Dati bibliografici
Autore: Massimo Seriacopi
Tratto da: Sotto il velame
Numero: 4
Anno: 1998
Pagine: 58-61
Vivendo in un periodo di grave confusione politica, sociale e spirituale, nella realtà fiorentina, italiana ed europea di fine Duecento e d’inizio Trecento, Dante non può che auspicare ed adoperarsi per un “ritorno all’ordine”, sia attraverso l'impegno politico che, da esule, attraverso le proprie opere.
Questa esigenza è ben presente nelle finalità “didattiche” insite nel Convivio, nel De Vulgari Eloquentia e nella Monarchia, la prima essenzialmente guida culturale-morale per gli uomini di corte europei, la seconda trattato linguistico e di tecnica stilistica, la terza dissertazione politico-sociale e spirituale (perché città terrena e città celeste sono sempre collegate in un rapporto speculare di completamento).
Anche nella struttura e nelle simbologie numeriche adoperate nell’opera principale, in modo più maturo e sistematicamente organizzato e finalizzato, si ritrovano queste esigenze, espresse appunto con le sottili allegorie che alla ricreazione di questa armonia e concordanza degli enti rimandano.
Sottesa ad ogni “espressione numerica” e “figurale” presente nella rappresentazione dantesca c'è quindi sempre una realtà “altra“, più complessa e profondamente correlata, per analogia e per processo anagogico (che prevede il rapportarsi all’eternità ed infinità del piano provvidenziale divino), ad un livello sistematicamente preordinato in cui ogni singola parte è un “tassello di costituzione” del tutto.
Il processo è evidente già nella Vita Nova, all’interno della quale Beatrice viene presentata come “uno miracolo de la Trinitade” e “uno nove” cioè un tre, numero simbolico della perfezione insieme all'unità, elevato al quadrato; e prosegue ordinatamente nell’opera maggiore.
Tre sono infatti le fiere che, nel I canto dell’Inferno vogliono impedire la salita sul colle verso il sole (luce simbolo di Dio) al cristiano, che dovrà così tenere altro viaggio, di ordinaria e puntuale conoscenza delle disposizioni viziose e virtuose dell’uomo; tre sono le donne benedette che gli ottengono la grazia del pellegrinaggio salvifico guidato inizialmente da Virgilio; da un multiplo del tre è composta ognuna delle tre cantiche che presenta i tre regni ultraterreni, considerando il primo canto dell’ Inferno come proemio (33 + 33 + 33); ed ogni canto è scritto in terzine concatenate, si noti bene.
Proseguendo si trova nel terzo cerchio, quello dei golosi, Cerbero, guardia- no che con “tre gole caninamente latra”; e tra i dannati sottoposti alla sua giurisdizione, Ciacco individuerà le “tre faville c'hanno i cuori accesi” a Firenze, Superbia, Invidia e Avarizia, vizi capitali simboleggiati anche nel fondo dell'Inferno dalle tre facce de “lo ‘mperador del doloroso regno”, insieme ad impotenza, ignoranza e odio, a grottesca “imitazione” delle doti divine.
Presentate nel canto IX, tre sono le furie infernali, o Erine (Megera, Aletto e Tesifon), schiave “de la regina de l’etterno pianto”, che invocano Medusa, simbolo della disperazione che pietrifica l’anima impedendole di percorrere la via della salvezza; nove risulteranno, già dalla spiegazione offerta da Virgilio nel canto XI, i cerchi infernali; e, trascurando altre ricorrenze meno eclatanti, si noti almeno, in chiusura dell’episodio narrato da Ulisse nel canto XXVI, il triplice girare nell'Oceano della nave greca prima di sprofondare nell’abisso per volere di Dio ed autodifesa della montagna del Purgatorio.
Su queste simbologie numeriche, sulle corrispondenze strutturali di canti- ca in cantica, sistematicamente organizzate, e sui significati ad esse attribuibili, anche in base a certe indicazioni della filosofia scolastica, aveva già insistito il Pascoli .
