Dati bibliografici
Autore: Francesco Zambon
Tratto da: Nuova informazione bibliografica
Numero: 1
Anno: 2022
Pagine: 43-64
Il ruolo cruciale dell’allegoria nell’opera di Dante non è più in discussione dopo i fondamentali studi di Ernest Curtius, Erich Auerbach e Charles Singleton, poi sviluppati in particolare da Jean Pépin e Peter Dronke. Ma nella critica dantesca italiana esso è stato a lungo trascurato o minimizzato a causa del pregiudizio estetico, di origine romantica e idealistica, che vedeva nell’allegoria un procedimento espressivo estraneo se non addirittura opposto alla poesia osteggiando sistematicamente i pochi studiosi che cercarono di metterne in luce e di analizzarne il ruolo nella Commedia e nelle altre opere del poeta. In questo la critica dantesca fu pesantemente influenzata dalle idee di Francesco De Sanctis, eccellente interprete della letteratura ottocentesca, ma del tutto inadatto a comprendere quella medioevale. Nel capitolo dedicato alla Commedia della sua Storia della letteratura italiana egli scriveva: «L’allegoria [...] allarga il mondo dantesco, e insieme lo uccide, gli toglie la vita propria e personale, ne fa il segno o la cifra di un concetto in sé estrinseco [...]. La figura, dovendo significare non se stessa ma un altro, non ha niente d’organico e diviene un accozzamento meccanico mostruoso, il cui significato è fuori di sé» (De Sanctis, 1940, I: p. 155). Ancora più decisa è la condanna che di questo aspetto della scrittura poetica pronunciò Benedetto Croce. Basti leggere ciò che egli scrive nella sua monografia sulla Poesia di Dante: «Checché pretendano e vantino gli investigatori e congetturisti delle allegorie dantesche, nella poesia e nella storia della poesia le spiegazioni delle allegorie sono affatto inutili e, in quanto inutili, dannose. Nella poesia, l’allegoria non ha mai luogo: se ne parla bensì, ma, quando si va a cercarla e a volerla cogliere, non si trova: ombra vana perfino nell’aspetto, nonché nell’abbracciare» (Croce, 1922, p. 20). È ovvio che queste autorevoli prese di posizione scoraggiarono i più a perseguire un simile genere di ricerca e condannarono a una fatale emarginazione chi nonostante tutto cercò, con maggiore o minore successo, di farlo.
Il nome più importante, nell’Ottocento, è quello del siciliano Francesco Perez, autore della dottissima e pionieristica Beatrice svelata (1865). L’autore, che si muoveva con grande competenza nel campo della filosofia e della teologia medioevali, ricostruisce qui le diverse teorizzazioni dell’allegoria in Dante e le mette in rapporto con la cultura del suo tempo, in particolare con la tradizione esegetica cristiana. A partire da queste basi e dalla riflessione averroista e scolastica sulla natura dell’intelletto, egli intende poi dimostrare come il personaggio di Beatrice non sia altro che un’allegoria dell’Intelligenza attiva, che il pensiero cristiano aveva identificato con la biblica Sapienza divina: Beatrice diventa così la beatrice, con la minuscola, cioè colei che conduce l’uomo alla beatitudine. Per quanto discutibile sia la negazione estremistica, da parte di Perez, della stessa realtà storica di Beatrice, pura allegoria secondo lui, la sua interpretazione è solidamente fondata e convincentemente argomentata. Ma fu subito marginalizzata e di fatto esclusa dalle bibliografie dantesche.
Nel suo ampio saggio dedicato a Beatrice, Alessandro D’Ancona, uno degli esponenti più tipici della critica di ispirazione positivista, prende in esame anche il libro di Perez nella sua polemica contro le interpretazioni allegoriche della donna amata da Dante. Egli associa però le sue tesi, in maniera del tutto incongrua, alle fantasie occultiste di Gabriele Rossetti (Il Mistero dell’Amor platonico del Medio Evo, 1840), l’antesignano della corrente ermeneutica che si suole classificare come interpretazione esoterica di Dante. In realtà D’Ancona non sa opporre nessun vero argomento a Perez: egli non nega anzi che «il simbolismo prevalesse nell’età di mezzo, e si estendesse ad ogni forma di artistica e dottrinale manifestazione», ed è pronto persino ad ammettere che «Beatrice allegoricamente raffiguri l’Intelligenza attiva o Sapienza» (D’Ancona, 1915, pp. 124-125). Ciò in cui dichiara di non concordare assolutamente è che Beatrice sia soltanto un’allegoria, cioè che non sia esistita alcuna persona reale e alcuna reale esperienza amorosa a partire dalle quali il poeta abbia ricavato anche dei significati ulteriori. Questa drastica riduzione di Beatrice alla beatrice, in effetti, non sarà generalmente accolta nemmeno dai più autorevoli sostenitori del ruolo essenziale che svolge l’allegoria nell’opera dantesca: per esempio Auerbach, applicandole precisamente la nozione esegetica di figura —- cioè allegoria in factis, prefigurazione reale della rivelazione cristiana nelle vicende storiche dell’Antico Testamento — afferma con decisione la natura al tempo stesso reale e allegorica di Beatrice e degli altri personaggi danteschi: «Per Dante – scrive – il senso letterale o la realtà storica di un personaggio non contraddice il suo significato più profondo, ma ne è la figura; la realtà storica non è abolita dal significato più profondo, ma ne è confermata e adempiuta» (Auerbach, 1963, p. 224).
