Dati bibliografici
Autori: Paola Nasti
Tratto da: Letture Classensi
Numero: 50
Anno: 2022
Pagine: 107-121
La Bibbia ha dominato queste pagine, fin troppo cursorie, dedicate agli studi sulla religione di e in Dante. Non poteva essere altrimenti. Come si è più volte ripetuto, per l’esule fiorentino, la Bibbia raccoglie tutte le chiavi per avvicinarsi alla dottrina cristiana, tutte le “istruzioni” per una vita eticamente e spiritualmente giusta, tutte le leggi per un cammino di deificazione, ovvero di imitazione e conformità col divino, tutti i principi per interpretare la realtà — specchio del trascendente. Tuttavia, le questioni affrontate fin qui ci hanno portato a riflettere sulla Bibbia dantesca come dottrina o come esperienza, come auctoritas o luogo del rivelato. Ma la Bibbia è anche scriptura, pagina, verbum attraverso cui dottrina e verità si palesano. Il rapporto di Dante religiosus con il divino — e con il mondo di cui esso è manifestazione — fu materiato di parole, immagini, figure che, frequentate quotidianamente divennero vocabolario dell’esperienza, testura della realtà, linguaggio dello spirito, ma anche modello di retorica ed eloquenza. Che Dante — come tanti altri scrittori cristiani — potesse scrivere more biblico pare dunque una ovvietà. Presentandosi come uno scriba Dei, il nostro non imita una tradizione testuale e sacra ma “parla” la lingua della Bibbia inserendosi — per mandato — in una genealogia di profeti ed evangelisti ispirati da Dio. E questo il dato che nello spazio fra questo centenario e quello scorso, su stimolo delle letture geniali di Auerbach prima e di Singleton poi, è entrato con forza negli studi danteschi . Nell’opera di questi due colossi degli studi del secolo XX — è forse superfluo ricordarlo — gli stili e i modi della Sacra Scrittura sono fatti interagire con il linguaggio comico del poeta, il profetismo e la pratica dell’allegoresi ma anche con la struttura e la finalità della sua opera. Auerbach, in particolare, ha lasciato due grandi, eppure onerose, eredità a chi si interroga sul rapporto fra Dante e la tradizione biblica: la lettura figurale della Commedia e l’identificazione del sermo humilis come chiave per interpretare in senso scritturale la poesia del nostro. A queste chiavi di lettura Singleton aggiunse la necessità di considerare l’allegoria in factis di stampo biblico come il modello interpretativo ideale richiesto dal poema dantesco. Da allora — fatta eccezione per alcuni casi che esamineremo — non ci sono state altre grandi proposte capaci di stravolgere il disegno tracciato da questi grandi medievisti. Non solo. Nonostante l’acribia, gli studi su Dante e la Bibbia avrebbero forse potuto aggiungere di più a quanto si sapeva quasi un centenario fa su queste grandi categorie della biblistica medievale: figura, allegoresi e sermo humilis. Ciò non vuol dire che non si sia riusciti ad arricchire ognuna di queste “categorie” attraverso quella che, nella seconda metà del XX secolo, è stata una intensa ricerca delle fonti. Sulle tracce di Moore, molti hanno giustamente considerato la Bibbia innanzitutto come una sorta di thesaurus o come fonte di citazioni o sententiae nel tentativo — riuscito — di illuminare episodi, temi, o passi della poesia e della prosa dantesca alla luce della parola di Dio . Questi studi hanno cioè trattato la Bibbia come intertesto letterario ricostruendo le fitte filigrane intertestuali che, come già gli antichi commentatori notavano, legano i testi danteschi alla tradizione scritturale” . Il lavoro di archeologia testuale svolto dai dantisti è straordinario e meriterebbe di essere messo a sistema. Tuttavia, non è solo la mancanza di una Summa Bibliae sub specie Dantis a mancare. Forse più problematicamente, allo scadere del settimo centenario, la discussione sulla Bibbia come fonte letteraria continua ad eludere la specificità