Dati bibliografici
Autore: Maurizio Palma di Cesnola
Tratto da: Semiotica dantesca. Profetismo e diacronia
Editore: Longo, Ravenna
Anno: 1995
Pagine: 13-24
Prevenendo l’accusa di aver prestato a un «accidente in sustanzia», qual è Amore, attributi umani come la corporeità, la parola, il riso, Dante nella Vita Nuova ricorda che a poeti e rimatori, in maggior misura che ai «prosaici dittatori», è concesso l’uso di «alcuna figura o colore rettorico [...] ma non sanza ragione alcuna, ma con ragione la quale poi sia possibile d’aprire per prosa» (VN XXV 7-8). Segue una rassegna di esempi tratti dalle canoniche autoritadi, Virgilio Lucano Orazio Ovidio, che si conclude sul seguente passo:
E acciò che non ne pigli alcuna baldanza persona grossa, dico che né li poete parlavano così sanza ragione, né quelli che rimano deono parlare così non avendo alcuno ragionamento in loro di quello che dicono; però che grande vergogna sarebbe a colui che rimasse cose sotto vesta di figura o di colore rettorico, e poscia, domandato, non sapesse denudare le sue parole da cotale vesta, in guisa che avessero verace intendimento (VN XXV 10)
È la prosa che per definizione apre ciò che la poesia chiude, e fin dal libello coesiste in Dante, insieme con l’innata propensione a parlar figurato, la chiara coscienza della necessità di dover, di poter aprire per prosa la «sentenza» di ciò che è stato detto «per rima». È verosimile che il poeta, da giovane, enunciasse per sé un principio «deontologico» al quale negli anni volle restar fedele. Anche nel Convivio si ribadisce l’imprescindibilità e la portata pedagogica ed esemplare del proprio intervento esegetico sulle canzoni:
Intendo anche mostrare la vera sentenza di quelle, che per alcuno vedere non si può s’io non la conto, perché è nascosa sotto figura d’allegoria: e questo non solamente darà diletto buono a udire, ma sottile ammaestramento e a così parlare e a così intendere l’altrui scritture (Conv. I ii 17)
E infatti nel prosimetro giovanile e nell’abbozzo di quello della maturità lo spazio testuale offriva ampi margini alla glossa prosastica intesa a dissolvere le oscurità delle liriche. Per un autore così attento a far luce sulle minime sfumature del proprio chiuso poetare, l’assenza di un commento in prosa, com'è il caso della Commedia, dev’esser stata, in sede progettuale, fonte di attenta riflessione, forse non estranea alla scelta di quel modello scritturale nel quale appunto il testo sacro offre esso stesso, a chi ne conosca le chiavi, gli spunti utili alla propria interpretazione. Ecco dunque che l’adozione univoca del verso moltiplica sì le difficoltà ma non implica necessariamente la rinuncia all’autoanalisi: nella Commedia la chiosa sarà molto spesso integrata alla poesia, come d’altronde ci capiterà più volte di toccare con mano nel corso del nostro lavoro.
Rari sono però i casi di chiosa diretta, esplicita, immediata come in Paradiso XI (vv. 43-72), dov’è questione di un sole che, nato ad Orien- te, sposò contro la volontà paterna una donna malamata e vedova da «millecent’anni e più»..., e l’autore complica questo bisticcio astrale a tal punto che, resosene conto, attraverso il narratore di secondo grado (San Tommaso) ci apre, in versi, l’allegoria:
Ma perch’io non proceda troppo chiuso,
Francesco e Povertà per questi amanti
prendi oramai nel mio parlar diffuso.
(Par. XI 73-75)
Questo tipo d’intervento chiarificatore è comunque da considerare piuttosto l’eccezione che la norma; l’allusività, come vedremo, prevale di regola sull’esplicitazione.