Ma ciò che più è nociuto alla fortuna del libro di Perez e alla sua inclusione fra i contributi fondamentali allo studio di Dante è stata immediata classificazione dello studioso fra gli esponenti del dantismo esoterico, come Rossetti e Aroux, dal quale invece egli si distingue nettamente: se quelli in effetti interpretavano la poesia di Dante sulla base di idee e categorie storiche del tutto anacronistiche – massoneria, rosacroce, rivoluzione, socialismo – considerandola espressione cifrata di una setta ereticale denominata «Fedeli d’amore», egli applica con grande rigore e dottrina all’opera dantesca concezioni e metodi appartenenti alla cultura, alla filosofia e alla teologia medioevali. Le cose non hanno fatto che peggiorare con la ripresa di alcune sue interpretazioni prima da parte di Giovanni Pascoli, poi del suo discepolo Luigi Valli. La travagliata vicenda degli studi danteschi di Pascoli è ben nota: fin dalla pubblicazione del primo libro, la Minerva oscura, egli incontrò l’opposizione degli esponenti della Scuola storica, in particolare di Francesco D’Ovidio, con il quale polemizzò a lungo, ma in seguito anche di amici come Ermenegildo Pistelli, cosa che lo amareggiò ancora di più. Significative furono anche le bocciature al premio indetto dall’Accademia dei Lincei, al quale egli aveva partecipato due volte, malgrado la presenza nella giuria del suo maestro Giosuè Carducci e il convinto appoggio che gli assicurò Graziaddio Ascoli. Anche senza considerare questi ostacoli iniziali, che indussero comunque Pascoli ad abbandonare il progetto di aggiungere un quarto volume (La Poesia del Mistero dantesco) ai tre già pubblicati e di redigere un sistematico commento alla Commedia, l’interpretazione pascoliana di Dante fu vista in genere dai critici successivi – fino a oggi, malgrado la rivalutazione di alcune sue intuizioni ermeneutiche – come troppo legata alla personale visione politico-morale e all’opera creativa dello scrittore, utile semmai a interpretare la sua poetica e la sua poesia, come ha cercato di fare in modo sistematico Maurizio Perugi.
Un credito ancora minore ricevettero da parte della critica accademica gli studi danteschi di Luigi Valli, che del resto la attaccò con durezza e sarcasmo . Pur rifacendosi per alcuni aspetti a Perez e allo stesso Pascoli, Valli in realtà riprende nella sostanza il paradigma ermeneutico di Rossetti e Aroux, considerando la poesia dantesca e quella dei suoi amici come un vero e proprio linguaggio in codice inteso a veicolare segretamente le idee eterodosse e anticattoliche dei «Fedeli d’amore». Anche se nelle sue opere, come in quelle di Pascoli, non mancano spunti e interpretazioni di valore (persino un rigoroso filologo come Gianfranco Contini ricorse a una sua proposta interpretativa per chiarire un passo indecifrabile del sonetto della Garisenda), le fondate argomentazioni storico-critiche di Perez in esse citate e utilizzate finirono di fatto per essere trascinate nella deriva ermeneutica di quello che Umberto Eco ha chiamato «paradigma del velame» o «interpretazione sospettosa» (Eco, 1989, pp. 9-37). Questo ha fatto dimenticare per molto tempo alla critica accademica dantesca, soprattutto italiana, che è proprio Dante a invitare nell’Inferno il lettore a cercare il senso che si nasconde «sotto il velame de li versi strani», a temere nella Vita nuova «d’avere a troppi comunicato» nelle sue «divisioni» il profondo «intendimento» della canzone Donne ch’avete intelletto d’amore e ad aver applicato sistematicamente nel Convivio una esegesi allegorica alle sue canzoni amorose. Tutto è cambiato dopo gli studi di Curtius, Auerbach e Singleton; ma in realtà le loro interpretazioni dell’allegorismo dantesco si riallacciano idealmente a quella di Francesco Perez, che certamente non conoscevano, partendo dalle teorie medioevali dell’allegoria e da quelle esplicitamente formulate dallo stesso Dante in alcune sue opere.
Uno dei fondamenti di questa prospettiva ermeneutica è in effetti l’applicabilità alla Commedia della tradizionale quadripartizione dei sensi della Bibbia, secondo quanto si legge nella Epistola a Cangrande dove Dante, se la lettera è sua, afferma che il significato della Commedia non è uno solo ma è polisemos, cioè di più significati: letterale, allegorico, morale, anagogico. Non del tutto risolto resta tuttavia, in essa, il problema del rapporto fra questo modello allegorico e la distinzione fra «allegoria dei teologi» e «allegoria dei poeti» che Dante formula esplicitamente nel Convivio (II 1 3); qui infatti il secondo senso - quello allegorico — è definito come «quello che si nasconde sotto ’1 manto di queste favole [cioè le favole de li poeti], ed è una veritate ascosa sotto bella menzogna: sì come quando dice Ovidio che Orfeo facea con la cetera mansuete le fiere, e li arbori e le pietre a sé muovere». Dopo aver distinto da questa l’allegoria dei teologi, Dante dichiara apertamente (II i 4): «Però che mia intenzione è qui lo modo de li poeti seguitare, prendo lo senso allegorico secondo che per li poeti è usato». La difficoltà principale è data dal contraccolpo, per così dire, che questa definizione dell’allegoria provoca su quella del senso letterale; secondo il modello cristiano il senso letterale, spesso chiamato anche storico, comporta una realtà effettiva: quella, in specie, dei fatti narrati nell'Antico Testamento e considerati come tipi o figure della rivelazione neotestamentaria. Completamente diverso è lo statuto della «lettera» in quella che Dante chiama «allegoria dei poeti»: qui infatti - e lo stesso Dante ne è pienamente consapevole - il senso letterale è pura fictio, è soltanto una fabula, una «bella menzogna» sotto la quale si nasconde una verità.
