Dati bibliografici
Autore: Arturo Reghini
Tratto da: L’allegoria esoterica in Dante Alighieri
Editore: Edizioni Aurora Boreale, Prato
Anno: 2022
Pagine: 9-27
Sotto il senso letterario della Commedia, ossia sotto la peregrinazione di Dante attraverso i tre regni dell'Inferno, del Purgatorio e del Paradiso, si nasconde senza alcun dubbio una allegoria. Non c'è bisogno delle esplicite dichiarazioni di Dante in proposito per esserne certi. Questa allegoria non è semplice, ma molteplice e dai commentatori ne vengono di solito riconosciuti due aspetti, quello morale e quello politico.
L’interpretazione morale, o filosofico-morale, vede allegoricamente raffigurata nella Commedia la via che l’uomo deve percorrere per superare il peccato e raggiungere la virtù in modo da sfuggire all'inferno ed al purgatorio e da guadagnare colla perfezione morale il paradiso.
Questa allegoria, come del resto il senso letterale del poema sacro, ha innegabilmente un aspetto nettamente cristiano pure abbondando di elementi pagani; e sulla scorta di Aristotile, di S. Tommaso e della scolastica è stato profondamente penetrato dai commentatori.
L'allegoria politica ha per base la lotta tra l'Impero ed il Papato, e vi figura largamente anche la persecuzione dei Templari da parte di Filippo il Bello e di Clemente V. Naturalmente vi sono dei passi suscettibili della sola interpretazione morale, altri rivestiti del solo simbolismo politico, ed altri ancora che comportano una doppia interpretazione morale e politica. L'allegoria politica è quasi sempre trasparentissima e molte volte Dante fa addirittura a meno di ogni velo e fa manifesta tutta la sua visione lasciando pur grattar dove è la rogna. L'allegoria morale ha una apparenza talmente cristiana da autorizzare tutti i cristiani e tutti i frettolosi nel concludere ad attribuire a Dante una ortodossia cattolica, mentre l’allegoria politica ci rivela con tutta sicurezza un Dante partigiano dell'Impero e nemico acerrimo della Chiesa, difensore a viso aperto di quell’ordine dei Templari condannato e ferocemente perseguitato per eresia dalla Chiesa, un Dante che esalta Cesare, l'Impero romano, la civiltà classica, e che elegge a propria guida, maestro e signore Virgilio pitagorico ed imperialista.
I motivi che hanno indotto Dante a servirsi dell'allegoria non sono dunque di natura politica, inerenti alla sua posizione nella lotta tra Guelfi e Ghibellini, perché in tal caso sarebbe naturale di trovare più fitto il velo nei passi che trattano di politica, mentre invece il velo si fa più spesso nei passi che trattano argomenti di morale, di filosofia, di religione, di metafisica; e talora per quanto i commentatori aguzzino gli occhi non riescono a chiarire il senso, oppure ognuno di essi finisce coll’intendere diverso dagli altri.
Quale è dunque la ragione che ha spinto Dante all'uso dell’allegoria, anche a costo di non farsi facilmente capire? Fantasia di poeta? Passione per l'enigmistica? No certo, perché noi sappiamo che una dottrina si asconde sotto il velame delli versi strani. E se l’apparenza è cristiana non potrebbe la scelta differire dall’apparenza? Non potrebbe la dottrina così gelosamente nascosta essere eterodossa, molto eterodossa? Sicché Dante puzzerebbe forte di eresia e sarebbe un nemico della Chiesa anche sul terreno religioso oltre che su quello politico? Le professioni di fede cristiana che egli fa ripetutamente non bastano ad eliminare il dubbio. Se egli infatti era eretico o pagano e non voleva finire arrosto, era forzato a professarsi cristiano. E specialmente volendo levarsi il gusto di esaltare Virgilio, Cesare, Roma che il buon mondo feo, il latin sangue gentile, e gli imperatori che avevano aspetto gentile ossia pagano, occorreva in qualche modo tranquillizzare i sospetti facendo anche l’apologia del Cristianesimo.
Bisogna ricordare che in quei tempi la carità cristiana poteva sbizzarrirsi a suo piacimento; i numerosi seguaci di quel S. Domenico che negli sterpi eretici percosse animato dal santissimo zelo di salvare le anime (nonché la Chiesa pericolante) andavano per le spiccie e Dante stesso aveva umani corpi già veduti accesi. A che prò fare la fine che poi toccò a Cecco d’Ascoli, quando era possibile dedicare la vita, e l'enorme ingegno e sapienza ad un grandioso disegno politico e religioso? Nonostante le sue professioni di fede cattolica, Dante aveva amici che andavan cercando come Dio non fosse, ed eretici dello stampo di Sigieri egli ficca tranquillamente in paradiso, mentre popola di papi l'inferno.