Come è noto, l’Epistola a Cangrande attraverso l’esegesi quadrifaria del Salmo In exitu Israel de Egipto offre le chiavi d’accesso all’opera nella sua polisemica globalità. Questo procedimento ermeneutico si rivela per noi uno strumento troppo complesso e arduo da maneggiare, per- ché si possa soltanto immaginarne un’applicazione sistematica che vada oltre l’interpretazione dell’opera nel suo insieme, quale appunto ci è data nell’epistola . Per nostra fortuna, l’imitatio che Dante concepisce del testo supremo non si limita all’applicabilità dei quattro sensi scritturali , poiché in pari tempo egli fa proprie anche altre strategie comunicative del modello — quali ovviamente erano percepite dall’esegesi medievale — ricreando una analogia globale tra i meccanismi di significazione della Scrittura e quelli messi in atto in questo suo eterodosso e sedicente nuovo capitolo che, per dirla con Singleton (1978: 88), finge di non esser finzione, e proprio perciò oltre a rivendicare l’ispirazione divina adotta le sembianze del modus scribendi di colui che «dittò» i sacri libri, del «verace autore» insomma del «magno volume» dell’universo. Dante trasforma quella che era una normale prassi ermeneutica in un procedimento retorico : in altri termini, come il Dante esegeta decodificava il testo sacro, il Dante autore codificherà il sacro poema che, a sua volta, il lettore modello, secondo le regole del gioco da lui dettate, dovrà interpretare come se si trattasse di un nuovo capitolo della Bibbia.
Vera pietra miliare che inaugura, in modo cosciente e organico, questo tipo di lettura è il saggio di Charles S. Singleton The Vistas in Retrospect che nel 1965 lo studioso statunitense presentò in occasione del sesto centenario della nascita del poeta e che deve esser considerato come una svolta impressa agli studi danteschi in questa seconda metà del secolo, modello per ogni commentatore che voglia mettere in atto una prassi esegetica cercando «la piena esperienza del poema in tutta la concretezza e vivacità di particolari del suo sviluppo strutturale, che è come dire la sua poesia, verso per verso, terzina per terzina, canto dopo canto; [...] piena esperienza della forma significa scorgere tutto il significato nel modo in cui viene rivelato lungo la linea progressiva della narrazione, e vivere quel significato — poiché vederlo non basta» . E se, come ricorda Freccero, è vero che «l’illuminazione retrospettiva è l’essenza autentica dell’allegoria biblica» , ciò si traduce a livello critico in una prassi che, nel pieno rispetto delle strategie comunicative dell’autore, sappia riconoscere i progressivi chiarimenti, o gli incrementi di significato che il testo offre, di vocaboli, figure e immagini che avevano risvegliato l’insoddisfatta curiosità del lettore: attese che saranno via via soddisfatte (non sempre purtroppo) nello svolgersi del racconto. E questo il caso, diremo noi, delle profezie, e in particolare di quella del canto proemiale, che solo nello svolgersi dei novantanove canti che la seguono acquisterà senso, con più o meno chiarezza, grazie a numerosi richiami interni e passi paralleli, e alla luce del trittico che essa verrà a formare e di cui avremo coscienza solo a lettura ultimata.
Quella proposta da Singleton è una prassi che in effetti trova riscontro e legittimazione in tutta la tradizione dell’esegesi cristiana. Per limitarci al capostipite dei trattati di ermeneutica in latino, ricordiamo il Liber de septem regulis di Ticonio, scrittore laico e donatista, teorico acuto che tanta ammirazione suscitò in Agostino che ne assicurò la fama fino al medioevo: tra le sette regulae che Ticonio teorizza, la sesta, la recapitulatio, insegna che quando nei sacri testi incontriamo oscurità, omissioni, anacronismi, molto spesso, subito o altrove, esplicitamente o in modo dissimulato (latenter dice Agostino ), la Scrittura torna sui suoi passi e rimedia, completa, chiarisce quei luoghi che altrimenti sarebbero apparsi problematici, «...nisi recapitulatio illic vigilanter intelligatur, qua reditur ad ea quae fuerant praetermissa» .