Non è difficile immaginare quale portata avrebbe l’applicazione di un simile modello ermeneutico alla Commedia: la narrazione del viaggio compiuto da Dante nei tre regni dell’Aldilà non dovrebbe essere considerata come il resoconto di un viaggio reale, ma come una bella favola sotto la quale il lettore è invitato a cercare il significato allegorico. Alcuni fra gli esponenti della tendenza critica prima ricordata, come Robert Hollander, hanno ritenuto di poter aggirare la difficoltà sostenendo che lo schema da applicare alla Commedia è quello illustrato nell’ Epistola a Cangrande, dove si parla esclusivamente di allegoria in senso teologico, mentre il discorso relativo all’allegoria dei poeti non sarebbe valido che all’interno del Convivio (Hollander, 1969, p. 29). La tesi sembra a prima vista ragionevole, ma essa comporta forse una eccessiva semplificazione della complessa strategia autoesegetica di Dante; non si può dimenticare, del resto, che la stessa Epistola a Cangrande definisce la forma sive modus tractandi del poema come poeticus e fictivus. In realtà, nell’ Epistola il problema della fictio, dell’allegoria dei poeti, che Dante sembrava aver abbandonato dopo il Convivio, si ripresenta in una diversa luce, ma con eccezionale rilievo teorico, nella finale autoesegesi del primo canto del Paradiso, dedicata essenzialmente al tema dell’ineffabilità. Dovrebbe infatti essere evidente che il discorso sul limite del linguaggio si situa precisamente all’interno del problema del linguaggio allegorico, cioè di quel genere di linguaggio che tende verso il proprio superamento, che — secondo l’etimologia ricordata dallo stesso Dante nell’ Epistola - rinvia a qualcosa d’altro da ciò che dice, qualcosa di alienum, di diversum.
Al paragrafo 28 dell’Epistola Dante si riferisce ai famosi vv. 4-9 del I canto del Paradiso e commenta:
E dopo che il poeta ha detto con la sua circonlocuzione che fu in quel luogo del Paradiso, prosegue dicendo che «vide cose che ridire non può chi ne discende». E ne spiega la ragione dicendo «che l’intelletto si profonda tanto nel suo desire, cioè Dio, «che seguirlo la memoria non può». Per capire questo bisogna notare che l’umano intelletto in questa vita, a cagione dell’affinità naturale che ha con la sostanza intellettuale separata, quando s’eleva, s'eleva a tal punto, che la memoria, dopo il ritorno, vien meno per aver essa trasceso il limite concesso all’uomo .
Segue una serie di esempi biblici – vetero e neotestamentari – di uomini che superarono questo limite, il primo e più significativo di questi esempi essendo naturalmente quello di san Paolo, che fu rapito al terzo cielo «e vide i segreti di Dio, che all'uomo non è permesso rivelare». Continua poi Dante:
Vide dunque il poeta «Cose che riferire non sa e non può ritornando di lì». E si osservi attentamente il fatto che dice «non sa e non può»: «non sa» perché se n’è dimenticato, «non può» perché, se ricorda e conserva la memoria del contenuto, «la lingua però vien meno per lo nostro sermone. Infatti attraverso il nostro intelletto vediamo molte cose per le quali mancano le espressioni verbali; il che a sufficienza dimostra Platone nelle sue opere quando si serve delle metafore; vide infatti attraverso la luce intellettuale molte cose che «nel sermone proprio» non poté esprimere .
L'ineffabile, afferma Dante, è in qualche modo dicibile se la lingua supera i limiti del linguaggio proprio, del linguaggio normale e quotidiano, cioè nella misura in cui adotta un linguaggio allegorico. Ma l’allegorismo cui Dante allude in questo passo non è certamente quello della tipologia cristiana basata sul rapporto fra Antico e Nuovo Testamento: al sermone proprio che non è in grado di esprimere le cose viste con la luce dell’intelletto vengono infatti contrapposti i metaphorismi di Platone.
Il riferimento a Platone è estremamente significativo. I simboli e i miti platonici erano infatti considerati da tutta una corrente del pensiero medioevale fra gli esempi più illustri di quella allegoria poetico-filosofica che nasconde la verità sotto un velo di belle menzogne. Ad essi si riferisce per esempio Bernardo Silvestre – autore che Dante probabilmente conosceva – nel prologo del suo Commento a Marziano Capella, dove afferma che Platone, «pur parlando esplicitamente delle stelle, quando si accinge a parlare misticamente degli spiriti si volge all’involucro, e dice che Oceano e Teti sono figli del cielo e della terra». Il riferimento è tanto più illuminante in quanto rappresenta una delle esemplificazioni addotte da Bernardo del concetto di integumentum, che è nel suo lessico una delle due forme espressive dell’«involucro» (involucrum); l’altra è «allegoria», che egli distingue dall’integumentum in termini esattamente corrispondenti alla distinzione dantesca fra «allegoria dei teologi» e «allegoria dei poeti» . Scrive infatti Bernardo Silvestre (Comm. 40):
L’allegoria è una forma espressiva che, in forma di narrazione storica, cela una verità diversa da quella che si comprende esteriormente, come, per esempio, la lotta di Giacobbe [cfr. Gen 52,25-35]. L’integumento, invece, è una forma espressiva che, in forma di narrazione favolosa, racchiude una verità comprensibile, come, per esempio, a proposito di Orfeo: là infatti, una notizia storica, e qui una favola tengono nascosto un mistero [...]. L’allegoria riguarda la pagina divina, l’integumento la filosofia .
Da una parte (allegoria) il senso letterale è dunque una historia, dall’altra (integumento) è una fabula (come appunto quella di Oceano e Teti evocata da Platone nel Timeo a proposito della creazione del mondo).
Nel rivendicare il significato simbolico della narratio fabulosa, Bernardo si rifà a sua volta alle pagine iniziali del Commento al Sogno di Scipione (I 2,11-12) di Macrobio, dove lo scrittore latino difende dai detrattori, insieme, il mito platonico di Er e lo stesso Sogno di Scipione. Nella sua complessa distinzione terminologica, essi appartengono a quella categoria di fabulae che «si basa su un solido fondo di verità, ma questa verità si manifesta con mezzi fantastici e trovate immaginose (per quaedam composita et ficta): questo si chiama racconto favoloso (narratio fabulosa), non favola» . La distinzione di Macrobio, che non prende in considerazione l’allegoria biblica, non corrisponde dunque a quella di Marziano Capella; ma identica è nei due autori la nozione di narratio fabulosa. E anche Macrobio porta gli esempi dei «riti sacri» o dei «racconti di Esiodo e di Orfeo dove si parla della discendenza e delle gesta degli dei»; e in particolare fa riferimento al mito di Er e al Sogno di Scipione, nei quali, scrive, «la scienza delle cose sacre viene enunciata sotto il velo devoto dell’allegoria (sub pio figmentorum velamine), ricoperta da fatti degni e rivestita da parole pure degne» .
