Dati bibliografici
Autore: Sergio Cristaldi
Tratto da: Dante e la critica letteraria. Una riflessione epistemologica
Editore: Rombach, Freiburg
Anno: 2015
Pagine: 99-123
Vero o non vero? L'alternativa, si sa, è pertinente rispetto a un enuncia- to denotativo, magari ampiamente espanso, assurto a discorso articolato e complesso; mentre perde ogni plausibilità in relazione a un poema o a un romanzo, che per statuto la eludono. Lo scenario, i personaggi e l’azione di un’opera letteraria sussistono nella cornice dell’opera stessa; chiedersi se abbiano o meno riscontro nel mondo reale, un riscontro diretto, punto per punto, dall’inizio alla fine, è semplicemente fuor di luogo. Se non che, il capolavoro di Dante ha insinuato proprio un dilemma del genere, e non solo nel pubblico naif Erano le donnicciole di Verona, d’accordo, a spiare ingenuamente il profilo del poeta, cercando di sorprendervi i segni della faticosa escursione nell’oltremondo; ma è toccato a interpreti di spessore interrogarsi sull’attendibilità del resoconto dantesco, sul suo eventuale aggancio a un vissuto.
La posizione maggioritaria, in un panorama ermeneutico frastagliato, ha ribadito che la Commedia è una finzione poetica, escludendo ogni ricezione disponibile al fideismo. Questa posizione si è già delineata all’uscita del poema, conquistando d'emblée il dominio nell’ambito degli incipienti, e pur rapidamente cospicui, studi su Dante, ha conservato per secoli un’egemonia incontrastata e può vantare oggi un largo ascolto. Eppure, essa ha subìto, nel tempo, contraccolpi non indifferenti, accusando una serie di metamorfosi con vistose alterazioni dell’assetto di partenza. Seguirne la parabola — il che significa ripercorrere la storia della critica dantesca nei suoi snodi più importanti, almeno sino all’epoca, abbastanza recente, in cui prendono ad affacciarsi, con insistenza sempre maggiore, punti di vista alternativi — dà un primo sentore della complessità della questione.
A presentarsi sono anzitutto i commentatori del Tre e Quattrocento, artefici di un'iniziale ma imprescindibile lectura Dantis. Va detto subito che essi non vogliono rimuovere il vettore conoscitivo e morale della Commedia, al contrario, si preoccupano vigorosamente di tutelarlo; sono convinti, però, che esso conviva, in felice simbiosi, con un vettore di altra natura. Gioverà tener presente il correlativo scenario culturale, indispensabile a valutare una mossa molto determinata nonché coronata da notevole successo, tanto da occupare subito tutto il campo esegetico senza lasciare spazio, per molto tempo, a impostazioni diverse. In verità, lo scenario in questione non era esattamente propizio a Dante e alla sua opera: gli interpreti della prima ora, soprattutto quelli trecenteschi, dovettero anzi organizzare una difesa, e su due fronti opposti, contrastando una tenaglia che portava uguale insidia da una parte e dall’altra. La fortuna della loro soluzione dipese proprio dal fatto che essa ruppe l’accerchiamento, a partire, s’intende, dalle risorse teoriche allora disponibili. Ma quali erano le ipoteche attive e così preoccupanti? Da un lato, incombeva su Dante un sospetto di eterodossia volto a un esame severo delle sue opere e non solo limitato a una controversia, magari accesa e intransigente. Controversia era certo quella imbastita dal domenicano Guido Vernani nel suo pamphlet aspramente polemico De reprobatione Monarchiae, redatto nel 1329 a denuncia di presunti errori filosofici e teologici; e se veniva qui eletto, quale bersaglio, il trattato politico sull’Impero, non mancavano strali contro la Commedia, accusata di sofistica frode a danno dei suoi lettori. Imputazioni non irrilevanti, dati i tempi. Purtroppo, c'era di peggio: la violenta intolleranza del cardinale Bertrando del Poggetto, che in quel di Bologna destinava senz'altro la Monarchia alle fiamme e avrebbe voluto vedere sul rogo anche le ossa dell’autore. L’ortodossia di Dante andava dunque tutelata; non meno che le sue spoglie mortali, custodite dalla pietosa Ravenna. Come se non bastasse, si allungava sulla produzione dantesca un’ombra di diverso genere, la riserva della filosofia scolastica sull’attendibilità in genere della poesia, «infima doctrina», da accostare con accorta consapevolezza dei suoi limiti. La cultura del tempo, così fervidamente attenta ad Aristotele, ne ignorava tuttavia la Poetica e la sua giustificazione della poesia in nome del verosimile, tanto è vero che Tommaso d’Aquino aveva cercato la concezione aristotelica della poesia in un’altra opera dello Stagirita, la Metafisica, rivolgendosi in particolare a uno squarcio relativo ai poeti più antichi. Scrittori teologizzanti, costoro, intenti, secondo Aristotele, a indagare le cause originarie, ma sprovvisti, sempre a detta del Filosofo, di debite attrezzature, e difatti inventori su base fantastica di cosmogonie mitiche, ancora al di qua di risultanze teoreticamente affidabili. Postillando questa pagina aristotelica, Tommaso aveva sottoscritto il lucido, abrasivo profilo degli arcaici autori filomiti e si era sentito in diritto di rimarcare – a proposito di un detto di Simonide sull’invidia propria agli dei – la connaturata mendacia dei poeti in genere: «in multis [...] mentiuntur». Qualche decennio dopo, alle soglie del XIV secolo, il domenicano Giovannino da Mantova avrebbe ribadito le tesi tomistiche, entrando in attrito con Albertino Mussato: primo atto di una querelle che doveva coinvolgere, più tardi, personalità di primissimo piano come Petrarca e Boccaccio.
Diviene allora comprensibile la strategia adottata dai commentatori trecenteschi della Commedia; il che non significa affatto che questa strategia risulti pacifica e senza interne difficoltà. La sua manovra conosce sostanzialmente due mosse. I commentatori in questione scelgono di lavorare con categorie come fictio e fabula, le categorie che, in un’epoca ancora ignara del verosimile aristotelico, qualificavano spesso il prodotto letterario. Le aveva adoperate Dante stesso, quelle nozioni, rispettivamente nel De vulgari (II, iv, 2) e nel Convivio (II, i, 3); non le aveva però incluse entro la Commedia. Questo passo compiono senza esitare i suoi esegeti. Al tempo stesso, essi avvistano nel tessuto dell’opera una filigrana sapienziale di ingente spessore e ne fanno il punto d’arrivo della fruizione, chiamata a passare dall’ornamento alla sostanza, dal compiacimento estetico al nutrimento intellettuale.
