco, ma assente nel testo ovidiano e invece presente e significativo nella tradizione del bestiario cristiano è quello della combustione e incenerimento. Per rendere più evidente il simbolismo cristologico si precisa poi, nel Fisiologo e negli innumerevoli testi da esso derivati, che il processo di rinascita dura tre giorni.
Se la fenice è un emblema inequivocabile della resurrezione di Cristo che rende possibile quella del cristiano, l’uso simbolicamente così incongruo di questa immagine come veicolo di una similitudine che ha per tenore un peccatore punito nell'inferno può essere compreso nel quadro del fenomeno della parodia sacra, a cui Dante ricorre continuamente nella cantica infernale, sin dalla scritta che si legge sulla porta dell’inferno, costruita, come ha mostrato Stefano Carrai, sul modello di analoghe iscrizioni che si trovavano sui portali delle chiese. L'inferno si configura come un’anti-chiesa, uno spazio sacro rovesciato, e molti elementi nel comportamento dei guardiani diabolici e dei dannati, oltre che nella punizione di questi, si presentano come una contraffazione parodica e rovesciata di attributi divini, oppure di atti, parole e simboli propri del discorso sacro, della liturgia, del simbolismo della divinità e della santità. La parodia sacra si rivela particolarmente attiva nei canti della bolgia dei ladri e offre una chiave di comprensione più piena della similitudine della fenice. Mentre la fenice è simbolo della resurrezione di Cristo e della resurrezione alla vita eterna a cui sono destinati i buoni cristiani, Vanni Fucci è come una perversa fenice infernale, condannata a incenerirsi e a rinascere all’infinito solo per essere nuovamente ed eternamente punita. Ma se questo tipo di punizione trovava dei paralleli convincenti nei testi escatologici islamici, ciò che lì mancava, e che segna la superiorità dell’aldilà cristiano e del testo che lo rappresenta, è proprio la similitudine con la fenice, la quale ricorda la resurrezione di Cristo che rende possibile la resurrezione del cristiano alla vita eterna e che nella sua versione parodica mostra il senso profondo della dannazione come negazione e privazione della vera resurrezione. In questa chiave acquistano infatti un senso più pieno anche i superamenti rivendicati in questi canti nei confronti dei testi classici sui serpenti e sulle metamorfosi: l'imitazione ovidiana è qui particolarmente scoperta proprio per rivelare più efficacemente ciò che nel testo del poeta classico è assente: il valore cristologico della fenice e il suo simbolismo della resurrezione alla vita eterna.
Spero di essere riuscito a mostrare, attraverso questa breve rassegna, che la rappresentazione degli animali può offrire un esempio di come la poesia dantesca si fonda sull’attivazione di una molteplicità di culture, che vengono però tutte rinnovate e trascese nella creazione di un testo dai significati molteplici e complessi.