Il mito di Er, con cui si conclude La Repubblica e che è qui considerato come esempio di «fantasia» (figmentum: è precisamente la fictio a essere qui in gioco) che veicola una scienza sacra, consiste – è bene ricordarlo – nel racconto di una discesa nell’Ade nel corso della quale il protagonista può osservare i castighi inflitti alle anime dei morti: uno dei precedenti classici del viaggio dantesco nell’oltretomba. E al possibile significato simbolico di un testo platonico (proprio il Timeo evocato da Bernardo Silvestre) anche Dante allude nel IV canto del Paradiso. Spiegando al poeta perché le anime dei beati, che in realtà dimorano tutte nell’Empireo, gli appaiano suddivise nei vari cieli, Beatrice dichiara che così bisogna parlare a chi, come l’uomo, trae dai sensi tutte le proprie conoscenze; non diversamente – aggiunge – fece la Scrittura attribuendo mani e piedi a Dio (vv. 40-45):
Così parlar conviensi al vostro ingegno,
però che solo da sensato apprende
ciò che fa poscia d’intelletto degno.
Per questo la Scrittura condescende
a vostra facultate, e piedi e mano
attribuisce a Dio e altro intende.
Lo stesso procedimento, continua Beatrice, sembra usare anche Platone quando parla del destino delle anime nel Timeo; apparentemente la sua dottrina non corrisponde «a ciò che qui si vede», ma è più probabile – dice – che si debba interpretarla in senso allegorico (vv. 55-57):
Quel che Timeo de l’anime argomenta
non è simile a ciò che qui si vede,
però che, come dice, par che senta.
Dice che l’alma a la sua stella riede,
credendo quella quindi esser decisa
quando natura per forma la diede;
e forse sua sentenza è d’altra guisa
che la voce non suona, ed esser puote
con intenzion da non esser derisa.
Sono parole che riecheggiano chiaramente quelle con cui Macrobio aveva difeso il mito di Er e il Sogno di Scipione contro coloro che ne irridevano il carattere favoloso. Usando il verbo parlar («Così parlar conviensi al vostro ingegno») per indicare il modo in cui le anime dei beati appaiono ripartite nei diversi cieli ed equiparando questa rappresentazione alle immagini antropomorfiche di cui si serve la Bibbia per raffigurare Dio, Dante sembra voler ridurre l’architettura stessa del Paradiso, la forma della visione paradisiaca, a una finzione letteraria che si adatta alla comprensione e al linguaggio umano, a una fabulosa narratio che altro intende, la cui sentenza – come nel mito platonico – «è d’altra guisa / che la voce non suona». Come hanno osservato alcuni studiosi, l'architettura del Paradiso di Dante va considerata come un integumenium nello stesso senso in cui i platonici medievali lo concepivano a proposito del Timeo, non ha cioè alcuna esistenza, neppure immaginaria, oltre a quella puramente metaforica (Dronke, 1990, pp. 50-51; Freccero, 1989, p. 279).
Non basta perciò parlare qui di semplice allegoria: l’allegoria in questione nel quarto canto del Paradiso, come quella cui allude il passo della Epistola a Cangrande sulle metafore di Platone, non è l’allegoria tipologica cristiana, ma quella dei poeti e dei filosofi, che non ha nulla di storico ma è soltanto artificio del linguaggio, pura metafora, pura fictio. Ed è proprio questo il tipo di allegoria che si apre al discorso sull’ineffabile, cioè sulla natura assolutamente indicibile, superiore a ogni espressione e a ogni linguaggio, del subiectum trattato: l’allegoria che si situa su un piano puramente retorico e fittizio senza alcun referente «storico» rappresenta il limite estremo del linguaggio umano, il diaframma più sottile che si frappone tra noi e le realtà supreme, quel genere di espressione che fa segno di ciò che è propriamente inesprimibile.
Che il riconoscimento della fondamentale ineffabilità della visione narrata, della sua radicale alterità rispetto ai limiti di qualsiasi linguaggio, anche di quello allegorico, si innesti precisamente su una riflessione intorno all’allegoria dei poeti – è quanto confermano i versi del primo canto del Paradiso che fanno immediatamente seguito a quelli citati in precedenza e nei quali è descritto il rapimento estatico, il trasumanar di Dante nella contemplazione di Beatrice (vv. 67-72):
Nel suo aspetto tal dentro mi fei,
qual si fé Glauco nel gustar de l’erba
che ’l fé consorto in mar de li altri dèi.
Trasumanar significar per verba
non si poria; però l’essemplo basti
a cui esperienza grazia serba.
Dietro questi versi si intravede ancora una volta in filigrana la dottrina esposta da Macrobio nella pagina già citata del Commento al Sogno di Scipione. Dopo aver difeso le narrazioni favolose mediante le quali i filosofi enunciano dottrine sacre sub pio figmentorum velamine, lo scrittore infatti precisa che i filosofi ricorrono a elementi favolosi quando parlano dell’anima, delle potestà aeree o eteree e degli dèi; ma aggiunge (I 2,15-15):
Invece, quando la trattazione osa sollevarsi al dio sommo e capo di tutti [...] o alla mente [...], nata e proveniente dal sommo dio [...], non spingono per nulla fino in fondo l’elemento fittizio (fabulosum) ma, se tentano di esprimere qualcosa su tali temi che trascenda non soltanto il linguaggio (sermonem) ma persino il pensiero (cogitationem) umano, ripiegano su similitudini ed esempi (ad similitudines et exempla confugiunt) .