dell’intertestualità biblica in un contesto religioso. Raramente ci si chiede cosa pensassero gli uomini medievali sull’atto di citare e riusare la Bibbia nel XIII secolo. Ancor meno si studia in che modo la Bibbia fosse considerata “letteratura”, né si considera frequentemente quali fossero le qualità attribuite al verbum ispirato da Dio. Ma le eccezioni a questa tendenza mi paiono fondamentali. Per avvicinarsi alla Bibbia di Dante ed esplorare le strategie imitative e citazionali del testo sacro adottate dal nostro in maniera più storicamente e filologicamente cogente, negli ultimi trent’anni, studiosi come Barafski, Pertile, e poi — oltre a chi scrive — Maldina hanno innanzitutto iniziato a studiare la multiforme tradizione della Bibbia così come essa veniva letta, commentata ed esperita nel tardo medioevo da esegeti o lettori professionisti. Gli esempi più chiari di questo cambiamento di metodo sono due libri fondamentali: Dante e i segni di Baranski e La puttana e il gigante di Lino Pertile . Altri, con più o meno enfasi sulla tradizione esegetica, hanno seguito un simile approccio a Dante e alla Bibbia applicandolo anche ad altre opere di Dante oppure concentrandosi sistematicamente su libri o su scribae Dei specifici: Paolo , Salomone , Geremia , l’Apocalisse , i Vangeli , il Genesi, e infine Davide, che, portato alla “ribalta” da Barolini nel suo innovativo Dante’s poets , si presenta oggi come il profeta più importante per capire l’identità e la retorica biblica di Dante . Lo studio di ciascuna di queste “tradizioni” e di questi “autori” ha rivelato come l’esegesi medievale di storie, personaggi, motivi e simboli biblici possa far luce sul loro intricato riuso nel testo dantesco aiutando i lettori a comprendere il contesto della citazione e allo stesso tempo la trama di significati teologici, spirituali e politici che Dante poteva sperare di intessere nei suoi versi con una “semplice” citazione o allusione biblica. Gli studi su Dante e la Bibbia hanno anche mostrato come i libri sacri non fossero solo fonti tematiche, ma anche modelli di generi e modi letterari. I commentatori medievali commentarono spesso il genere e lo stile dell’Antico Testamento: che si trattasse del genere della lode (Salmi, Cantico dei Cantici), della Commedia (Cantico dei Cantici), o dell’elegia (Lamentazioni, Salmi, Giobbe), gli esegeti erano spesso in grado di comparare questi libri con quelli dei pagani e talvolta usare la retorica ciceroniana o oraziana per descriverne le sfaccettature letterarie. A partire da queste acquisizioni, basate soprattutto sugli studi di dantisti come Baranski, gli studi dell’ultimo ventennio hanno mostrato come Dante abbia assunto un genere o un’identità autoriale per esplorare le diverse potenzialità dei segni linguistici intesi come portatori di verità presenti e future. Il paradigma davidico analizzato da Maldina palesa ad esempio il modo in cui la voce di Davide poteva essere imitata per espiare attivamente i propri peccati, dichiararsi umili e allo stesso tempo guadagnare il favore e l’ispirazione divina attraverso il canto di lode . Geremia, ampiamente indagato da Martinez, fu invece il modello elegiaco più potente a disposizione di Dante, più forte di Boezio, per la sua capacità di rendere conto del dolore come forma di imitatio Christi. Dal suo canto, il Cantico dei cantici offrì a Dante le trame narrative e gli spunti teologici per rappresentare il dramma dell’ordinatio amoris rielaborato nella Vita nova e nel Convivio oltre che nella Commedia. È impossibile vagliare tutti i libri o i luoghi biblici che — secondo l’indagine della critica — furono utili al dettato dantesco, ma non possono mancare all’appello innanzitutto il magistero e la retorica paolina, più volte esaminati da Ledda, la cui forza modellizzante è apertamente dichiarata da Dante in Inferno II. Come scriba Dei e religioso