Dante stesso fu accusato di eresia secondo quanto risulta da antichi documenti, e secondo quanto narrano i suoi primi commentatori. L'eresia pagana di Dante fu sostenuta dal Foscolo, e poi dal Rossetti con enorme copia di argomenti, ed infine dal prete cattolico Aroux. Un gesuita che volle fare la critica delle opere del Rossetti si ebbe da questi tale esauriente replica che più non fiatò. Non si pone mente che anche nell’apparenza Dante non segue sempre pedissequamente San Tommaso; ne differisce apertamente in questioni importantissime; p.e., nella dottrina escatologica (Purg. XXV 88-102) per adottare una teoria delle ombre dei defunti che è in perfetto accordo colla concezione pagana.
Egli fin da principio si inspira a Virgilio, da cui solo prende lo bello stile che gli ha fatto onore. Il suo poema non è che una commedia; e comunque si intende la parola, nel senso moderno od in quello dionisiaco, si è sempre condotti lontano dall’apparente senso cristiano. Nelle grandi linee la Commedia è uno sviluppo del VI canto dell'Eneide, e Dante ripete quanto Virgilio fa fare ad Enea. Enea scende vivente nell’Ade, rinviene nella selva il ramoscello di mirto degli iniziati, ed apprende de visu la verità dei Misteri Orfico-Pitagorici sopra l'uomo e la immortalità condizionata. Ed anche Dante corruttibile ancora, ricalca la medesima strada collo stesso scopo e facendo uso del medesimo simbolismo.
Scopo fondamentale, come oramai è noto e provato, dei Misteri Orfici, Pitagorici, Eleusini, Isiaci, era quello di conferire all’iniziato la conoscenza vera dei principii della vita (Cicerone - De Lege, II, 14), la beatitudine, l'immortalità privilegiata. Ciò si otteneva mediante la iniziazione che constava di preliminari pratiche catartiche, di cerimonie simboliche e di vere e proprie estasi come ci affermano Plutarco, Apuleio, ed altri antichi scrittori e come oramai si viene riconoscendo dai moderni (Vedi p.e. Macchioro - Zagreus). Per tal modo l’uomo veniva rigenerato e dopo la morte lo attendevano i Campi Elisii.
Il soggetto della Commedia è l'uomo, o meglio la rigenerazione dell'uomo, la sua metamorfosi in angelica farfalla, la Psiche di Apuleio. È dunque il medesimo soggetto dei Misteri. Non le sole qualità morali cambiano; Dante si purifica di grado in grado, passa per crisi e coscienze varie e numerose, cade come corpo morto, sviene, rinviene, si addormenta, si ravviva nell’Eunoè, la sua mente esce di sé stessa, si illuia, si india, si interna, s’infutura, s’insempra, passa al divino dall'umano, all’eterno dal tempo, e finalmente dislega l'anima sua da ogni nube di mortalità. Questo non è un perfezionamento morale, è una vera palingenesi di tutto l'essere che si attua nel simbolico viaggio. Il velame asconde non soltanto delle disquisizioni morali sopra i peccati e le virtù, ma l'esposizione di mutamenti interiori nella coscienza del pellegrino.
I due fiumi del paradiso terrestre sono un evidente imprestito ai Misteri Orfico-Pitagorici.
Scoperte archeologiche recenti han fatto rinvenire le così dette laminette auree di Turii, che venivano sepolte insieme al defunto orfico, cui dovevano servire di viatico, quando arrivava nell’Ade. Quivi egli incontrava due fonti, quella del Lete e quella di Mnemosine, ossia quella dell'oblio e quella della memoria. Bevendo all'acqua del Lete, il defunto perdeva ogni memoria, e finiva, miserabile larva incosciente nel fango. Bevendo alla fresca sorgente di Mnemosine si salvava, ed andava tra gli immortali, nei Campi Elisii. La formula contenuta nella laminetta orfica affermava: «Son figlio della terra e del cielo stellato. Fammi dissetare alla fresca sorgente di Mnemosine, perché io possa essere nume divino e non più mortale». Questo il senso della formula invocatoria orfica; e questa concezione orfico-pitagorica è analoga alla concezione escatologica dei Misteri Eleusini, ed è svolta nella teoria platonica delle anime e della conoscenza. Dante, a meglio affermare il carattere pagano delle catarsi del purgatorio, da cui esce puro e disposto a salire alle stelle, introduce alla fine della cantica non solo il Lete, ma il meno familiare Eunoè (Purg. XXVIII, 131; XXXIII 127- 145), come egli lo chiama, che «la tramortita sua virtù ravviva», ossia che dà a chi è morto la resurrezione, la seconda nascita.