È dunque un modello di lettura «forte» quello al quale vorremmo attenerci, cercando comunque di dare delle singletoniane «visuali retrospettive» un’accezione più generalizzante; preferiamo dunque parlare di loci, di passi, di testi, di episodi paralleli, e non solo con portata retrospettiva; ci capiterà infatti di individuare delle chiose chiaramente prefative, indizio dell’estrema complessità esistente all’interno delle strategie comunicative della Commedia. I meccanismi della significazione in essa messi in atto seguono, come detto, un sistema che si vuole analogo al modus scribendi divino. In particolare, il servirsi di testi paralleli era una tecnica ermeneutica di uso corrente nell’allegoresi biblica medievale, e consisteva nell’interpretare un passo scritturale mettendolo in relazione, in virtù di analogie contestuali, tematiche o struttura- li, con un altro o con altri passi che, letti appunto in parallelo, permettevano di esplicitare, di chiarificare la componente figurale del primo . Ci sembra quindi capitale conoscere come Dante, in veste d’esegeta, facesse uso di questa tecnica. In Monarchia III ix ne abbiamo, è il solo, un esempio illuminante.
Accipiunt etiam illud Luce, quod Petrus dixit Cristo, cum ait «Ecce duo gladii hic»; et dicunt quod per illos duos gladios duo predicta regimina intelliguntur, que quidem Petrus dixit esse ibi ubi erat, hoc est apud se: unde arguunt illa duo regimina secundum auctoritatem apud successorem Petri consistere (Mon. III ix 1) .
Lo spunto è polemico. Nella confutazione sistematica delle presunte prove scritturali che avrebbero dovuto permettere di avallare la plenitudo potestatis del papato sui due piani del potere spirituale e di quello temporale, Dante in questo caso contesta agli ideologi guelfi il diritto di vedere nelle parole di Pietro tratte dal vangelo di Luca (XXII 38):
Ecce duo gladii hic
altro oltre ciò che esse volevano dire nel preciso momento in cui furono pronunciate dal pescatore; certamente non un’allusione ai duo regimina affidati alle cure dell’apostolo e dei suoi successori. Gesù consiglia ai discepoli di comprarsi una spada ed essi rispondono di averne già due; nient’altro.
Et ad hoc dicendum per interemptionem sensus in quo fundant argumentum. Dicunt enim illos duos gladios, quos assignavit Petrus, duo prefata regimina importare: quod omnino negandum est, tum quia illa responsio non fuisset ad intentionem Cristi, tum quia Petrus de more subito respondebat ad rerum su- perficiem tantum (Mon. II ix 2)
Siamo come si vede sempre sul piano della ricostruzione «storica» dei fatti: per Dante la risposta precipitosa di Pietro non sarebbe adeguata all’intenzione di Cristo che, alla luce delle parole che precedono e nelle quali egli parla della propria imminente Passione, voleva semplicemente ammonire i discepoli a premunirsi di un’arma (non di due) in vista delle persecuzioni che li attendevano quando lui non ci sarebbe più stato.
Et ex hinc continuato colloquio venit ad hec: «Quando misi vos sine sacculo et pera et calciamentis, nunquid aliquid defuit vobis? At illi dixerunt: Nichil. Dixit ergo eis: Sed nunc qui habet sacculum tollat, similiter et peram; et qui non habet, vendat tunicam et emat gladium». In quo satis aperte intentio Cristi manifestatur; non enim dixit «ematis vel habeatis duos gladios» — ymo duodecim, cum ad duodecim discipulos diceret «qui non habet emat» — ut quilibet haberet unum (Mon. III ix 5-6)
Si nega dunque ogni plausibilità al nesso tra i duo gladii di Luca e i duo regimina, extratestuali e decontestualizzati, rifiutandone il presupposto: nelle intenzioni di Cristo le spade non sono mai state due, ma, verosimilmente dodici, quanti gli apostoli. Nullo poi è il peso da dare alle parole di Pietro, come sta a provare la folta rassegna di testimonianze neotestamentarie addotte a suffragare l’irriflessa sventatezza che solitamente caratterizzava le sue risposte, e ciò a causa della schiettezza e spontaneità che gli erano proprie (Mon. III ix 9-16).