militante, San Paolo è l’esemplare su cui Dante informa il senso del proprio apostolato, ma anche della propria missione di theologus capace di istruire i fedeli sui misteri divini — come la grazia o l’imitatio Christi — perché scelto da Dio per predicare. La scelta di Paolo non è ovviamente casuale, visto che a Paolo si deve la traslazione da un modello veterotestamentario di profezia ad una nuova e cristiana cognizione — anche figurale — del carisma delle lingue e della profezia. Come rilevato dagli studiosi che si sono occupati di Paolo, gli scritti dell’apostolo stanno al cuore della concezione medievale delle visioni, della profezia e della “retorica” religiosa. È nelle lettere paoline che il poeta trovava esaltata la profezia come carisma — divino e non naturale — utile all’edificazione, all’esortazione e alla consolazione degli uomini. Illuminato dallo Spirito, il profeta è, secondo la scrittura di Paolo, colui che interpretando la rivelazione si fa poi anche maestro di dottrina e predicatore:
Sectamini caritatem, aemulamini spiritualia: magis autem ut prophetetis. Qui enim loquitur lingua, non hominibus loquitur, sed Deo: nemo enim audit. Spiritu autem loquitur mysteria. Nam qui prophetat, hominibus loquitur ad aedificationem, et exhortationem, et consolationem. Qui loquitur lingua, semetipsum aedificat: qui autem prophetat, ecclesiam Dei aedificat. Volo autem omnes vos loqui linguis: magis autem prophetare. Nam major est qui prophetat, quam qui loquitur linguis; nisi forte interpretetur ut ecclesia aedificationem accipiat. Nunc autem, fratres, si venero ad vos linguis loquens: quid vobis prodero, nisi vobis loquar aut in revelatione, aut in scientia, aut in prophetia, aut in doctrina? (I Cor. 14, 1-6)
Come mi è capitato di commentare, la profezia — nel senso paolino che Dante condivise — è dunque un dono che illumina l’intelletto, ma che raggiunge la sua utilità solo quando perfezionato dalla carità:
Si linguis hominum loquar, et angelorum, caritatem autem non habeam, factus sum velut aes sonans, aut cymbalum tinniens. Et si habuero prophetiam, et noverim mysteria omnia, et omnem scientiam: et si habuero omnem fidem ita ut montes transferam, caritatem autem non habuero, nihil sum. (I Cor. 13, 1-2)
È per questo allora che il canto paradisiaco in cui Dante sceglie di mostrarsi perfetto teologo, capace di argomentare la sua materia seguendo argomenti filosofici ed autorevoli (e dunque anche biblici), è proprio il canto dedicato alla carità, virtù che Dante dichiara essere rifocillata — anzi raddrizzata — non solo dalla contemplazione intellettuale e biblica ma dalla certezza di vivere grazie all’amore (di Dio). Se dunque Paolo è fondamentale per capire in che modo Dante interpretasse il suo carisma profetico, da un punto di vista “immaginifico”, la tradizione più importante per il discorso escatologico e profetico allestito dal poeta fu senza dubbio l’Apocalisse, libro che ispirò tutta la letteratura visionaria e gioachimita del XIII secolo. E perciò comprensibile che per decenni questo testo, glossato e illustrato, sia rimasto il luogo privilegiato per investigare la modalità profetica di Dante; e tuttavia mi pare importante che negli ultimi anni stia emergendo con sempre maggiore chiarezza la necessità di ampliare il canone profetico dantesco (in prospettiva biblica). In questo senso una proposta molto interessante viene da Maldina che in un saggio già citato ha mostrato come in alcuni testi esegetici medievali sui Salmi, la penitenza fosse la chiave dell’elezione profetica di Davide e dunque della futuribilità del profetismo veterotestamentario post Christum . L'ampliamento della prospettiva fornito da questo tipo di studi sulla profezia è un buon esempio per capire come un genere, un tema o un modus scribendi di natura “religiosa” poteva essere effettivamente pensato da un poeta medievale come Dante.