A livello della seconda Cantica, i riferimenti proponibili sono quelli relativi alla raffigurazione “visiva” delle Virtù Teologali (VIII 89-93 e XXIX 121-29), a certi “movimenti” di Dante (il tentativo di triplice abbraccio a Casella nel canto II; la discesa della Valletta dei Principi nel canto VIII; ecc.), ai tre gradini di accesso al vero e proprio Purgatorio (canto IX), ai tre vecchi giusti ricordati nel canto XVI, ecc.
È ovviamente nel Paradiso che le ricorrenze e i significati “altri” diventano di maggior peso, e più “scoperti”, relativamente alle simbologie trinitarie: il primo caso notabile è quello del canto X, per l’episodio descritto ai vv. 76- 78, quando gli spiriti sapienti del cielo del Sole dimostrano quanto gradiscano l’arrivo di Dante ruotando intorno a lui e a Beatrice per tre volte; movimento che verrà ripetuto poi al v. 22 e alla fine del canto XXIV (vv. 151-154), e nientemeno che da S. Pietro, dopo la dichiarazione della Fede da parte di Dante.
Ben chiari e diretti anche i riferimenti presenti nel canto XIII (vv. 25-27 in relazione alle tre persone in divina natura) e del XIV (vv. 28-33 sul triplice cantare delle anime); notabili poi la triplice ripetizione in rima del nome di Cristo (XII 71,73 e 75; XIV 104, 106 e 108), ed il fatto che nove siano i cieli paradisiaci, e di conseguenza nove i cori angelici, suddivisi in tre ternari; e va sottolineato anche il riferimento alla “trina luce” di XXXI 28, oltre ovviamente a quello ai “tre giri / di tre colori e d’una contenenza” di XXXIII 116-117: punto d’arrivo, ma anche causa informatrice, per analogia speculare o per diretto contrasto, di tutte le simbologie trinitarie fin qui incontrate.
I significati di tali sistematiche ricorrenze trinitarie vanno infatti ricercati nella volontà di Dante di costruire e riproporre una ordinata ed esaustiva descrizione dell’intero Creato, una polifonia che nasce dalla concordia discordans di ognuno degli episodi relativi ai tre regni oltremondani (ma Dante, notava Contini, vuole insegnare a ben vivere, non a ben morire: l'aldilà è exemplum per la ricostruzione di una società sviata).
All’interno di questo disegno complesso, le simbologie trinitarie vengono a rappresentare, per analogia o per esplicita opposizione, un riferimento a Dio creatore, e alle sue emanazioni nel Figlio e nello Spirito Santo: un continuo riferimento allegorico ed anagogico, quindi, di segno nettamente positivo o duramente negativo, alla Trinità divina e alle doti che le pertengono.
Si noti come tali corrispondenze siano presenti in ogni parte, inanimata ed animata, del creato: strutture fisico-morali, artistiche e raffigurazioni umane o personaggi oltremondani, tutti si propongono come più o meno consonante speculum Dei.
Sarà interessante notare anche come queste allegorie trinitarie venissero considerate dagli esegeti coevi o di poco posteriori a Dante e quindi partecipi del suo stesso patrimonio storico, morale, religioso e culturale.
Il fiorentino Antonio di Tuccio Manetti, redigendo nella seconda metà del Quattrocento una copia del testo della Commedia (tratta da codici boccacceschi), arricchita da alcuni disegni “strutturali” di propria mano e da un sostanzioso commento inedito , notava: “Che ‘l dire di questa Comedia sia velato, questo è manifestissimo, e non bisogna disputa. Ma ch’ e’ sia più velato in uno luogo che in un altro, questo si manifesta nella parte del Purgatorio, agli 8 canti, dov'e’ dice: Aguza qui lettore bene gli occhi al vero”.
Diamogli ascolto: e proviamo almeno a vedere quale interpretazione allegorica venga offerta dalla simbologia trinitaria delle tre donne benedette di Inferno — II, contenuta in un altro commento inedito di fine Trecento ai canti II — V dell’Inferno, da me rintracciato all’interno di un codice della Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze, segnato Pluteo 40.7.
Varrà comunque la pena di valutare il punto di vista di un letterato quasi coevo a Dante, nonostante certe interpretazioni risultino antieconomiche alla comprensione dell’opera: serviranno almeno per riflettere ed approfondire e per una valutazione della storia complessa di un’esegesi dantesca che compie lo sforzo di ricercare i significati “altri” indubbiamente sottesi alla lettera del Poema, come già acutamente sottolineava anche Antonio Manetti, più su citato.