Come si vede fin qui l’esegeta è rimasto pertinacemente ancorato al primo grado, alla lettera, alla dimensione storica dei fatti, in ciò fedele al principio enunciato nel Convivio della priorità del senso letterale sugli altri:
[...] sempre lo litterale dee andare innanzi, sì come quello ne la cui sentenza li altri sono inchiusi, e sanza lo quale sarebbe impossibile ed inrazionale intendere a li altri, e massimamente a lo allegorico. È impossibile, però che in ciascuna cosa che ha dentro e di fuori è impossibile venire al dentro, se prima non si viene al di fuori: onde, con ciò sia cosa che ne le scritture [la litterale sentenza] sia sempre lo di fuori, impossibile è venire a l’altre, massimamente a l’allegorica, sanza prima venire a la litterale (Conv. II i 8-9)
Proprio in base a questa imprescindibilità della lettera, le stoccate del polemista portano sull’eccesso di allegorismo, sulla forzatura esegetica operata dalla controparte che, in modo capzioso, ha stravolto il senso originario del passo evangelico; dando per di più alle parole una portata non concepibile in quel preciso contesto. Si ricorderà, sempre nella Monarchia, quanto Dante, poche pagine prima, e con diretto riferimento alle confutazioni a venire, aveva detto a proposito dell’interpretazione dei testi sacri: si può sbagliare in due modi, o col cercare quello che non c'è — perché non tutto nella Scrittura è portatore di sovrasensi — o coll’interpretare in modo diverso da come si dovrebbe:
Hoc viso, ad meliorem huius et aliarum inferius factarum solutionum evidentiam advertendum quod circa sensum misticum dupliciter errare contingit: aut querendo ipsum ubi non est, aut accipiendo aliter quam accipi debeat. Propter primum dicit Augustinus in Civitate Dei: «Non omnia que gesta narrantur etiam significare aliquid putanda sunt, sed propter illa que aliquid significant etiam ea que nichil significant actexuntur. Solo vomere terra proscinditur; sed ut hoc fieri possit, etiam cetera aratri membra sunt necessaria» (Mon. II iv 6- 7)
È chiaro che agli occhi di Dante gli ideologi papisti — e qui il suo eccesso argomentativo è evidente — sarebbero riusciti a commettere ambedue gli errori perché, se è vero che non vi era alcuna particolare ragione per cercare intenti allusivi o significati reconditi nelle parole di Pietro, ammettendo e non concedendo che essi vi fossero, non era quello il modo corretto di interpretarli; e qui, siamo al nocciolo della questione, Dante fa sfoggio della sua competenza ermeneutica offrendoci due passi paralleli che avrebbero potuto luminare l’eventuale senso dei duo gladii ben altrimenti che le semplicistiche estrapolazioni della parte avversa:
Quod si verba illa Cristi et Petri typice sunt accipienda, non ad hoc quod dicunt isti trahenda sunt, sed referenda sunt ad sensum illius gladii de quo scribit Matheus sic: “Nolite ergo arbitrari quia veni mictere pacem in terram: non veni pacem mictere, sed gladium. Veni enim separare hominem adversus patrem suum” etc. Quod quidem fit tam verbo quam opere; propter quod dicebat Lucas ad Theophilum “que cepit Iesus facere et docere”. Talem gladium Cristus emere precipiebat, quem duplicem ibi esse Petrus etiam respondebat. Ad verba enim et opera parati erant, per que facerent quod Cristus dicebat se venisse facturum per gladium, ut dictum est (Mon. III ix 18-19)
Il nesso che esiste tra la spada di Cristo e le due spade della risposta di Pietro, per l’esegeta, apparirà manifesto alla luce di un processo interpretativo attuato giustapponendo i tre passi, dei quali riportiamo le parti su cui si focalizza l’acume associativo dantesco.