Proviamo ad avvicinare i riflettori. Pietro Alighieri, che qui assumiamo come esponente emblematico di uno schieramento, lo assicura a più riprese, a scanso di equivoci: finge, l’autore del poema sacro, «fingit», né si potrebbe opinare diversamente. L’appello di Pietro è anzitutto al buon senso, in seconda battuta ai meccanismi del discorso figurato:
Nam aliqua juxta literam intelligi nequeunt; nam literaliter talia accepta non instructionem, sed errorem inducerent. [...] Nam quis sani intellectus crederet ipsum ita descendisse, et talia vidisse, nisi cum distinctione dictorum modorum loquendi ad figuram? Nam non est ipse literalis sensus ipsa figura, sed id quod est figuratum; nam et cum scribitur brachium Dei, ut in Joan. 22. ex dicto Isaiae, non est sensus quod brachium Deo sit, sed id quod per brachium significatur, scilicet virtus operativa. Amodo cum auctor loquitur et describit talem et talem in Inferno, Purgatorio, et Paradiso, cum dictis sensibus diversimode intelligatur, ut poeta, cujus officium est ut, ca quae vere gesta sunt, in alias species obliquis figurationibus cum decore aliquo conversa traducat, secundum Isidorum.
Va notato che Pietro asserisce il carattere fittizio del viaggio come un’assoluta evidenza, alla quale non è necessario accludere alcuna dimostrazione. Si tratta di additare un presupposto che sta nitidamente: basta un’interrogativa retorica, un invito alla ragionevolezza e la partita col dubbio è chiusa una volta per tutte. Da precisare che la palese irrealtà viene attribuita all’argomento in sé e per sé, prima di ogni considerazione sul discorso particolare che lo veicola: è la vicenda come tale a riuscire, secondo Pietro, manifestamente non vera. Presso un lettore dell’età di mezzo, un atteggiamento del genere può apparire singolare: discese o ascese nell’aldilà erano di casa nei testi medievali, tanto che avevano dato vita a un vero e proprio genere, quello delle Visiones Animarum, dotate di salda presunzione veritativa, nonché avallate da menti teologiche non proprio alle prime armi. Ma Pietro è presumibilmente condizionato dall’offensiva contro la memoria del padre, e vuole ammortizzare la sporgenza di pagine che in un clima sfavorevole possono prestare il fianco: se occorre scansare pulpiti maldisposti, riparare la Commedia da diffidenze astiose, allora l’eventualità di una pretesa referenziale da parte dell’autore va messa fuori gioco e nel modo più drastico. Quella pretesa non è stata mai avanzata per il semplice motivo che è impossibile avanzarla. Chi ne avrebbe l’ardire? E chi presterebbe fede? È sintomatico che Pietro porti il ragionamento sul versante della ricezione: nessun lettore dotato di un minimo di equilibrio può credere a un viaggio oltremondano. Come dire che le accuse di fraudolenza a carico di Dante non sono soltanto sprovviste di ogni fondamento, ma si rivelano tendenziose, frutto di un equivoco in realtà voluto, e voluto a scopi pesantemente denigratori.
La visita dell’oltretomba è dunque una figura, e figura a stretto contatto col figurato, come il biblico braccio di Dio, espressione dove il senso letterale coincide col figurato stesso. La Commedia, del resto, è opera poetica, e ufficio del poeta, teste Isidoro di Siviglia, è volgere le res gestae in trasposizioni indirette, apprezzabili per la loro nobiltà espressiva.
Con tutto ciò, Pietro è persuaso di avere fra le mani un testo filosoficamente e teologicamente denso, e non vuole esporlo all’imputazione tipica della Scolastica, all’addebito insomma di approssimazione imperfetta e deficitaria, non all’altezza della verità, anzi irreparabilmente scissa dalla fondata e rigorosa dottrina. Il suo approccio trova, pertanto, una decisiva integrazione: mentre protesta che in causa è una finzione, egli ne opera il riscatto postulando un sostrato veritativo, vena aurifera del senso che l’analisi è in grado di raggiungere e portare alla luce. Quando Pietro stabilisce che la discesa del protagonista all’Inferno è il corrispettivo fantastico di una discesa «ad infimum statum vitiorum» smentisce una ricezione ingenua o peggio in malafede, e al tempo stesso promuove un messaggio nei suoi valori epistemici. Il commutatore in grado di volgere la finzione in ammaestramento, le menzogne in lezioni sostanziose è l’allegoresi, procedimento istituzionalmente deputato, in sede esegetica, a transvalutare i discorsi, con la sua tipica articolazione fra superficie e profondità, esterno e interno.
Questo approdo non manca di complicazioni. Ragionando sulla coppia di figura e figurato, e sostenendo che il senso letterale è lo stesso figurato, Pietro si pone nel solco di Tommaso d’Aquino; solo che la consonanza è episodica. Tommaso, in effetti, negava un aggancio della figura retorica all’allegoria, e si limitava in quel caso ad ammettere, in luogo di un senso allegorico, un meno impegnativo senso parabolico, immanente, appunto, allo stesso senso letterale; ma diniego e precisazione rientravano in un'impostazione complessiva e ben calibrata. Per l’Aquinate, è lecito parlare di senso letterale e di senso allegorico solo in relazione a un fatto implicante un altro fatto (non a proposito di una finzione implicante un fatto o una teoria) e dunque in esclusivo riferimento alla Sacra Scrittura; va sconfessata, per conseguenza, l’estensione dell’allegoria alle scritture profane. Ora, Pietro può riecheggiare le analisi tomistiche solo parzialmente ed episodicamente; prima di quella sua prudente puntualizzazione sul figurato come «literalis sensus» — e non solo prima, ma anche dopo – non esita ad attribuire l’allegoria alla Commedia. Il fatto è che questo testo gli si rivela esorbitante. Da una parte è una fictio che racchiude un insegnamento, come i poemi antichi secondo l’interpretazione medievale, o come i poemi mediolatini del XII secolo; in quanto tale, presenta un combinato dove il manto, il velamen – in evidenza per la sua bellezza, e pur lecito per la sua propedeuticità – è involucro favoloso che avvolge il nocciolo riposto e vero. Dall'altra parte, la Commedia ammaestra sui misteri soprannaturali, sugli aspetti salienti della fede cristiana. Così Pietro finisce per assegnarle i soprasensi biblici, rifacendosi alla terminologia e ai relativi contenuti dell’esegesi dei teologi, che nella Sacra Scrittura ravvisavano, sotto il terreno della historia, il giacimento prezioso dell’allegoria, per specificare poi quest’ultima in senso allegorico (in accezione stretta), tropologico e anagogico. Un diagramma nato in sede teologica viene dunque applicato a un’opera profana. Il risultato è un dispositivo ermeneutico ibrido, che pone una littera favolosa e la promuove mediante l’allegoria, coi suoi sensus mystici di provenienza scritturale; e se Pietro, nella prima redazione del suo commento, articola la lettera stessa in una lunga serie di sottopartizioni, all'altezza della seconda e terza redazione, risolvendosi a uno sfoltimento, converge senz'altro su uno schema a quattro uscite, dove la favola occupa semplicemente il primo livello e i sensi mistici si aggiudicano gli altri tre.