Chiosando i versi 53-54 del secondo canto dell’Inferno (Donna mi chiamò, biata e bella / tal che di comandare io le richiesi) , l'’anonimo esegeta scrive: “Ciò è Biatrice, la santa Teologia. Richiesila che comandasse, sì come quella coscienza e donna sopra tutte le ragione; e Vergilio, il quale è messo per la Ragione, dice questo”.
Poco dopo si affermerà che Beatrice è discesa nel Limbo per ottenere di distogliere il fedele Dante dalla diserta piaggia dei vizi, che lo hanno impedito sulla via della salvezza solo per un tempo determinato, ora giunto alla fine; e, a chiosa del v. 70 (Io son Biatrice che tti faccio andare), si sostiene: “Ciò è, io sono la scienza di tutte le scienze; e muovo te, Vergilio, che sse’ la Ragione, ché sostenghi Dante in suso la buona e santa openione in bene operare”.
Il poeta si proclama quindi disposto ad operare con costanza la virtù, e a studiare “ogni libro ecresiastico con ferma e buona fede “, e “la scienza della santa Teologia, per la quale si conosce Idio”.
È dunque reso “discepolo e fedele della vertude” dalla beata Beatrix, prima delle tre donne benedette.
La seconda, Lucia, viene subito definita come “apportatrice di pienezza di luce” (divina), e, in chiosa al v. 100 (Lucia, nimica di ciascun crudele), si sostiene: “È ragionevole, ché ‘l bene è nimico del male; cosie Lucia è nimi- ca d’ogni pecatore, imperò ch'ella è Ila divina Grazia di Dio”; e subito dopo le si attribuisce anche la valenza di “pietà” e di “bene divino”, ricordando poi come inciti Beatrice a soccorrere Dante che, per suo amore, seppe uscire dalla volgare schiera, “ciò è, levossi da’ pecatori e da vizi, e sseguie il bene e lle vertudi di te, bene divino e pura Ragione”.
Interessanti le chiose immediatamente seguenti, relative al v. 106 (Nonn odi tue la pieta del suo pianto), dove di nuovo Beatrice è presentata come “Biatitudine” e “santa Teologia”, oltre che come “vita di Cristo benedetto”, e Lucia come “Grazia di Dio”; e al v. 118 (D’inanzi a quella fiera ti levai), che fa riferimento all’allegoria presentata ai vv. 49-54 del canto I: “Io, Grazia di Dio, ti levai dall’Avarizia, ciò è lupa, che del bello monte il corto andare ti tolse; ciò è il predetto vizio dell’Avarizia, o vogliamo dire lupa, ti tolse il corto andare del bel monte, ciò è al cielo, il quale è corto andare a chi è bene disposto e bene adopera; ed io, Grazia di Dio, colla tua bontà ti levai dinanzi a quella fiera, ciò è dal vizio”.
Concluderò mostrando come non bisogni mai accettare acriticamente nemmeno l’esegesi di un contemporaneo di Dante, che pure ci ha offerto finora spunti di riflessione preziosi: l’interpretazione della terza donna si svia clamorosamente dall’intenzione dantesca, quando, in chiosa ai vv. 121- 26, relativi appunto al complesso delle tre donne benedette, l'anonimo commentatore scrive: “Quie dice la Ragione all'Autore, ciò è Vergilio (…) Perchè per la viltade o per vizio rimani, che timido istai a non seguire la buona impresa del bene operare? Non temere, poi che tre donne del cielo curano te, ciò è Biatrice, Biatitudine, scienza di vera conoscenza di Dio, chiamata Teologia; Vergilio, posto per la Ragione, tanto bene ti promette, dandoti il volgare e bene dire; Rachele, la quale è posta per la vita contemplativa”, definendo infine queste benedette donne come Biatitudine, Grazia, Contemplagione e Ragione”, trasformandole dunque in quattro, eliminando la Madonna, inserendo impropriamente Rachele soprattutto Virgilio — Ragione nel computo.