Dante vorrebbe pur cantare in parte lo dolce ben che mai non l’avria sazio; ma si dà la combinazione che ei non ha più lungo spazio, sono piene tutte le carte ordite a questa cantica seconda; e sopra tutto non lo lascia più ir lo fren dell’arte. Adelante, Pedro, con juicio: siamo in pieno mistero pagano. E chi consideri quale sia stata la guida di Dante capisce che doveva condurlo proprio lì. Dante, smarrito nella selva selvaggia ed aspra e forte dei pregiudizi e dell'ignoranza cristiana, incontra finalmente in Virgilio, la personificazione della sapienza esoterica, questa voce che per lungo silenzio (dieci secoli di era volgare) pareva fioca; e Virgilio si presenta immediatamente nella sua qualità di iniziato, che ha trasceso la natura umana: «Non uomo, uomo già fui»; ed è per questo che Dante lo prende per duca, maestro e signore che lo inizii e lo renda immortale. Ora la concezione pagana non accordava alle anime umane una vera e propria sopravvivenza; conducevano nell’Ade una vita immemore di larve incoscienti; e solo gli iniziati, gli eroi e quei che Giove rapiva al sommo concistoro erano immortali. Ed il Cristianesimo ebbe il sopravvento sopra i Misteri, perché mise democraticamente la salvezza e l'immortalità à la portée de tout le monde. Bastò andare a farsi battezzare e credere che Gesù era risuscitato per essere salvato. Una vera cuccagna per tutti i poveri di spirito, e per tutti i delinquenti cui i Misteri chiudevano la porta. Arnobio, per esempio, spiattella pari pari di essersi fatto cristiano perché il Cristianesimo a differenza dei Misteri garantiva a tutti l'immortalità.
Dante, che prende a guida Virgilio, e che tratta paganamente tutta la questione della palingenesi, pensava dunque anche egli che non tutti gli uomini potevano eternarsi? Che le credenze cristiane non erano sufficienti allo scopo? Che le pecore matte ed i superbi cristiani non avevano diritto di cittadinanza nella città eterna, e dovevano finire tra la perduta gente? Parrebbe di sì, posto che non dai preti ma da Brunetto Latini egli apprese “come l’uom si eterna”.
Esaminando l’opera di Dante senza preconcetti e partiti presi, si arriva a riconoscere nella rinascita spirituale mediante la metamorfosi operata dall'iniziazione il soggetto fondamentale della Commedia, la dottrina nascosta sotto il velame delli versi strani. L'allegoria dantesca ha dunque un importantissimo aspetto mistico, metafisico, veramente esoterico. Aspetto che ancora non è stato riconosciuto. Esso sfugge anche al Rossetti ed all’Aroux, i quali pure riconducendosi per l’interpretazione dell’allegoria ai Misteri classici, si riferiscono sempre alla parte cerimoniale di essi. Ed è naturale che sia così, perché per potere accorgersi ed intendere le allusioni ed i riferimenti convenzionali od allegorici occorre conoscere l'oggetto dell’allusione o dell'allegoria; ed in questo caso occorre conoscere le esperienze mistiche per le quali passa il mistero e l'epopta della vera iniziazione.
Per chi ha una qualche esperienza del genere non vi ha dubbio sopra l’esistenza nella Commedia e nell'Eneide di una allegoria metafisico-esoterica, che vela ed espone le successive fasi per cui passa la coscienza dell’iniziando per divenire immortale.
Il simbolismo di cui più frequentemente si serve Dante è quello della navigazione, della peregrinazione. Egli è un pellegrino per la diserta piaggia, per lo stretto passo, per l’aspro diserto, prende un'acqua che mai non vi corse, è un navigante pel mar dell'essere. Specialmente il simbolismo del mare, della nave, della vela è sempre adoperato per trattare dei fatti interiori. È questo velame che egli alza per correr migliore acqua; e come egli stesso dice è sotto questo velame che si asconde la dottrina. È un simbolismo arcaico, mediterraneo, pagano, già usato da Virgilio e da Ovidio. Esso è usato anche dai cristiani che di navi e navate parlano nei loro templi riferendosi alla navicella di S. Pietro. Ma questa navicella è frutto di una delle tante appropriazioni compiute dai seguaci del profeta asiatico; non è altro che la navicella di Giano; di un Dio cioè prettamente romano, sposo di Venilia, la dea del mare e delle sorgenti, ed inventore della costruzione dei navigli. Si vede che cosa diventa l'impresa di Ulisse nella Commedia. Ulisse, il navigatore per eccellenza, ha un tale ardore a divenir del mondo esperto, e delli vizi umani e del valore che non è vinto dalle dolcezze del figlio, dalla pietà del vecchio padre, e dal debito amore di Penelope; e perciò si mette per l'alto mare aperto; e dopo averne navigato tanto da divenire vecchio e tardo viene finalmente a quella foce stretta, ov'Ercole segnò li suoi riguardi acciocché l’uom più oltre non si metta. Ma Ulisse ed i suoi compagni non tornano indietro per questo; anzi ricordano che non sono stati fatti a viver come bruti ma per seguire virtute e conoscenza; e quindi si avventurano con folle volo nell'alto passo per ottenere l’esperienza del mondo senza gente, di retro al sol; cioè di quella condizione in cui la coscienza vive di vita tutta interiore, al di là e fuori di ogni celebrazione dovuta ai sensi umani, ed in cui non c'è né gente né sole.