Per quanto discordante dall’ortodossia tomistica, questa decodifica del testo dantesco riesce ad ogni modo largamente fruibile. Anche i teologi, difatti, si cimenteranno col poema polisemico, scrutando il doppiofondo dei personaggi e dell’azione. Nel Quattrocento, il francescano Giovanni da Serravalle, vescovo, maestro in sacra doctrina, nonché emissario pontificio al concilio di Costanza, tornerà a puntualizzare, riprendendo una terminologia diffusa fra i commentatori trecenteschi, che la Commedia non verte sull’oltretomba essenziale, e cioè vero, bensì su quello immaginario, inseguendo però, in questo modo, un obiettivo tutt’altro che disimpegnato. Coltiva infatti l’ambizione, il poema dantesco, di influire sulla condotta dell’uomo e di condurlo al paradiso essenziale: giudizio che rivendica la corrispondenza della Commedia non solo a esigenze dogmatiche, ma inoltre ai dettami pratici della teologia morale. Anche la filosofia, peraltro, poteva trovare il suo utile nella dialettica tra corteccia esterna e occulto midollo. Nella Firenze quattrocentesca, teatro di una rifioritura platonica, Marsilio Ficino aveva accreditato l’idea della poesia come rivelazione trasmessa sotto il velo di immagini sensibili; sulla sua scia, Cristoforo Landino promuoveva la Commedia come allegoria rivelatrice delle verità del platonismo. Ciascuna delle tre cantiche esprime una fase della peregrinazione dell’anima, la quale precipita nella prigionia terrena, prende a purificarsi da quell’infausta contaminazione e infine attinge felicemente l’immedesimazione con Dio, a chiusura di un circolo esemplato sullo schema dell’exitus e del reditus, di remota ascendenza plotiniana. Già sintomatica, in apertura, la chiosa in margine alla selva dove il protagonista si smarrisce: «È adunque la sententia del testo io mi ritrovai in una selva obscura, il che importa ‘io m’accorsi l'animo mio essere sommerso nel corpo per la contagione et tenebre del quale havea perduto la diritta et vera via’».
Il ricorso a una chiave ermeneutica come l’allegoria abilitava il superamento dell’alternativa secca tra vero e falso. Ma l’assunzione del senso letterale come menzogna simpliciter non doveva suonare estrema o, magari, generica, specie col crescere della fama di Dante e il declinare delle imputazioni a carico? Nel Medioevo, non si era mai smarrita una scansione già adombrata da Cicerone e quindi messa in chiaro dalla Rhetorica ad Herennium, scansione che integrava l’opposizione historia/fabula con la categoria intermedia di argumentum, relativa a ciò che non è accaduto ma può accadere. A veicolare questa eredità era stato Isidoro di Siviglia. Come abbiamo visto, Isidoro riporta il discorso poetico alle figurazioni indirette; è anzi così perentorio a riguardo da decretare l'esclusione di Lucano dal novero dei poeti. Al tempo stesso, egli raccoglie, in Di altro passo della sua grande enciclopedia, la serie historia/argumentum/fabula, trasmettendola ai secoli successivi. L’intellettuale che, nel Basso Medioevo, si mostra estremamente sensibile a questo ordine di problemi è Boccaccio, il quale, nella Genealogia deorum gentilum, delineando una teoria della finzione poetica, ne esplora accuratamente il livello letterale, fino ad avanzare un prospetto basato sul coefficiente di verità che la littera di volta in volta presenta. Rispetto alla tassonomia divulgata da Isidoro, termine di riferimento (immediato o mediato) dei medievali, Boccaccio, a dire il vero, si distingue, privilegiando la nozione di fabula, architrave del suo sistema, categoria comprensiva e sovraordinata; egli, comunque, non esautora per questo le alternative che quella tassonomia suggeriva. Il racconto favoloso, identificato senz’altro con la poesia, presenta una partizione in quattro tipi, all’interno della quale il vero storico e ciò che al vero si avvicina ottengono di nuovo diritto di cittadinanza. Si va da una favola priva, nella corteccia, di ogni verità (Esopo), a una specie successiva che «in superficie non nunquam veritati fabulosa conmiscet» (Ovidio), a una terza diramazione «potius historie quam fabule similis» (Omero e Virgilio); appendice di scarso peso, una quarta voce, relativa alle invenzioni deliranti e sprovviste di spessore allegorico proprie delle vecchiette. Notevole l’affiancamento costante di esempi poetici ed esempi biblici: ai primi tre casi, la Sacra Scrittura offre propri riferimenti, rispettivamente l’apologo che Ioatham enuncia nel Liber Iudicum, le visioni profilate dai libri profetici, le parabole di Gesù. Allo scopo di promuovere la poesia, di autenticarne l’espressività peculiare, la Genealogia individua un terreno comune con il Libro per eccellenza; beninteso, a fungere da puntuale corrispettivo sono scorci della Bibbia contraddistinti dal linguaggio figurato, non ascrivibili dunque alla vera e propria allegoria teologica, che resta esclusa dal parallelo. Ora, quest'elaborazione teorica, cospicua e accuratamente ponderata, anche perché nel solco della lunga diatriba trecentesca sulla natura e la legittimità del linguaggio poetico, collocava Boccaccio in posizione ottimale per indagare pure la littera dantesca, il peso specifico delle sue invenzioni. Una possibilità effettivamente sfruttata?