«Però l’essemplo basti», dice dal canto suo Dante: per rappresentare il suo trasumanar egli si accontenta di evocare l’exemplum di Glauco, il mitico pescatore che, dopo aver mangiato un’erba miracolosa, fu trasformato in divinità marina. In Macrobio, l’exemplum e la similitudo costituiscono il limite estremo del linguaggio che, abbandonato anche il piano della fabula, del figmentum, tenta di esprimere qualcosa «che trascenda non soltanto il linguaggio ma persino il pensiero umano»: sono esattamente il «né sa né può» del v. 6 commentato nella Epistola a Cangrande, cioè il venir meno sia della memoria sia del linguaggio davanti all’eccesso della visione. L'exemplum è l’ultima soglia di quel discorso figurato o metaforico, di quella allegoria dei poeti, che ha perfettamente coscienza del proprio essere puro artificio e pura finzione: è l’ultimo sottile velame, l’ultima vagina della quale – come Marsia scorticato dal dio Apollo – bisogna svestirsi per accedere alla contemplazione delle realtà più alte. Ma, nello stesso tempo, è questa anche la forma allegorica che, consapevole della propria natura fittizia, esprime nel modo più adeguato la sua inadeguatezza a rappresentare il formidabile subiectum della visione paradisiaca; ed è perciò il luogo preciso in cui si pone il problema del limite invalicabile del linguaggio umano e si apre il discorso sull’ineffabile.
Anche se Dante mutua la sua distinzione fra allegoria dei teologi e allegoria dei poeti dalla tradizione «filosofica» di Bernardo Silvestre, una distinzione simile era presente anche nell’esegesi biblica medioevale. Certo, come ha mostrato Henri de Lubac con l’ausilio di una imponente documentazione, l’allegoria propriamente cristiana è quella tipologica, consisteva cioè nella profezia dell’incarnazione e della rivelazione di Cristo inclusa nella storia del popolo ebraico narrata nel Vecchio Testamento, quella che Auerbach ha descritto come figura. In essa il rapporto allegorico si istituisce tra due eventi egualmente reali: uno appartenente all’ordine della Legge, l’altro all’ordine della Grazia, il secondo costituendo il compimento e l’inveramento del primo. Ma si tratta di una relazione necessaria e «provvidenziale»: ciò che l’allegoria cristiana presuppone non è tanto un legame arbitrario tra un significante e un significato qualsiasi, quanto invece un piano divino — il «piano della Salvezza». Quando per primo in ambito cristiano san Paolo parlò di άλληγορούμενα («cose dette in senso allegorico») a proposito dei due figli di Abramo (cfr. Gal 4,22- 26) non intese affatto negarne la realtà storica ma solo affermarne la natura profetica. Non si tratta quindi di un semplice artificio verbale; Agostino lo afferma chiaramente nel De Trinitate (XV 1x 15): «Quando l’Apostolo parla di allegoria, non la individua nelle parole (in verbis), ma in un fatto (in facto), nel fatto in cui mostra che i due figli di Abramo, uno della schiava, l’altro della donna libera (non si trattava di parole, ma anche di un fatto) devono significare i due Testamenti» .
È qui abbozzata una distinzione fra allegoria in facto (o in factis) e allegoria in verbis (o dicti) cui Agostino accenna anche altrove, anche se non la formalizza mai in modo esplicito. A teorizzarla esplicitamente sarà il Venerabile Beda in un paragrafo dedicato all’allegoria del suo breve trattato De schematibus et tropis (cap. 12):
Bisogna notare – egli afferma – che l’allegoria a volte è nei fatti, a volte nelle parole soltanto (aliquando factis, aliquando verbis tantummodo fit). Nei fatti, dove è scritto: «Abramo ebbe due figli, uno dalla schiava e l’altro dalla donna libera, e sono i due Testamenti», come dice l’Apostolo. Nelle parole soltanto, nel capitolo IX di Isaia: «E spunterà un pollone dalla radice di Jesse, e un fiore dalla radice di lui si alzerà», con la quale espressione si intende dire che il Salvatore nascerà dalla stirpe di David per mezzo della Vergine Maria .
Perciò l’allegoria in verbis è solo un'immagine, una metafora, «una somiglianza fittizia e contingente, non [...] un’affinità voluta da Dio, come nel caso dell’allegoria in factis» (Strubel, 1975, p.351); essa in fondo non si differenzia dall’allegoria pagana, basata su fabulae e finzioni. E non vi è dubbio che la corrente di pensiero cristiano che ha in Agostino e in Beda due dei suoi esponenti maggiori privilegia decisamente l’allegoria tipologica o figurale rispetto a quella puramente retorica, pur ammettendo anche la presenza di quest’ultima in alcuni passi della sacra Scrittura. Se questa gerarchia non è ancora del tutto chiara in Agostino e in Beda, come in altri autori che ne riprendono la terminologia, essa trova una definitiva sistemazione teorica nella dottrina di san Tommaso, il quale giunge addirittura a includere l’allegoria in verbis nel primo dei quattro sensi biblici: il senso storico o letterale. Per Tommaso si ha infatti senso allegorico o spirituale (termine con il quale egli designa complessivamente i tre sovrasensi tradizionali) solo nel caso delle figurae, dei segni profetici inscritti da Dio nella storia sacra quale è narrata nella Bibbia, figure che gli autori stessi non conoscevano: egli considera infatti il senso letterale come quello che «è inteso dall’autore». Si ha dunque senso spirituale solo nel caso dell’allegoria in factis. Le metafore e gli altri tropi presenti nella Scrittura – come nei testi poetici, per esempio – rientrano nel senso letterale essendo semplici mezzi di significazione voluti da chi scrive: «Le finzioni poetiche – egli afferma in una delle Questiones quodlibetales – hanno il solo fine di significare e il loro significato non va al di là del senso letterale» (VII q. 6 a. 5 ad 2) . Anche nella Bibbia vi sono metafore e finzioni di questo genere, semplici allegoriae in verbis che non hanno di per sé alcun valore spirituale (VII q. 6 a. 2 ad):
Il capro, o altre cose di questo genere, mediante le quali sono designate da Cristo altre persone nelle Scritture, non erano delle cose reali, ma delle similitudini immaginarie (similitudines imaginariae), mostrate al solo scopo di significare quelle persone; pertanto quella espressione con la quale sono designati mediante tali similitudini determinati uomini o regni, rientra unicamente nel senso storico (non pertinet nisi ad historicum sensum) .