Queste brevi note non fanno giustizia al difficile e fecondo lavoro dei dantisti che hanno portato alla luce, attraverso il “metodo” storico-filologico, il vasto materiale che forma l’immaginario o l'enciclopedia biblica medievale e dantesca. Eppure, nonostante il campo sia in crescita, c’è ancora spazio per considerare questioni più teoriche quali la relazione di Dante con le teorie medievali sui modi della scrittura biblica, sull’ispirazione, sull’allegoria e sulla figuralità ma anche sulla retorica e l’eloquenza come modi della rivelazione. Proprio sull’allegoria è necessario a mio parere un rinnovato sforzo esegetico negli studi danteschi. Una volta al centro di tutte le discussioni sul Dante poeta-teologo , secondo il modello stabilito da Nardi e discusso polemicamente da Hollander, l’allegoria biblica è rimasta una questione spinosa per i dantisti poiché — almeno per i lettori contemporanei — essa ruota attorno allo statuto di verità da attribuire alla narrazione del viaggio dantesco . Essa si basa, come sappiamo sul presupposto che per imitare la Bibbia, il poeta considerava il suo poema una allegoria in factis, ovvero una narrazione polisemica che è vera in ognuno dei quattro sensi biblici: il letterale, il mistico, il tropologico e l’anagogico. La difficoltà avvertita dai laici del XX secolo nell’accettare la veridicità del livello letterale della Commedia, quello del viaggio, indusse Singleton a formulare il famoso aforisma: la Commedia è una finzione che proclama di esser vera. La stessa difficoltà ad accettare una visione della vita in cui il terreno partecipa al trascendente e viceversa ha spinto, ormai trent'anni fa, Barolini a teorizzare la necessità di sottrarsi alla rete del poeta e alla sua richiesta di credere nell’assoluta veridicità, in factis, del suo viaggio e della sua ispirazione sacra . Ma accogliere le “pretese” di veridicità di Dante sarebbe forse più facile se capissimo più a fondo l’evoluzione della riflessione tardomedievale sull’allegoresi. In un articolo di qualche anno fa , ho proposto come la discussione sulle modalità di lettura e di scrittura biblica in Dante potrebbe essere ripresentata sulla base di studi più recenti dedicati all’allegoresi biblica che hanno dimostrato come, anche nell’esegesi biblica, l’interpretazione del senso letterale dovesse fare i conti con il fittizio e la natura metaforica (0 parabolica) di molti racconti biblici. Lo studio dell’esegesi medievale mostra come verità e “storia” non sempre coincidano, e il fittizio potrebbe infatti contenere maggiori valori di veridicità se divinamente voluto. Ciò che rende vera la lettera è l’ispirazione, l’infusione della parola che seconda la lezione I Cor. 2, 13, viene dettata dallo Spirito con esattezza secondo una forma ben precisa — anche “poetica” o parabolica. Che queste non fossero questioni esegetiche fuori dalla portata di Dante lo dimostra una bellissima e sottovalutata chiosa di Guido da Pisa, in cui il frate carmelitano classicheggiante, sensibile tanto alla cifra letteraria dell’Inferno dantesco quanto alla sua retorica biblica e profetica, considerò la Commedia anche come una imitatio bibliae:
Et ideo iste liber dicitur Comedia, que est quoddam genus poesie ad quam spectat vera integumentis poeticis et propheticis ambagibus nubilare. Unde iste autor, quamvis theologus et fidelis, tamen ad cognoscendum Deum et adscendendum ad ipsum poeticas scalas facit. Et in hoc imitatus {Mss. have imitatis} est non solum Platonem et Martialem, sed etiam Salomonem, qui more poetico condidit Cantica Canticorum, ex quibus gentiles sibi epythalamia vendicarunt. Et tanto maior poeta omnibus aliis est censendus, quanto magis sublime opus ipse composuit, non solum de Inferis, ut simplex poeta loquendo, sed ut theologus de Purgatorio ac etiam [de] Paradiso, quantum homo aliquis subtilius ymaginari potest, ad utilitatem omnium viventium venustissime pertractando .