Chi accosta le Esposizioni sopra la Comedia, estrema manifestazione del culto di Boccaccio per la figura e l’opera di Dante, trova certo, presso l’Accessus e presso lo strategico commento al canto I dell’Inferno, l’apologia dei poeti e la correlativa polemica contro i loro detrattori; trova ugualmente la legittimazione di un velame favoloso, gravido, come nei poemi antichi, di un’inestimabile sapienza; ma cercherebbe invano un sondaggio sul grado di verità del senso di superficie. Perché la littera del poema dantesco, col suo itinerario di un vivo tra i morti, è palesemente e inesorabilmente definita da un’assoluta estraneità al vero? Se sottotraccia agisce questo presupposto, congiura con esso il peso ingente dell’allegoria, che assorbe parte non esigua dell’attenzione. Boccaccio è ben presto coinvolto dal senso «che sotto la roza corteccia delle parole è nascoso», e si mobilita allora a chiarire come quest’ultimo risulti, in accezione sovradeterminata, «allegorico», per poi scindersi in «allegorico», «morale» e «anagogico». Torna qui la commistione del paradigma letterario del velamen col diverso modello rappresentato dall’allegoria biblica e l’impegno teorico a pro del sostrato mistico e dei suoi canonici livelli eclissa l’esplorazione della superficie testuale già condotta nella Genealogia. Il passo non è una mera digressione, a garanzia di un’attrezzata competenza dottrinale, poiché Boccaccio sta fissando un programma ermeneutico, quel lo appunto funzionale all’analisi del poema:
E per questo, agutamente pensando, forse potremmo del presente libro dir quello che san Gregorio dice, nel proemio de’ suoi Morali, della santa Scrittura [...]; per ciò che, recitando della presente opera la corteccia litterale, con quella insieme narriamo il misterio delle cose divine e umane, sotto quella artificiosamente nascose. E in questa maniera intorno al senso allegorico si possono i savi essercitare e intorno alla dolceza testuale nudrire i semplici, cioè quegli li quali ancora tanto non sentono che essi possano al senso allegorico trapassare.
Secondo Gregorio, il testo biblico equivale a un fiume in cui l'agnello cammina e l’elefante nuota: è prerogativa della Sacra Scrittura, infatti, rifocillare i piccoli con la sua superficie ed esercitare le menti più elevate con la sua profondità, il che sollecita un’interpretazione in grado di condurre dall’una all'altra. Ebbene, anche l’interprete della Commedia dovrà nutrire i principianti con la crosta esteriore in modo da irrobustirli e condurli al nucleo segreto. Fedele a questo caposaldo, il commento di Boccaccio si presenta regolarmente bipartito, proponendo, per ogni canto, dapprima l’esposizione «litterale» e successivamente quella «allegorica». A contare non è più la dialettica interna alle belle invenzioni, più o meno attendibili, bensì quella tra invenzioni (inattendibili) e sapienza veicolata; occorrerà semmai sceverare come si articoli questa sapienza, con le sue proprie e consacrate partizioni. Passando dalla Genealogia alle Esposizioni, accostando un poema da molti già paragonato alla Bibbia, non quanto alle acque del racconto, allettante miraggio, bensì quanto all’oceano degli insegnamenti, apprezzabile realtà, la poetica teologica era quasi fatalmente destinata a quest’esito.
Un’indagine significativa sul tipo di finzione del poema sacro, con verifica della effettiva distanza tra lettera e realtà, si sarebbe sviluppata solo più tardi, all’altezza del XVI secolo, dopo la svolta determinata, nella coscienza letteraria, dall’acquisizione e valorizzazione della Poetica di Aristotele. La sensibilità culturale del pieno e tardo Cinquecento, segnata dalle indicazioni dello Stagirita, ha guadagnato la corrispondenza fra letteratura e verosimile, anzi ha ricollocato, con una mossa decisa, l’intero sistema letterario sotto quell’esponente, riconosciuto come marca decisiva, come irrinunciabile discrimine fra ciò che nel sistema può rientrare e ciò che invece deve esserne escluso. Il taglio della riflessione, normativo e non descrittivo, porta inevitabilmente a selezionare le opere (recenti o remote) sul tappeto, studiosamente soppesate, di volta in volta riconosciute compatibili o meno, adeguate o abnormi, ed è su questa falsariga che la discussione raggiunge anche la Commedia dantesca. Nessuno, beninteso, intende rinunciare, per il momento, all’allegoria; ma è altrove, ormai, il centro dell’attenzione. Poiché il verosimile si affaccia non solo quale risorsa teorica, ma anche e indissolubilmente quale imperativo, non mancano atteggiamenti censori, privi dell’opportuna duttilità, che provocano comprensibili reazioni. Si sviluppa così un dibattito acceso, con fazioni contrapposte, in luogo di quella sostanziale unanimità che aveva avallato, per almeno due secoli, l’ascrizione del poema alla fictio. A dar fuoco alle polveri è, nel 1572, un Discorso che prende a circolare manoscritto in quel di Firenze, a firma (ma è uno pseudonimo) di Ridolfo Castravilla; irriverente discorso, se pretende di assodare l’imperfettione della Commedia di Dante, non senza aperto rifiuto del Dialogo delle lingue del Varchi, che del poema sacro aveva invece tessuto l’elogio. Nella nutrita batteria di obiezioni schierate dal Castravilla, ai sensi della Poetica aristotelica e delle sue presunte regole, il problema del verosimile ha forte spicco; secondo l’intransigente polemista, la Commedia avrebbe disatteso questo parametro, risultando così priva di un requisito fondamentale. Per tutto lo sviluppo della polemica, questa resterà una leva in mano agli antidantisti: tornerà a brandirla, ad esempio, Belisario Bulgarini, sottolineando che un argomento quale quello della Commedia, contrassegnato da evidente falsità e dunque percepito da ogni lettore come senz’altro impossibile, non è nemmeno idoneo a suscitare lo scatto della «maraviglia», visto che a «maravigliare» sono le cose che effettivamente accadono, sia pur di rado, «delle quali [...] non se ne sa né comprendesene la cagione». Soggetto all’incipiente sensibilità controriformista, tale giudizio dà comunque il senso dell’accresciuto interesse per l’azione in sé del poema sacro, per la maggiore o minore plausibilità che il singolare viaggio presenta. Quanto agli apologeti, imbastivano la difesa ispirandosi per lo più agli stessi principi, invocando il medesimo paradigma; persuasi che da Aristotele si potessero trarre, invece, conclusioni a favore.