Ne risulta così una radicale differenza di statuto tra allegoria in factis, cioè la tipologia biblica, e allegoria in verbis, nella quale è compreso anche ogni genere di finzione: si tratta, come ha scritto Armand Strubel, di una concezione «totale e anzi totalitaria» dell’interpretazione, che «lascia alla creazione letteraria solo uno spazio ridottissimo: quello del senso letterale figurato [...] ed esprime l’idea della superiorità assoluta dell’arte divina» (Strubel, 1975, p. 356). L’allegoria in verbis appare qui non soltanto sottovalutata rispetto a quella in factis, ma anche definitivamente esclusa dall’ambito dell’allegoria cristiana e relegata al rango di semplice ornamento retorico, tropo, artificio formale.
Per parte sua Umberto Eco, che in vari scritti ha analizzato accuratamente questa concezione tomista dell’allegoria, si è interrogato anche sul suo rapporto con le idee espresse nell’ Epistola a Cangrande. Egli prende atto, innanzitutto, che ciò che Dante afferma a questo proposito nel Convivio appare molto diverso da quello che dice nell’ Epistola: mentre là egli dichiarava di voler seguire l’allegoria dei poeti e non quella dei teologi, qui applica alla Commedia lo schema teologico del quadruplice senso della Scrittura. Nel poema però esso è applicato a un testo poetico in aperta contraddizione, a quanto pare, con la dottrina tomista. Per risolvere il problema, afferma Eco, le risposte sono due: se si assume che Dante era un tomista ortodosso non resta che negare l’autenticità dell’Epistola (ma, egli osserva, sarebbe curioso che tutti i primi commentatori ne abbiano seguito le indicazioni); la seconda ipotesi, più economica, è che egli non fosse affatto un tomista ortodosso, opinione del resto sostenuta dai maggiori specialisti di filosofia medioevale che se ne sono occupati (Curtius, Nardi, Gilson). La conclusione sarebbe dunque che per Dante «la poesia abbia dignità filosofica, e non solo la sua ma quella di tutti i grandi poeti» (Strubel, 1975, p. 233); come dimostrano vari esempi nella Commedia e nel Convivio, egli applicherebbe lo schema dell’esegesi biblica anche alla poesia antica e alla mitologia e considererebbe il suo poema come una vera e propria prosecuzione della sacra Scrittura.
Questo giudizio appare pienamente condivisibile e fa luce su molti aspetti dell’opera dantesca. Ma rimane da chiarire un punto essenziale: che ne è di quella che Dante chiama allegoria dei poeti e della sua opposizione all’allegoria dei teologi, cioè – nei termini dell’esegesi medioevale – della distinzione fra allegoria in verbis e allegoria in factis? In realtà la dottrina che privilegia l’allegoria in factis come sola allegoria propriamente cristiana rappresenta soltanto la prospettiva dogmatica, «ufficiale», del cristianesimo medioevale: quella più saldamente ancorata al magistero della Chiesa. Il territorio speculativo che rimane in tal modo escluso è vastissimo: vi rientra infatti gran parte della «gnosi» cristiana ortodossa, antica e medioevale, che ha seguito su alcuni punti cruciali della dottrina strade talvolta distinte, anche se non sempre divergenti, da quelle del dogmatismo ecclesiastico. Furono in particolare gli scritti areopagitici a ispirare, sul versante latino, quella concezione mistica e quasi misterica del cristianesimo che troverà la sua prima grande espressione occidentale in Giovanni Scoto Eriugena. La posizione di Giovanni Scoto non è, in questa materia, per nulla assimilabile a quelle di Agostino o di Tommaso; e per noi il grande interesse dei suoi scritti sta anche nel fatto che, pur seguendo nella sostanza le dottrine di Dionigi e dei Padri greci, egli le riformula in parte nella terminologia degli esegeti latini, trasformandone in maniera eversiva il significato e facendovi affiorare i lineamenti di una diversa concezione del simbolismo sacro.
L’ermeneutica eriugeniana presuppone lo sfondo dell’universo gerarchizzato di Dionigi e del neoplatonismo. Anche per Giovanni Scoto il cosmo non è che una sterminata manifestazione o rivelazione di Dio: una «teofania». In esso Dio si esprime e si conosce: in misura proporzionale al proprio rango ontologico ogni cosa è, nella sua più intima essenza, la conoscenza che Dio ha di se stesso e di se stesso offre all'uomo. Tutte le creature, anche le più infime, contengono perciò una traccia, un’orma dell'Essere sommo: piuttosto che un rapporto di causa ed effetto fra di esse vige un rapporto di segno e cosa significata, il Significato assoluto essendo evidentemente Dio. Questo conferisce all’esegesi simbolica uno statuto di privilegio: infatti in una tale prospettiva, come ha osservato Étienne Gilson, ogni cosa è «essenzialmente un segno, un simbolo, in cui Dio si fa da noi conoscere» (Gilson, 1975, p. 254). E le realtà intelligibili di cui tutte le cose sono i simboli corrispondono per Giovanni Scoto, conformemente alla tradizione platonica, ai loro archetipi o modelli superiori, alle Idee creatrici che eternamente sussistono nel Verbo e con esso, in definitiva, si identificano. Il fine dell’esegesi sarà quello di ricondurre le realtà fisiche ai loro archetipi celesti, di farle «rientrare» nel Verbo che le ha proferite. L'ermeneutica non fa perciò che anticipare, sul piano della gnosi individuale, quello che sarà il destino finale dell’universo: il suo reditus in Dio. Anche la sacra Scrittura adotta questo metodo per innalzarci fino alla theoria o contemplatio theologica, che costituisce il grado supremo dell’interpretazione simbolica.