1 a) et qui non habet, vendat tunicam et emat gladium (Luc. XXII 1. 36)
b) ecce duo gladii hic (Luc. XXII 38)
2. non veni pacem mittere, sed gladium (Matth. X 34)
3. que cepit Iesus facere et docere (Act. I 1)
Matteo (2) ha la funzione di conferma del fatto che, nella predicazione di Cristo, il gladius ebbe anche un sicuro valore metaforico; ulteriormente riconoscibile nelle movenze — facere et docere — del Nazareno, come in (3) ancora Luca (autore, in questo caso, degli Atti) esplicitamente afferma; a riprova dunque di quanto egli stesso avrebbe potuto sottendere in (1b) parlando dei duo gladii di Pietro, il cui significato, al termine di questo articolato itinerario esegetico, verrebbe ad assumere una precisa portata simbolica.
I tre passi paralleli sono tra loro connessi da una serie di giunture semantiche e contestuali che ne accreditano l’accostamento: è Cristo che parla di una spada reale in (1a) e metaforica in (2); è Luca che menziona una volta due spade reali in (1b) e facere et docere, i due tagli della spirituale battaglia cristiana, in (3), esplicitando così di fatto (1b). Insomma il passo parallelo (3) è quello che contiene le chiavi, in quanto afferma apertamente ciò che altrove, in (2) era detto sotto forma evidente di metafora, e in (1) era forse occultato nel resoconto di un evento reale. E qui giova riportare, a controprova dei presupposti che legittimano la prassi, questo ben noto luogo di Tommaso:
Unde ea quae in uno loco Scripturae traduntur sub metaphoris, in aliis locis expressius exponuntur. Et ipsa etiam occultatio figurarum utilis est ad exercitium studiosorum, et contra irrisiones infidelium; de quibus dicitur: Nolite sanctum dare canibus (Summa Theol. I 19)
Opportuno a questo punto è chiedersi come Dante individua i passi da porre in consonanza. Oltre le indicazioni contestuali appena viste, quali la replicata testimonianza di Luca e l’ambito delle citazioni circoscritto alla predicazione di Cristo agli apostoli, il modello analogico rigorosamente intratestuale da Dante messo in atto fa anche leva su associazioni e ricorrenze lessicali, semantiche, nonché numerico-strutturali con una assoluta imbricazione dei livelli del significante e del significato, consona d’altronde all’organicità del piano divino, all’armonia tra forme e contenuti nella più generale coerenza dell’universo. Associazioni nelle quali è agevole riconoscere l’impronta di categorie aristoteliche e tomiste certo non ignote a Dante, quali il fatto che sussistano proprietà in comune tra le realtà fra cui si insinua il termine analogico, secondo rapporti in parte uguali e in parte differenti («...de Ness praedicatur secundum rationem partim eamdem, partim diversam» ): il vocabolo gladius, uno nelle parole di Cristo in Luca (1a) e in Matteo (2), e bino in quelle di Pietro (1b). O ancora la «reductio ad unum», la subordinazione del termine analogo ad un solo referente: Cristo, l'elemento unificante le spade di Pietro e le attività che esse sottendono. Come pure l’analogia di proporzioni («analogia proportionalitatis»), di relazioni tra le componenti: due sono le spade (1b) come duplici sono le operazioni di Cristo (3).