Assertore a sua volta del verosimile, ma a pro di Dante, Iacopo Mazzoni fonda la credibilità del percorso oltremondano sulla potenza assoluta di Dio, perfettamente in grado di consentire l’eccezionale trasferta; a rincalzo, valorizza la scelta del modo narrativo, sicuramente appropriata e funzionale. L’argomentazione muove evidentemente dal duplice modello di genere sublime che la Poetica aveva consegnato, nel suo impegno ad accreditare la tragedia da un lato, il poema epico dall’altro; è indubbio, ragiona Mazzoni, che una rappresentazione «in palco» dei trapassati sarebbe stata, essa sì, contro «le leggi del credibile», ma Dante ha adottato un’altra strategia, stimando che la vicenda dovesse «riuscire assai più verisimile», e insomma perfettamente a norma, se «narrata da una sola persona viva», intenta a raccontare «quello che non si può rappresentare». L’opzione ha centrato l’obiettivo:
Non voglio anchora restare di sovraggiungere un altro avertimento c’hebbe Dante nella compositione di questo suo Poema, et è, ch’egli lo volle comporre narrativamente, e non rappresentativamente, sapendo che nel modo narrativo si comportano alcune cose, che hanno dell'incredibile. Anzi che in quel genere di Poesia, elle riescono maravigliose; ma che nel modo rappresentativo le cose che hanno tanto, o quanto dell’incredibile riescono fredde e ridevoli.
Non devono sfuggire due rilevanti implicazioni, tanto più significative in rapporto all’approccio tre-quattrocentesco che abbiamo esposto in precedenza. Intanto, la certificazione di verosimiglianza rilasciata da Mazzoni — sia pure con quell’ammissione finale, relativa a una falda di «incredibile» ricoperta dal modo narrativo - intacca il pregiudizio di palese e insuperabile impossibilità stabilito all'indomani della pubblicazione del poema, pregiudizio sfociante sull’equazione di littera e fabula, con il secondo termine non attenuabile in un parziale avvicinamento al vero. Inoltre, il coinvolgimento dell’alternativa tra rappresentare e narrare, e la conseguente messa a fuoco del carattere narrativo della Commedia, da riportare dunque, secondo il diagramma di Aristotele, all’epos, portava inevitabilmente con sé il riferimento al poema eroico, che la cultura tardo-cinquecentesca faceva senz'altro coincidere col poema epico; ed era pista foriera di ulteriori incrementi del senso letterale.
Andiamo per ordine, partendo da un interrogativo che sollecita questi intellettuali, costantemente alla ricerca di un equilibrio tra ipostatizzazione della regola e riconoscimento della concreta produzione letteraria. È ammissibile un poema eroico in cui il protagonista non sia un eroe, bensì un privato cittadino? Se lo era già chiesto il Castravilla che, fedele alla sua rigida divisa precettistica, aveva risposto di no, aggiungendo un tassello ulteriore alla delegittimazione di Dante. Con più equilibrio torna a ragionarne Vincenzio Borghini, avvertendo che due erano le possibilità a disposizione, eleggere a protagonista del viaggio un eroe, oppure dispiegare una serie di incontri fra il protagonista e figure di eroi: Dante ha scelto la seconda, evocando Capaneo, Giasone, Diomede, Ulisse e, fra i moderni, Giustiniano, Carlo Magno, Orlando e Federico di Svevia. È indubbio: molti altri personaggi non possiedono affatto statura eroica, ma Dante non poteva limitarsi a stagliare individui d’eccezione, sia perché intendeva offrire eloquenti esempi del malcostume dell’epoca, sino ai livelli più bassi e abietti, sia perché non si prefiggeva di formare personalità di cavalieri d’onore, rivolto com'era all’ideale ecumenico del «vero e perfetto cittadino, uomo e finalmente cristiano». Come si vede, l’attenzione alla lettera del testo dantesco capta un aspetto rilevante, quello appunto del protagonista, e del protagonista in quanto individuo particolare, coi suoi panni inconfondibili di cittadino di Firenze; aspetto fatalmente in ombra nell’approccio allegorizzante, che sacrificava il profilo specifico del viaggiatore risolvendolo nell’astrazione indifferenziata dell’anima itinerante, inscritta nelle fasi di una dinamica universale, valida per tutto il genere umano. Vero è che l’ipoteca regolistica svia prematuramente l'indagine, la irretisce in una quaestio accademica e vischiosa; e anche un lettore assennato come il Borghini si ferma a discettare sulla liceità, nel genere narrativo più blasonato, di un titolare dell’azione sprovvisto di rango superiore. Alla fine, egli trova una via d’uscita nell’appello allo stile, nel vanto del sommo verso, degli «ornamenti», delle «parole gravi» che tirano congiuntamente «al grande e al magnifico», come a un poema di questa altezza si conviene. Opera sostanzialmente a norma, in definitiva, la Commedia, e se non per il protagonista, sicuramente per l’espressività: così assicura una conclusione paga del suo risultato, mentre la sagoma del fiorentino partitante ed esule rischia di essere riassorbita dallo sfondo e con essa l’andata a immortale secolo.
Quando l’a priori normativo si scarnifica e si impoverisce, come avviene nel Settecento, o almeno in quel Settecento pago di ipostatizzare la chiarezza e il buon gusto, l’indicatore rappresentato dal verosimile perde importanza; chi lo invoca come prova a carico ne ragiona di passata, in un accenno inabile a suscitare controdeduzioni impegnate. Lo si constata scorrendo le fortunate e famigerate Lettere Virgiliane che Saverio Bettinelli redige a promozione di un nuovo corso letterario, libero dai vincoli della tradizione e, anzitutto, dal precedente oneroso della Commedia, opera quanto mai greve – agli occhi di questo gesuita spregiudicato e, a modo suo, audacemente «moderno» — per la farraginosa oscurità, per l’affiggente sermoneggiare. Tutto si perdona, concede Bettinelli, in grazia dello stile, ma soltanto se è stile «elegante, chiaro, armonico, sostenuto», dalle «immagini» apprezzabilmente «colorite e nobili, e con grazia e venustà contorniate» e, in aggiunta, dai «pensieri» sempre «giusti, verisimili, nuovi, profondi»; e a Dante queste doti, tutte «indispensabili e necessarie», difettano. Basta osservare quali ingredienti siano cooptati e posti sullo stesso piano – anzi gerarchizzati, l'eleganza apre la serie a braccetto con la chiarezza — per rendersi conto dello spazio che in Bettinelli possono trovare i nodi problematici emersi nel maturo Rinascimento. E anche il verdetto finale, con quell’insistenza sull’inaccettabile arbitrarietà, sulla deriva eccentrica — onde il bando inflitto alla Commedia dai poeti greci e latini, inclusi quelli di indole filosofica —, addita piuttosto un difetto di proporzione e di misura che un peccato di flagrante irrealtà, e se investe gli stessi argomenti ne lamenta la bizzarria anziché la distanza dal vero:
Fu dunque deciso che Dante non dovesse aver luogo tra loro, non avendo il suo poema veruna forma regolare e secondo l’arte. Esiodo, Lucrezio e gli altri autori di poemi storici o filosofici, a’ quali parca più tosto appartenere, ricusaron d’ammetterlo, se non si purgava di tante finzioni ed invenzioni capricciose e non ragionevoli, che forman peraltro una gran parte dell’opera.