Il simbolo (symbolum, σύμβολον in Dionigi) assume quindi nella teologia di Giovanni Scoto un enorme valore conoscitivo, in quanto è il mezzo con cui l’uomo può innalzarsi alla contemplazione delle realtà divine (angeli e Dio). Ora, nel Commento al Vangelo di Giovanni (VI 5) egli contrappone esplicitamente la contemplazione mediante i simboli, che ci innalza alle più alte conoscenze spirituali, alla tipologia biblica quale è teorizzata da tutto il pensiero cristiano medioevale e per formulare questa contrapposizione si serve — certo di proposito — della terminologia agostiniana e bediana. Nel corso di una trattazione sui cinque pani e i due pesci del miracolo di Gesù, polemizzando apertamente con Agostino, Giovanni Scoto fa la seguente digressione teorica:
Prima di tutto dobbiamo chiederci quale differenza ci sia tra i «misteri» (mysteria) e i «simboli» (symbola). Propriamente, i «misteri» sono quelli che ci si presentano sotto forma di una «allegoria dei fatti e del discorso» (iuxta allegoriam et facti et dicti), dei fatti perché sono realmente accaduti e del discorso in quanto essi ci vengono narrati [...]. E questo tipo di segni visibili (sacramentorum) è giustamente chiamato dai santi Padri «allegoria dei fatti e del discorso». Vi è poi un altro tipo, il cui nome è propriamente «simbolo» e che viene chiamato «allegoria del discorso e non dei fatti» (allegoria dicti, non autem facti) perché consiste unicamente nei discorsi dell’insegnamento spirituale (in dictis... spiritualis doctrinae), e non in fatti sensibili. Così i «misteri», nel Vecchio come nel Nuovo Testamento, sono fatti avvenuti nella storia (quae... secundum historiam facta sunt) e raccontati dalla lettera (secundum litteram narrata). «simboli» invece non sono fatti, ma discorsi che narrano cose che non sono accadute come se fossero accadute (non facta, sed quasi facta), unicamente in vista dell’insegnamento (doctrina) .
È chiaro che qui l’allegoria facti et dicti (o mysterium) corrisponde esattamente all’allegoria in factis di Agostino e Beda, cioè all’allegoria tipologica: lo conferma anche la citazione da parte di Giovanni Scoto, fra gli altri esempi scritturistici, dello stesso luogo della Lettera ai Galati sui due figli di Abramo riportato da entrambi gli autori a illustrazione dell’allegoria in factis. Quanto all’ allegoria dicti, non autem facti, la sua definizione corrisponde formalmente all’allegoria dicti o in verbis, in quanto non presuppone alcun fatto storico da interpretare e riguarda soltanto la dimensione linguistica: metafore, tropi o finzioni. Ma, a dispetto di tale corrispondenza, essa viene a godere di fatto nella dottrina eriugeniana di uno statuto gnoseologico assai più elevato di quello riconosciuto al primo tipo di allegoria, tanto da sovvertire — e anzi da rovesciare completamente – la gerarchia delle modalità allegoriche stabilita in ambito latino. Infatti, identificazione dell’allegoria dicti con il symbolum dionisiano la associa immediatamente alla grande epopea ermeneutica e gnostica descritta nel Periphyseon.
L’esemplificazione addotta è ancora una volta eloquente. Mentre Beda, come Agostino e Tommaso, si limitava a citare quali esempi dell’allegoria in verbis alcune metafore o similitudini riferite alla Vergine o a Cristo, l’Eriugena conclude la sua trattazione sul symbolum o allegoria dicti con un riferimento scritturistico di ben altra portata dottrinale, il primo versetto del Vangelo di Giovanni: «In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio». E commenta:
Si tratta qui solamente di un discorso che non ci fa conoscere alcun fatto storico. Esso deve perciò essere accolto tutto intero e senza divisione dagli uomini carnali; deve esserlo tutto intero e senza divisione dagli uomini spirituali. Non si può spezzarlo, perché non c’è nulla da intendere in modo storico (secundum historiam), ma tutto si riferisce alla teologia, che eccede ogni pensiero e ogni intelligenza (totum ad theologiam, quae omnem sensum et intellectum superat, refertur) .
Non si tratta dunque di un semplice artificio o piega del senso letterale, come vorrà san Tommaso. Giovanni Scoto introduce l’allegoria in verbis nel cuore stesso della rivelazione cristiana: associandola alla dottrina giovannea del Verbo, non solo egli la mette in rapporto con il mistero più sublime del cristianesimo, ma vi lascia anche trasparire quella che come si è visto è la meta finale del cammino ermeneutico e mistico dell’uomo: il reditus alle «Cause primordiali di tutte le cose, che il Padre stabilì tutte insieme simultaneamente nel suo Verbo» (Periphyseon, III 3, 629a) .