In questa riflessione critica sui modelli della Commedia, che ho già avuto modo di commentare, Guido porta alla luce un nodo della discussione medievale sui modi della scrittura biblica: nel XIII secolo, la Bibbia divenne oggetto di valutazioni estetiche ed artistiche ad opera di interpreti che ne apprezzavano la pluralità degli stili e dei generi, la compresenza dei registri, le tecniche di composizione, i colori retorici. In questo contesto, che portò poco dopo alla classificazione dei libri biblici anche a criteri che oggi definiremo letterari, molteplici furono le disquisizioni sul rapporto fra finzione, favola e storia nella Bibbia. Per l’esegeta tardomedievale, come palesa la glossa di Guido, interi libri o passi della Bibbia furono scritti anche more poetico, ma il sensus literalis della fabula, della parabola non era per questo da intendersi come menzognero. La Bibbia, cioè, andava interpretata nel senso in cui è scritta dallo Spirito. Per un frate come Guido, le parabole vanno interpretate come parabole, i simboli come simboli, la poesia come poesia, le lettere come lettere. Ma poiché — come sappiamo — secondo gli esegeti e i teologi medievali, la parola divina, così come essa era immaginata in mente Domini, è polisemica, lo sforzo dell’interprete doveva ricostruire anche i sensi figurali, mistici/allegorici e anagogici di ciò che è scritto. Il tema dell’allegoria biblica in Dante, dunque, potrebbe essere rinnovato attraverso un esame più aggiornato della storia dell’esegesi biblica, delle riflessioni teologiche sulla parola di Dio e sull’ispirazione biblica e divina. Lo studio dell’esegesi tardo medievale ci libera infatti dalla necessità di credere nella storicità del viaggio dantesco, la visione in quanto divinamente ispirata — almeno così crede l’homo religiosus — è vera e, come la storia del Cantico dei Cantici, può dunque essere interpretata anche secondo i sensi dell’allegoria dei teologici.
Come l’allegoria anche il sermo humilis andrebbe ridiscusso con nuovo vigore. Senza forse interrogare la categoria di Auerbach, i dantisti hanno adottato il sermo humilis come la fenomenologia letteraria della finzione profetica messa in scena da Dante, hanno spesso considerato gli aspetti ideologici della questione linguistica” ma hanno più raramente discusso concretamente gli aspetti formali — il lessico, la struttura — che questo stile potrebbe o dovrebbe assumere. Ma cos’è davvero il sermo humilis? E in che modo uno scrittore medievale poteva praticarlo? In che modo uno scrittore poteva “imparare” questo stile che è letterario — e dunque esistente nella tradizione — ma che per i credenti è anche ispirato e dunque “dettato” dall’alto? In una serie di saggi seminali sulla linguistica biblica e sulla lingua di Dante, Baranski ha segnalato l’importanza di approfondire lo studio della Bibbia per comprendere le radici etiche del sermo humilis . Ma come esistono caratteristiche formali del linguaggio etico e sapienziale nella Bibbia? E in che modo il sapienziale differisce o si sovrappone all’etico? Ulteriori studi per capire come il sapienziale e l’etico fossero intrecciati ma anche distinti nel contesto medievale potrebbero aiutare a definire la questione dell’ispirazione e della lingua biblica dalla prospettiva dello storico della filosofia e della teologia. Ma la dimensione etico-sapienziale non esaurisce il caleidoscopio del carisma scritturale e profetico. Dalla mia specola, questo concetto ancora sfuggente è tutt'uno con l’esegesi dei Testamenti, ovvero di racconti che si consideravano ispirati o affidati ai ventriloqui della Parola. Come è noto, la tradizione esegetica medievale si basava infatti su un sistema semiotico che, andando oltre i limiti del senso letterale, indicava altre dimensioni della realtà e qualità del tempo che si credevano (e credono) esistenti nella mente di Dio. Queste dimensioni erano nascoste in quello che gli esegeti chiamavano il senso spirituale della sacra pagina: a questo livello di significazione la Bibbia raccontava cose — persone, eventi — “esistenti” altrove nel tempo e nello spazio. Così concepita, la polisemia biblica affrontava la relazione ontologica tra natura, storia e grazia, ed era al centro di una visione partecipativa del mondo che vedeva l’universo di Dio come attivo, animato e co-creativo. Ma a ben vedere, sostenendo l’esistenza del senso spirituale, mentre cercavano di stabilire il significato mistico, morale e anagogico della Scrittura, gli esegeti affermavano di poter condividere in buona parte non solo la conoscenza che Dio ha di se stesso ma anche la parola così come è presente nella mente divina. Come raccontava Remigio dei Girolami ai fiorentini in un sermone predicato in volgare durante una processione a favore della pace cittadina al tempo della discesa di Carlo di Valois (1 novembre 1301), non solo l’ispirazione ma anche l’esposizione — attraverso la lettura o lo studio della virtute Dei verbum — erano considerate vie necessarie alla cogitatio Dei e alla vita virtuosa, oltre che alla giusta predicazione:
Sine virtute Dei verbum Dei non possemus cogitare, iuxta illud II Cor. 3[,5] «Non sumus sufficientes cogitare aliquid ex nobis quasi ex nobis, sed sufficientia nostra ex Deo est». Item sine virtute Dei non possemus cogitata proferre, iuxta illud Ps. [67,12] «Dominus dabit verbum evangeligantibus virtute multa». Item sine virtute Dei non possemus prolata virtuosa facere, iuxta illud Ps. [67,34] «Dabit voci sue vocem virtutis» .