La soluzione finale patrocinata da Bettinelli, inflessibile nella scomunica c disposto semmai al recupero di una quota minima di pezzi poetici, da cucire in tre o quattro canti con modica appendice di versi isolati (quelli refrattari a ogni integrazione, ma fruibili a mo’ di sparse sentenze), travolge irreparabilmente il motivo conduttore, evacua sia la catabasi che l’indiamento. E a questo punto, non resterebbe gran che, nei ritagli sopravvissuti, a insidiare la credibilità.
Basteranno pochi decenni perché lo scenario cambi radicalmente: il tramonto del letterato e l’avvento, tra preromanticismo e romanticismo, di un diverso paradigma intellettuale determinano un brusco rialzo delle azioni di Dante, spingendo la Commedia ai vertici del canone italiano, anzi senz’altro del canone occidentale, in compagnia di pochissimi altri prodotti della cultura moderna. Il profondo riassestamento assurgerà com’è noto a matura coscienza nell’attività critica di Francesco De Sanctis, artefice di un diagramma della letteratura italiana nel quale Dante viene eletto a riferimento strategico, non solo in quanto culmine dominante, ma in quanto unità di misura di ciò che dopo si affaccia, e risulta più o meno ricevibile a seconda della maggiore o minore affinità a quel punto originario ed esemplare. L’abito storicista guida il critico a snidare le concrete ragioni di uno svolgimento letterario che gli appare piuttosto involuzione, fino alla nuova alba in cui rinasce, in Italia, la pianta-uomo; ciò non sminuisce, peraltro, il riconoscimento fervidamente tributato all’altissimo poeta. Nelle pagine desanctisiane, convinte di rendergli giustizia, Dante non è più un termine problematico e bisognoso di legittimazione, poco o tanto generosa, riesce semmai il modello in grado di misurare una posterità raramente all’altezza e solo da poco memore del suo migliore passato. È da dire che i succhi nutritivi del pensiero vichiano e della filosofia idealista consentono a De Sanctis di liberarsi senza eccessivo sforzo della pregiudiziale basata sui generi letterari e sulle regole a essi immanenti: opera felicemente primitiva, e come tale comprensiva enciclopedia, vera e propria bibbia nazionale, la Commedia non si lascia ascrivere all’uno o all’altro dei generi, per il semplice fatto che li contiene in sé tutti, anzi li fonde e li unifica, tanto che «nessuno può segnare i confini che li dividono, né dire: questo è assolutamente epico, questo drammatico». Tanto meno condizionante il fattore allegorico: Dante, non c’è dubbio, riteneva l’allegoria salvacondotto della poesia, giustificando col senso riposto il manto esterno di favole, ma questa è una poetica falsa, c soprattutto è una poetica scarsamente incisiva sul testo concreto, superata com’è dalla spinta interna che anima la Commedia, travolgendo i programmi dello stesso autore. Siamo alla nota antinomia desanctisiana tra «mondo intenzionale» e «mondo effettivo» dell’opera, antinomia che giova intanto a metter fuori gioco l’intelaiatura allegorica, non senza appello a una moderna e alternativa poetica, secondo la quale l’arte è certamente «forma», ma non come veste e velo, bensì come «cosa» in cui l’«idea» è passata, come «figura» in cui il «figurato» si è risolto interamente. Nessun peso artistico possiede la dottrina nascosta sotto il velame: conta non ciò che è nascosto, bensì ciò che si vede, tutta la grandezza poetica sta lì, perfettamente accessibile a chi la sappia ravvisare, con buona pace della superstite scuola allegorista, ferma a una nozione della Commedia come trattato morale. La rivalutazione del senso letterale non significa, d’altra parte, devoluzione del capolavoro dantesco alla sfera trascendente dell’altro mondo, poiché Dante, entrando in quel mondo, vi immette tutte le passioni dei vivi, con i valori della famiglia, della natura, della patria, sicché il poema soprannaturale diventa umano e terreno. L’incessante interazione tra «cielo» e «terra» — i due mondi contemporaneamente attivi in Dante — è, secondo De Sanctis, la dialettica di base della Commedia; ma a cogliere l’effettivo significato che tale dialettica assume nel critico, occorre tener presente che nella sua prospettiva il primo termine equivale a «ideale» e il secondo, correlativamente, a «reale», binomio, quest’ultimo, declinato in una chiave schiettamente immanentistica, specie in certi pronunciamenti secondo cui «l’ideale non è cosa che sta in aria», ma è «generato» da quel «reale» che erroneamente gli viene contrapposto come «nemico», o almeno da un reale giunto a maturità, «perché la realtà nella sua evoluzione deve giungere a un punto in cui sia capace di crearsi da se stessa l’ideale». Sono assiomi scanditi al di fuori dell’analisi della Commedia; ma appartiene al De Sanctis dantista, impegnato a soppesare l’incastro di cielo e terra, di infinito e finito — «cielo e terra sono termini correlativi, e l’uno non può stare senza l’altro» —, appartiene, dicevamo, al lettore del poema sacro l’assicurazione che «il puro reale ed il puro ideale sono due astrazioni», visto che «ogni reale porta seco il suo ideale», e insomma «ogni uomo porta seco il suo Inferno e il suo Paradiso», tanto da rinchiudere nel suo seno «tutti gli Dei dell’Olimpo».