L’esempio di esegesi fornitoci dalla Monarchia è estremamente significativo se si pensa oltretutto che esso è da ascrivere ad un’epoca in cui solo i due terzi del poema erano compiuti, venendo dunque a situarsi nel vivo dell’applicazione concreta di questi particolarissimi strumenti espressivi. E infatti ritroviamo la stessa attenzione alle movenze del linguaggio divino, sia pure in un’ottica pedagogica e non più iniziatica, in una didascalia del Paradiso, probabilmente quasi coeva alla stesura della Monarchia, nella quale Beatrice spiega al viator le ragioni nella Scrittura del parlar figurato:
Così parlar conviensi al vostro ingegno,
però che solo da sensato apprende
ciò che fa poscia d’intelletto degno.
Per questo la Scrittura condescende
a vostra facultate, e piedi e mano
attribuisce a Dio, ed altro intende;
(Par. IV 40-45)
Ciò che è capitale è che Dante, attraverso la sua performance esegetica, ci mostra «come mangiare si dee» (Conv. Il i 1) e ci legittima ad esperire questo tipo di lettura analogica alla Commedia che, se doman- data, anche a secoli di distanza dovrebbe poter rispondere in nome di chi la scrisse.
Quale criterio si dovrà dunque seguire per individuare i passi da leggere in parallelo? Facendo tesoro del campione appena visto e quando (com’è appunto il caso delle profezie) l'accostamento non è esplicitamente suggerito dall’autore, come isolare i referenti testuali a partire dai quali sia legittimo riconoscere un uso attivo di questa techne scritturale tra i versi del poema?
È l’analogia che innesca il parallelismo attraverso un singletoniano movimento a ritroso della memoria all’interno del testo, che riporta in superficie vocaboli, immagini, passi, personaggi, interi episodi. E l’analogia, fin da Aristotele, pone le sue basi su proprietà comuni o su somiglianze strutturali tra le realtà in gioco; nel nostro caso specifico l’associazione potrà essere data da:
a) concreti elementi contestuali, quali le condizioni dell’enunciazione, i locutori (se Cristo ha parlato due volte di una «spada» possiamo, con Dante, ipotizzare che il significato potesse esserne univoco), i destinatari, il ricorrere di tematiche o di campi semantici affini o antitetici, nessi etimologici, omonimie, parentele od omologie tra personaggi, caratteristiche topografiche, cromatiche ecc.
b) identità o affinità numeriche o strutturali (come nel caso della dualità delle «spade» e dell’«agire ed insegnare»), la presenza di simmetrie, come quando due passi abbiano lo stesso numero di versi o occupino gli stessi versi o la stessa terzina in canti diversi, o in due canti che hanno la stessa posizione in cantiche diverse, o posizioni simmetriche nell’architettura globale del poema ecc.
c) presenza di riprese di lingua, lessicali (come per il gladius ) o sintagmatiche, di ritorni stilematici, sintattici, metrici, delle stesse parole-rima ecc.
Sarebbe arduo ricavare precisi criteri euristici a partire da questa necessariamente sommaria elencazione, ma, ben consci che analogia non è prova, come pure dei limiti di ogni empiria, imponendoci regole più strette comunque di quelle rispettate da Dante esegeta, considereremo la presenza di affinità su tutti e tre o su almeno due dei livelli a) b) e c) come un indizio che impone la verifica del fatto che i luoghi in questione siano o meno dei passi paralleli. Se poi la via si rivelasse praticabile, l’atto critico che seguirà sarà ovviamente da considerare soggettivo e controvertibile come in ogni esegesi e più che mai in un terreno infido com’è quello sul quale si sta operando. Faremo comunque tesoro delle parole di Agostino: «...non solum admonendi sunt studiosi venerabilium Litterarum, ut in Scripturis sanctis genera locutionum sciant, et quomodo apud eas aliquid dici soleat, vigilanter advertant, memoriterque retineant; verum etiam, quod est praecipuum et maxime necessarium, orent ut intelligant» .