Questa identificazione dell’allegoria dicti o in verbis con il simbolo dionisiano ha delle implicazioni di assoluto rilievo per ciò che riguarda il ruolo della letteratura in quanto tale nella speculazione teologica. Nella dottrina eriugeniana il presupposto fondamentale – e indubbiamente assai ardito – sta nell’idea, più volte espressa dallo scrittore, che le artes liberales (e in particolare quelle più direttamente connesse alla letteratura: grammatica e retorica) non sono un semplice strumento espressivo di cui fa uso la sacra Scrittura come ne fanno anche altri testi: al contrario è la Scrittura a essere in qualche modo «rinchiusa» o «compresa» entro i limiti delle arti liberali, che costituiscono le regole immutabili ed eterne di ogni ragionamento e di ogni linguaggio, sussistenti in unità nel nostro νούϛ o mens, cioè nel nostro organo spirituale più elevato, specchio del Verbo: non si tratta insomma di artifici immaginati dall'uomo, ma di «limiti», «confini» (termini), di una sorta di struttura archetipale della nostra intelligenza creata ab aeterno da Dio nel suo Verbo. In alcuni passi delle Expositiones in ierarchiam coelestem (I 3) Giovanni Scoto sembra addirittura sostenere che non è il νούϛ a produrre le artes, ma le artes stesse sono all’origine del νούϛ. E il Verbo è il loro luogo di confluenza e di unità: «Tutte le arti naturali [cioè liberali] – scrive Giovanni Scoto – concorrono a significare il Cristo in maniera simbolica, arti nei limiti delle quali è inclusa la totalità della divina Scrittura. Poiché non esiste alcun passo della Scrittura dal quale siano assenti le regole delle arti liberali» . Lo stretto rapporto di somiglianza fra le arti liberali e il Verbo-Cristo che così si stabilisce conferma le decisive implicazioni che ha il prologo di Giovanni come esempio dell’allegoria dicti. E di conseguenza lo statuto elevatissimo che ha la «letteratura» nel sistema di Giovanni Scoto: nelle sue cause eterne essa fornisce le chiavi stesse per l’interpretazione della sacra Scrittura. Nel Commento alla Gerarchia celeste (II 1) egli attribuisce esplicitamente questa dignità all’ars poetica, alla fictio:
Così come l’arte della poesia (ars poetica) elabora, mediante favole inventate o similitudini allegoriche (per fictas fabulas allegoricasque similitudines), un insegnamento morale o fisico per esercitare gli intelletti umani – ed è precisamente ciò che è proprio dei poeti epici (heroicorum poetarum), i quali lodano in maniera figurata le gesta e i costumi degli eroi – allo stesso modo la parola di Dio, come una sorta di arte poetica (ita theologia veluti quaedam poetria) modella la sacra Scrittura secondo immagini fittizie (fictis imaginationibus) per adattarla alla nostra intelligenza e innalzarla dai sensi corporei, come da una imperfetta condizione infantile, fino alla perfetta conoscenza delle realtà intelligibili (in rerum intelligibilium perfectam cognitionem), quasi a una sorta di maturità dell’uomo interiore .
Poco importa se Dante conosceva direttamente oppure no questa teorizzazione dell’allegoria in verbis come forma espressiva più alta delle realtà spirituali, alle soglie di ciò che non è più esprimibile mediante il linguaggio, sull’orlo dell’ineffabile. Fatto sta che qui possiamo osservare, in uno dei più importanti e prestigiosi autori cristiani del medioevo, una posizione diametralmente opposta a quella che sarà formulata da san Tommaso sul rapporto fra allegoria tipologica e allegoria verbale, e di conseguenza il riconoscimento di ben altra dignità – in linea di principio perfino superiore a quella della Scrittura stessa – all’ars poetica, alla fictio, alla letteratura. Dante si colloca su questa linea di pensiero: in lui, come si è visto, sono i metaphorismi o l’essemplo a far segno della suprema visione – di quella visione che resta, nella sua essenza, indicibile. Ciò non vuol dire che si debba negare l’applicabilità alla Commedia del modello allegorico dei quattro sensi illustrato nell’ Epistola a Cangrande né che vadano rifiutate le interpretazioni figurali o tipologiche che su di esso si basano: è chiaro che Dante, nella sua fictio, ha voluto attribuire al senso letterale del suo poema (il viaggio ultraterreno) una «storicità» paragonabile a quella della sacra Scrittura e perciò suscettibile di una analoga polisemia. Ma tale modello ermeneutico ha validità solo nei limiti, per usare la terminologia eriugeniana, della fictio, di una narrazione che non può comunque uscire dai confini del linguaggio e della letteratura. Carattere essenziale della visio dantesca è invece la sua irriducibilità al linguaggio e alla stessa intelligenza umana, il suo collocarsi in una dimensione che nessuna allegoria potrebbe mai esprimere. E questo limite della forma allegorica, questa sua costitutiva insufficienza a significare il trascendente (che è poi quella del linguaggio tout court) si rivelano non tanto nell’allegoria teologica – che rinvia semplicemente da un ordine di significati a un altro, parimenti effabile – ma proprio in quella retorica e poetica che, implicando di per se stessa la sua natura puramente linguistica, la sua natura di pura fabula, non può che segnare una frattura abissale tra espressione e oggetto del discorso, tra forma tractandi e subiectum. È perciò questa seconda forma di allegoria a condurre verso quel superamento dello stesso discorso allegorico che si realizza nei momenti più «astratti» e sublimi del Paradiso e che ha la sua illustrazione teorica nella parte finale dell’Epistola.
Quell’allegoria dei poeti che, dopo il Convivio, sembrava sparita dall’orizzonte letterario dantesco a beneficio dell’allegoria dei teologi si rivela insomma come il grado conoscitivamente più elevato del linguaggio umano. Nonché ridursi a una semplice varietà o increspatura del sensus litteralis, come voleva san Tommaso, essa diventa nella prospettiva dantesca – sulla scia della speculazione platonica ed eriugeniana – la cornice stessa entro la quale si dispone la stratificazione dei sensi allegorici e il luogo in cui si dice, si manifesta apertamente la loro insufficienza espressiva, il luogo in cui la fictio si dichiara come fictio. Ciò non significa che la divina visione della Commedia si degradi al rango di una semplice invenzione poetica, di una favola immaginaria che avrebbe in se stessa il proprio senso e il proprio fine. Non si tratta di una riduzione della teologia alla poesia, ma di una promozione della poesia a teologia. Proprio perché dichiara la propria insufficienza e la propria inadeguatezza a dire le realtà divine, l’allegoria poetica di Dante – come l’allegoria dicti o il symbolum di Giovanni Scoto – contiene una verità cui la tipologia non può in alcun modo aspirare. Risalendo più indietro nel tempo, essa si avvicina al mito platonico, a quei metaphorismie a quei racconti la cui sentenza è «d’altra guisa / che la voce non suona» e ai quali lo stesso Dante allude esplicitamente.
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