E allora il problema della finzione e della verità attive nel poema dantesco inevitabilmente si ricolloca: non riguarda più i tre regni ultraterreni, bensì quel nodo di inferno e paradiso che Dante porta con sé, accusando i contraccolpi del vissuto, alimentando le aspirazioni che ne sprigionano. In merito, è bene ricordare che l’imperativo del realismo attorno a cui gravita l'estetica desanctisiana — valorizzazione dell’oggetto, della corposa concretezza, del vigore dell’azione — non si riduce comunque a materialismo e positivismo, mantenendo invece forti legami con una qualificante piattaforma romantica. A veder bene, l’arte, per De Sanctis, non può appiattirsi su un reale inteso come «esistere materiale preso per sé, di sua natura accidentale ed arbitrario», ma deve includere quell’ideale che è «per rispetto al suo esistere materiale sempre un di là non raggiunto mai», da cui appunto la necessità della poesia, chiamata a combattere con la materia e a spogliarla della sua manchevolezza e imperfezione, puntando a quella configurazione compiuta in cui consiste propriamente il «vero». Vettore di questa trasformazione è la fantasia, vero e proprio deus in nobis, eminente facoltà creatrice e organica in grado di ricondurre a unità i dati dispersi e frammentari, e di raggiungere, con questa sintesi, l’essenziale, come avviene appunto nelle opere poetiche felicemente realizzate. Va dunque accantonata, quando si definisce la poesia nei suoi processi e nei suoi esiti, la categoria tradizionale di «finzione», inadatta a valorizzare tutta la «serietà» e la «verità» che contraddistinguono un fondo irrecusabile, una sostanza che non si può sottovalutare o smentire: «Una volta si dicea: la poesia è finzione. Oggi diremo: la poesia è trasfigurazione, è la realtà innalzata a verità». All’ufficio ancillare tradizionalmente in dotazione alla letteratura, accettata e giustificata come condimento dell’etica, subentra ben altra responsabilità. Non l’ammaestramento con l’espediente dei molli versi persegue il poeta, non la promozione dell’utile abilmente condito col dolce, bensì un’educazione dello sguardo, sospinto dalla realtà grezza e ignobile verso un esempio, il più possibile purificato, di bontà: questo il contributo insurrogabile che egli offre all’incentivazione in noi del «senso dell’ideale». Ora, la Commedia dantesca illustra esattamente questa dinamica, specie attraverso il personaggio di Beatrice, la donna santificata e idealizzata, ricca, nel poema sacro, di tutto quanto ha arricchito l’anima di Dante e, in definitiva, tipo del buono e del perfetto, di quella perfezione che ha coscienza di sé facendosi sapienza. Il cammino verso Beatrice e successivamente con Beatrice esprime la maturazione del protagonista verso soglie sempre più alte di ideale e riassume, in generale, il progredire dell'intera umanità. Un avanzamento, si badi bene, integralmente storico:
La poesia non è un’allegoria, ma una trasfigurazione, in cui il nuovo contiene l’antico. La storia è ella stessa, in ciò che ha d’intimo, un’alta poesia, poesia vivente. E che altro è la storia dell'umanità se non un passare indefatigato di forma in forma, di forme vecchie ed esauste in forme giovani e vivaci e sempre men corporali con costante indirizzo verso il suo tipo divino? E che altro è la storia della società se non un regolato progresso dalla fantasia alla ragione, dalla barbarie alla civiltà, dalla parola all’idea, dal simbolo al pensiero, da Beatrice donna a Beatrice idea? E qual è il concetto sostanziale dello stesso mondo dantesco se non un perenne salire di carne a spirito, d’inferno in paradiso?
Era la soluzione più brillante e valorizzatrice che una critica di impianto idealistico, sia pur corretto da preoccupazioni di realismo, poteva offrire al nodo critico della Commedia; una soluzione, tuttavia, che transvalutava l’asse verticale dell’accostamento ad Deum nell’asse orizzontale dell’evoluzione storica, presso il singolo individuo come presso il genere umano nel suo complesso. La forte sensibilità per la storia che impregna la Commedia nasce pur sempre da una visione in cui il tempo è orientato verso l’escatologia, nelle singole biografie, anzitutto, ma anche in quel processo complessivo che a un certo punto (impossibile da calcolare, ma indubitabile) giungerà a termine. E non pare senza ragione il rilievo secondo cui la cooptazione che l’epoca moderna ha attuato di Dante, proprio a partire dalle letture romantiche della Commedia, rappresenta un tentativo di neutralizzare, in Dante, ciò che esprime la sua alterità, vale a dire il senso dantesco della storia come « certezza della sua conclusione », prospettiva incompatibile con la modernità e con la sua tipica secolarizzazione che, in luogo della fine dei tempi, ipostatizza un futuro aperto.
Ancor più radicale nell’accantonamento del viaggio oltremondano, e perciò della sua stessa problematicità come sporgenza meritevole di attenzione e approfondimento, si mostra, all’inizio del nuovo secolo, Benedetto Croce, alternando gli umori volterriani alla divisa di una critica rigorosamente estetica e perciò indifferente alle componenti spurie (o stimate tali) del fenomeno artistico. Integralmente immaginario, l’itinerarium è anche irreversibilmente datato, il reperto fossile di una civiltà remota. Nessun tentativo, in queste pagine, di risignificare il lungo pellegrinaggio, di assumerlo entro un orizzonte di interessi attuale e vivo. Se un parallelo si può avanzare con un fenomeno moderno, varrà per stabilire un nesso di somiglianze e discordanze. Croce ne è consapevole: il Medioevo è proiettato verso l’escatologia, l’epoca moderna celebra invece la rivincita del futuro sull’aldilà. E allora, la Commedia, senza poter essere aggregata all’oggi, trova semmai nell’oggi un corrispettivo simile e diverso, vale a dire la serie più o meno fortunata dei romanzi «scientifici» e «socialistici», intenti a delineare i profili di un domani desiderabile, a dar colore e peso alle utopie, magari situando le città avveniristiche in luoghi remoti, ed esprimendo in questo modo la dislocazione temporale attraverso le innumerevoli miglia di uno spazio ancora vergine. Denominatore comune, tra il poema dantesco e siffatta produzione, tra il «romanzo teologico» e quelli di impostazione più aggiornata? La volontà di «divulgare» e «rendere altrui accetto e desiderabile» qualcosa che si crede e si attende, presentandolo «con l’aiuto dell’immaginazione», fermo restando che la salvezza ultraterrena promessa un tempo dalla teologia non è esattamente l’avvenire annunciato dalle scienze naturali e dalle inchieste sociologiche. Per le varie utopie, specie se banalizzate da una letteratura di consumo, Croce non sembra nutrire simpatie molto maggiori di quante non ne mostri per le visioni medievali; si compiace infatti di avvicinare i fruitori più ingenui delle une e delle altre, altrettanti esempi di un’inguaribile credulità. Se donnette superstiziose, nella Verona del Trecento, avevano prestato fede alla discesa nel baratro infernale come alla risalita verso le stelle sublimi, analogamente i devoti odierni di un’aspettativa secolarizzata, prendendo alla lettera immaginose mappe e ubicazioni di comodo, confidarono nell’esistenza delle varie città del sole, «e talvolta usarono la vela e il remo per raggiungere le terre promesse e le isole della felicità». A ciascuno il suo: nemmeno per i romanzi su Utopia o Icaria (e per il pubblico corrispettivo) il filosofo neoidealista ha un debole. Non dimentichiamo, comunque, la preoccupazione fondamentale che detta i suoi rilievi. Sì, una produzione medievale e una produzione moderna possono essere per certi versi accostate, nonché argutamente sottoposte a incriminazione e scomunica, ma l’obiezione ugualmente diretta verso entrambe è qui soprattutto estetica: tutti questi testi risultano artisticamente impropri, in quanto l’immaginazione compie in essi «un’opera affatto pratica», persuadere, appunto, intorno a ciò che non si vede ancora ma si spera con fervore, e insomma rinsaldare una credenza dipingendo un’attrattiva.