Ma questa è un'acqua assai perigliosa e non tutti possono trarsi a riva e volgersi a guardare lo passo che non lasciò giammai persona viva, e che può superare solo chi muore di morte mistica. È un varco folle (Parad. XXVII), un'impresa assai ardua, non pileggio da piccola barca (Parad. XXIII), e c'è da rimanere travolti e sommersi dal mare dell’essere che si richiude sopra il temerario. Questo dice Dante, dopo avere premesso: (Inf. XXVI, 21) «più l'ingegno affreno ch'io non soglio».
Ma Dante non va come Ulisse alla ventura; egli è guidato da Virgilio, più savio che ei non intenda, e per ascoso cammino giunge a riveder le stelle. Per correr migliore acqua alza la vela della navicella del suo ingegno; e dopo le varie pratiche e cerimonie che subisce nel purgatorio, si purga ritualmente e ravvivatosi nel fonte di Eunoè, ne esce rinnovellato di novella fronda, puro e disposto a salire alle stelle (Purg. XXXIII). Dopodiché è opportuno invocare il buon Apollo all'ultimo lavoro (Parad. I). All’aspetto di Beatrice ci si fa tale dentro, qual si fè Glauco nel gustar dell'erba che il fè consorte in mar degli altri Dei (Parad. 1,69- 70), ossia si sente morire e divenire immortale come Glauco, quel Glauco che dice di sé: Ante tamen mortalis eram, sed scilicet altis deditus aequoribus (Ovid. Met.) Dante non sa proprio dire altro e si scusa dicendo che: «Trasumanar significar per verba non si poria; però l'esempio basti a cui esperienza grazia serba» (Parad. I, 70-72). Per verba nonsi può, ma per erba sì.
Egli non ha più l'illusione del mondo materiale, ha un altro senso della realtà: «tu non se’ in terra, sì come tu credi» ma tu siedi al tuo proprio sito; giacché come dice nel Conv. IV, 28: «la nobile a nima ritorna a Dio, siccome a quello posto, ond’ella si partia quando venne a entrare nel mare di questa vita». Cosa accade delle anime non nobili non è detto.
Ed ora che si sente del mortal mondo remoto (Par. II) si sente a sua volta in grado di far da guida non agli altri che sono in piccioletta barca, ma a quei pochi che drizzano il collo per tempo al pan degli angeli, l’ambrosia che rende immortali come l’erbetta di Glauco. È vero che l’acqua che ei prende giammai non si corse; ma egli ci ha tutta la sapienza pagana che lo assiste: «Minerva spira, e conducemi Apollo e nove muse mi dimostran l’Orse» e Dante incoraggia questi pochi navigatori a mettere tranquillamente per l’alto sale il loro naviglio, servando s'intende il suo solco dinanzi all'acqua che ritorna eguale; e promette loro meraviglie da stare a pari di quelle che videro quei gloriosi argonauti che seguirono quell'altro navigatore ardito che conquistò il vello d’oro (Parad. IL, 1-18). Ed infatti, giunto alla fine della navigazione, e giunto l'aspetto suo col valore infinito (Parad. XXXIII), arriva a vedere che nel suo profondo si interna, legato con amore in un volume ciò che per l'universo si squaderna. Crede di avere visto la forma universal di questo nodo; e ne resta ammirato quanto rimase ammirato Nettuno, quando vide l'ombra d'Argo ossia la nave Argo, la prima nave che solcò i mari. I pochi che han servato suo solco sino alla fine vedono dunque che Dante mantiene la promessa fatta loro nel canto II. Così si spiega questo passo che è uno dei più oscuri di tutto il poema. Ma, intendiamoci, una vera spiegazione si può dare solo a quelli che passano per consimili esperienze; giacché questo è un mistero che «intender non lo può chi non lo prova»; ed io non posso che ripetere le parole di Apuleio dopo l'iniziazione: Ecce tibi rettuli, quae, quamvis audita, ignores tamen necesse est (Apuleio - Metam. XI, 23).