Gli esseri umani, dichiaravano i teologi cristiani, non possono conferire alle cose un significato intrinseco, possono semplicemente creare metafore. Tuttavia, nella pratica, l’esegesi di queste metafore contribuiva a creare quello stesso vocabolario e quel linguaggio divinamente ispirato che essi consideravano il fondamento ontologico del mondo. Applicata a Dante, questa tradizione esegetica permette di comprendere come il poeta potesse concepire l’intertestualità biblica non come semplice ripresa di parole e narrazioni autorevoli, ma anche come partecipazione al Verbum che è nella mente divina, e quindi alla Creazione. Approfondire lo studio dell’esegesi di tropi, parabole e parole bibliche può rivelare come il poeta abbia potuto apprendere un linguaggio “letterario” che si riteneva avesse un valore ontologico, un linguaggio che affermava di essere la forma stessa dell’universo. Il mio impegno di dantista è stato e sarà continuare ad esaminare come, sulla base della tradizione esegetica, il poeta abbia creato un sistema linguistico in cui le parole di peso biblico possono essere interpretate secondo i quattro sensi dell’allegoresi, producendo così una rete di catene di sensi su diversi livelli di lettura e realtà (figurale, mistica, anagogica). Anche questa mi pare una frontiera da attraversare per capire in che modo Dante potesse attribuire alla sua poesia quella virtus che gli esegeti attribuivano al verbo divino. Lo studio della Bibbia e dunque il suo riuso intertestuale sono infatti parte del carisma dello scriba dei: gli apostoli e lo stesso Gesù studiavano e citavano le parole dei profeti per dimostrare l’inveramento delle volontà divine, e dunque la potenza del Verbo che agisce e si rinnova nel tempo. Dante esegeta della Bibbia è dunque per me il Dante scriba Dei che impara a considerare la complessa stratificazione della parola divina, e che dunque può scrivere, sentendosi chiamato a farlo a seguito di una esperienza mistica e spirituale, in una lingua che non è solo sua ma comunitaria, una lingua che appartiene alla Bibbia, alla sua secolare esegesi e — per chi ci crede — alla mente divina.
Nonostante l’entusiasmo di chi scrive per questa chiave di lettura, è chiaro che anche l’esegesi non basta, bisogna continuare ad esplorare la liturgia, la teologia, la predicazione, la teologia degli affetti e la metafisica medievale, l’antropologia e la psicologia religiosa attraverso lo studio di nozioni come la co-inerenza, ovvero, per dirla con Dante, del modo in cui, nel medioevo, gli esseri umani sentivano di “inluiarsi” in Dio per poi riportarne la voce. Quest'ultima mi pare una delle più grandi sfide future per chi voglia davvero capire come studiare il sermo humilis e i modi della sua “riproduzione”. Il futuro degli studi sulla cultura religiosa di Dante ha stanze ancora da scoprire, ci vuole però il coraggio di accettare la diversità di Dante, non de-teologizzandolo ma accettando la sua esperienza religiosa come altra eppure reale, e dunque tutta da ricostruire.