In definitiva, il tragitto di Dante, cui l’ingenuità presta fede, cui la maturità riserva un sorriso superiore, appartiene alla «struttura» della Commedia, non certo alla sua poesia, la quale sta altrove, negli scorci immuni dall’istanza didascalica, apprezzabili ciascuno in sé e per sé. Per un momento, abbiamo la tentazione di sovrapporre il filtraggio effettuato da Croce, quel suo delimitare e degustare episodi avulsi dall'insieme, all’intemperante selezione progettata da Saverio Bettinelli: alcune pagine (non troppe) coi versi belli (non frequentissimi) di un poema per l’ordinario così uggioso. Tentazione da respingere, beninteso, data la sproporzione intellettuale tra le due figure e il diverso indirizzo delle rispettive proposte. Ma è chiaro che ogni destituzione della trama della Commedia comporta anche il ridimensionamento del plesso problematico relativo alla finzione e alla verità, plesso che diviene, per conseguenza, di scarso peso.
Eppure, Croce è costretto a fermarsi sull’attendibilità del viaggio. Lo sollecita una tesi di origine ottocentesca destinata a prender piede nel XX secolo, la tesi, inizialmente adombrata dal Foscolo, di un’intima convinzione vissuta da Dante e trasfusa nella Commedia: coltivando certo un'illusione, ma non un’impostura, il poeta avrebbe creduto in una visione effettivamente largitagli da Dio, in vista di una missione profetica a pro dell’umanità errante. Non possiamo, in questa sede, restituire con la debita attenzione la proposta foscoliana, né le sue successive riprese, fra cui quella di Bruno Nardi. Possiamo però registrare la replica di Croce. L’indiscutibile impronta di realtà presentata dal racconto dantesco non indurrà, osserva Croce, nessun lettore di buon senso a un’impossibile apertura di credito; e nemmeno riuscirà ad avvalorare, in subordine, l’ipotesi di un’autosuggestione dell’autore, come se Dante, senza poter persuadere i destinatari, o almeno i destinatari più smaliziati, avesse potuto persuadere se stesso, prendendo davvero le ombre come cosa salda. È un punto su cui Croce è tranchant, come all’occorrenza sapeva essere, senza tentennamenti e concessioni:
Ma che le meticolose spiegazioni che egli dà sulla configurazione dei luoghi e sui modi del viaggio, e sul tempo che gli occorse per compierlo, e sui fenomeni che osservò, e, soprattutto, le dissertazioni con le quali spiega e giustifica quelle cose immaginate e le tratta come fatti reali che confermano una teoria scientifica e ne sono confermati, rechino prova che esso stesso fosse ingannato dalle proprie immaginazioni e le prendesse per fatti reali, e cadesse in una sorta di allucinazione; questo, sebbene sia stato in vari modi sostenuto, non è per niun conto da ammettere. E non già perché con tale ipotesi s’introdurrebbe nel genio di Dante una troppo grande mistura di demenza e si verrebbe meno al rispetto che gli si deve; ma veramente perché Lupo contrasta alla limpidezza e consapevolezza della mente e dell’animo di lui [...].
Drastica sentenza finale, con motivazione impostata su un giro curioso, che vorrebbe scandire un doppio passo del ragionamento, una prima e una seconda argomentazione, l’una introduttiva, l’altra più cogente, ma che in sostanza non fa che ribattere lo stesso chiodo. L’inammissibile ipotesi dell’autosuggestione contrasta con l’altezza di una mente sempre trasparente a se stessa. Genio e ragionevolezza: il binomio non è proprio scontato, ma a Croce va benissimo e del resto torna perfettamente funzionale alla sua requisitoria. È intrigante: all'approccio, inaudito e dirompente, che nega, dissociandosi da un’impostazione plurisecolare, il presupposto della finzione, Croce reagisce ribadendo che quel presupposto è senz'altro un’evidenza. Sembra di riascoltare un antico scatto: Nam quis sani intellectus crederet...? Dal proprio osservatorio di postero alquanto tardo, persuaso senza problemi dell’insindacabile eccezionalità di Dante, specie dopo l’impennata romantico-risorgimentale di un entusiastico culto, il moderno filosofo può semmai soggiungere che la demenza è tanto meno attribuibile a un individuo geniale, impermeabile, di necessità, a deliri ce vaneggiamenti.
Ma la messa in questione dell’inveterato preliminare era destinata a incrementarsi. E non solo a partire dal profilo del Dante-profeta, accreditato da Foscolo e quindi da Nardi. Intorno alla metà del Novecento, le acque dovevano essere di nuovo agitate da una scommessa ermeneutica non meno destabilizzante, quella di Charles S. Singleton, per il quale Dante scrive come Dio, suggerendo cioè significati non attraverso favole, ma mediante res gestae. Una sfida ulteriore, di grande acutezza. E la Commedia-finzione, portato teorico ancora vivo, ma non più incontrastato, si troverà stabilmente accanto i nuovi esiti critici: da una parte, la Commedia-visione, dall’altra, il poema scritto al modo della Bibbia. A quel punto, non basterà controbattere in nome di un’evidenza ormai non più tale: occorrerà invece fornire alla tesi della fictio le prove necessarie. E per quel teorema, non più scontato, comincerà una nuova fase, imparagonabile con le precedenti.